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7. DALLA CRIS

9.10 Nuova Gibellina Il grande cretto di Burri e il Sacro Bosco di Beuys

analizzare il caso italiano di Nuova Gibellina. Gibellina è stato un paese siciliano, distrutto dal terremoto del gennaio 1968. L'evento ha procurato circa trecento (il numero esatto è ignoto) vittime e reso inagibili non solo Gibellina, ma diversi paesi della valle del Belice. La Nuova Gibellina è nota per la decisione “forte” del Senatore Ludovico Corrao (allora sindaco) di ricostruire una nuova città con una spiccata inclinazione creativa convogliando e coinvolgendo artisti e architetti di spicco. L'operazione è partita da un intento nobile, ovvero di fondare un luogo di interesse paesaggistico che potesse fare da controcanto contemporaneo, ai siti archeologici siciliani ricchi di architetture e di manufatti di pregio. Nuova Gibellina è nata dunque come un tentativo per riallacciare legami culturali con le preesistenze storiche attraverso la costruzione materiale di opere altrettanto 'monumentali' rispetto allo splendore dei manufatti antichi che caratterizzano la Sicilia. Queste opere nuove avrebbero dovuto esprimere le capacità creative contemporanee, con uno spirito di rinascita. C'era un proposito turistico, attrarre in quel territorio, poco noto prima del sisma, un turismo alternativo e nello stesso tempo fornire il comfort necessario ai cittadini rimasti senza abitazione. Va considerato che la ricostruzione non è avvenuta sul sito su cui sorgeva la vecchia Gibellina, ma fu individuata un'area considerata più sicura nell'agro di Salemi a una ventina di chilometri di distanza dalla città distrutta. Il carattere estremo delle critiche attuali forse scaturisce anche dal fatto che Nuova Gibellina è tra i pochi casi in Italia di città di nuova fondazione negli anni '80. In Italia le distruzioni causate dai bombardamenti o eventi catastrofici, come in questo

caso il sisma, sono state dopo l'epoca fascista le uniche ragioni per un progetto di trasformazione necessaria, ma tuttavia volontaria, del paesaggio. La storia urbanistica europea del dopoguerra ci offre un ventaglio di possibili reazioni creative che vanno dalla ricostruzione filologica della città distrutta, copia di se stessa, all'opposto: la città nuova che veste lo stile del proprio tempo come è avvenuto ad esempio, ma in modo non assoluto a Kassel (DE). In Italia le ultime operazioni a scala paesaggistica (non a scopo ricostruttivo) risalgono all'epoca fascista con le famose bonifiche e la fondazione di città come Littoria nominata in seguito come Latina. La mancanza di un'attitudine al pensare azioni progettuali nel paesaggio credo possa avere alla base una mancata abitudine. Così quando pensiamo al paesaggio prevale inevitabilmente in Italia una visione culturalista (Choay, 2000) ritenendolo come la sovrapposizione dei processi, dei segni e dei manufatti costruiti e ricostruiti più volte sulle proprie rovine in una sorta di staffetta continua che permette il passaggio del testimone. Non siamo invece abituati a cesure volte alla creazione di nuovi paesaggi: manchiamo in adaptability, definita come l'abilità di trasformazione senza trauma109 (Go, Lemmetyinen and Hakala, 2014, p.40). D'altro canto si riscontra sempre, in ogni proposta di mutamento del territorio, un atteggiamento di ritrosia da parte degli attori coinvolti, che vorrebbero conservare lo status quo. Sebbene esperire un'opera d'arte contemporanea può portare ad una epifania in alcuni individui pronti, il pianificatore non può aumentare l'adaptability di un sistema socio-territoriale o sarebbe percepito come un manipolatore; dobbiamo probabilmente pensare che le trasformazioni possono avvenire non solo con un salto (jumping), che può procurare traumi, ma con un più lento scivolamento (shifting) da un equilibrio dinamico ad un altro. Se osserviamo il tronco di una quercia non percepiamo traumi, eppure, cambiando prospettiva, entrando nell'albero, la superficie è data da lenti traumi che hanno dilatato il diametro del tronco; e la corteccia è l'insieme di tutte le cicatrici necessarie alla crescita. Alla luce di queste considerazioni, la scelta di fondare una nuova città distante dalla Gibellina distrutta è stata vissuta dagli abitanti come un trauma che si è aggiunto al trauma del terremoto. Come chiarisce Anna Guillot, «Gibellina (...) diviene intricata metafora. Ipotizzare una mappa sintetica dei luoghi-casi dell’arte contemporanea in Sicilia conduce per logica all’epicentro del grande trauma, quello del gennaio 1968, punto da cui guardare i 38 anni di percorso politico e socio- culturale tipicamente italiano. Eppure Dream in progress, il grande progetto en plein air per Gibellina avviato da Ludovico Corrao, voleva riproporre la città come un concentrato contemporaneo all’insegna dell’arte. Architettura e arti visive hanno dato conforto e volto nuovo al luogo derelitto. Gibellina la

Nuova fu definita “la città del sogno, della scommessa, dell’utopia”. Gli interventi di Fabbri, Quaroni,

Purini e Thermes, Venezia, Samonà, Gregotti, Mendini, Vigo, Consagra, Melotti, Accardi, Pomodoro, Isgrò, Paladino, Burri (il cretto-sudario), Beuys (le 300 querce, Sacro Bosco) diventano indici supremi di rispetto e auspicio. L’impianto planimetrico a forma di farfalla ideato da Marcello Fabbri, a 15 109 “the ability to transform without trauma”

chilometri dalla città vecchia, oltre alla forte tensione utopica e alla minuziosa cura rivolta alla dimensione modellistica, riservava uno speciale interesse ai temi della partecipazione, peraltro autorevolmente avallati (Dolci, Zevi), tanto da rendere la città nuova in quegli anni modello di dibattito sul ripensamento generale della città futura - seppure, probabilmente, con una certa titubanza circa le possibilità comunicative del linguaggio contemporaneo. Ma forse simili intenti e cautele hanno investito soltanto una dimensione auspicata, sognata. Perché la gente del luogo non ha voluto o potuto verificare nei nuovi connotati urbani un minimo di continuità antropologica, avvertire un qualche senso di appartenenza, o semplicemente vivere vie e piazze come comuni luoghi di socializzazione» (Guillot, 2006).110 L'arte in qualche modo impedisce l'uso quotidiano degli spazi pubblici. Inibisce. Da una prospettiva contemporanea Gibellina la Nuova viene sottoposta oggi, dagli esperti in varie discipline, a critiche anche tranchant. Credo che alcune siano fondate, ma che sia necessario ponderare il giudizio contestualizzando la scelta di Carrao nello spazio-tempo che l'ha prodotta. È stato deciso di abbandonare la città vecchia non solo per la volontà innovatrice di Ludovico Carrao, ma anche perché, nel suo crollo, la città aveva mostrato al resto dell'Italia uno stile di vita ritenuto vergognoso: va ricordato che quella stessa civiltà, travolta dal vento del progresso di marca positivistica, aveva promosso solo due decenni addietro lo sgombero dei Sassi di Matera attualmente ritenuti un luogo esemplare per la manifestazione spaziale dei rapporti comunitari. Sicuramente non si può non concordare sul fatto che l'operazione non sia riuscita a pieno dal punto di vista urbanistico e paesaggistico: nonostante i molteplici artefatti di estremo interesse artistico e architettonico la Nuova Gibellina non è abitata dal senso di appartenenza. È importante credo il punto di vista degli abitanti: il materiale audiovisivo disponibile in rete e in particolar modo il video Carta Bianca. Storie di Gibellina Nuova (21', 2012)111 di Annamaria Craparotta, Alessandro Lo Cascio, Mapi Rizzo mette in luce che, nonostante sia passato un lasso di tempo notevole, le persone avvertono tuttora di vivere in un paesaggio fantasma. Nuova Gibellina è in definitiva da considerare un esperimento il cui risultato, diverso rispetto all'ipotesi di partenza, risulta utile per evitare la reiterazione di alcuni errori. Ma nel 1981 è avvenuto qualcosa di straordinario. Infatti Alberto Burri, tredici anni dopo il terremoto, venne chiamato a collaborare alla costruzione della nuova Gibellina, ma l'artista, forse sensibile ai già evidenti disequilibri causati dagli incroci degli impeti creativi, decise di operare nei pressi della città morta. L'artista scrisse: «Andammo a Gibellina con l’architetto Zanmatti, il quale era stato incaricato dal sindaco di occuparsi della cosa. Quando andai a visitare il posto, in Sicilia, il paese nuovo era stato quasi ultimato ed era pieno di opere. Qui non ci faccio niente di sicuro, dissi subito, andiamo a vedere dove sorgeva il vecchio paese. Era quasi a venti chilometri. Ne rimasi veramente colpito. Mi veniva quasi da piangere e subito mi venne 110 Bigi D., Guillot A. (a cura di) Arte contemporanea in Sicilia, in Arte e Critica periodico trimestrale, anno XIII, numero 47, luglio-

settembre 2006.

l’idea: ecco, io qui sento che potrei fare qualcosa. Io farei così: compattiamo le macerie che tanto sono un problema per tutti, le armiamo per bene, e con il cemento facciamo un immenso cretto bianco, così che resti perenne ricordo di quest’avvenimento». È possibile annoverare in Italia diversi interventi nello spazio pubblico (Detheridge, 2012; Scardi, 2011), ma questo ha una portata decisamente monumentale che lo distingue da ogni altra operazione artistica nel paesaggio italiano. L'opera è evidentemente legata alle grandi opere della land-art storica. Per tredici anni le macerie erano rimaste tali e così Alberto Burri progettò un enorme opera site-specific (ottomila metri quadri) che, come un sudario, copre con una materia bianca le rovine della città mostrando la struttura viaria: i percorsi sono larghi dai due ai tre metri, mentre i blocchi sono alti circa un metro e sessanta. I lavori di costruzione, iniziati nel 1985 subirono un arresto nel 1989 per poi essere completati nel 2015. In occasione del completamento di questa opera monumentale è stato organizzato il Primo Cretto Earth Festival che si è svolto nel Grande

Cretto di Burri il 17 ottobre 2015. L'evento è stato pensato per non dimenticare la tragedia del 1968

attraverso una performance collettiva e partecipativa dal titolo AUDIOGHOST68 appositamente concepita per il Grande Cretto dal musicista Robert Del Naja e dall'artista Giancarlo Neri. Tracce sonore ed effetti luminosi e «mille lucciole bianche si muovono e danzano nella notte tra le “vene” del Cretto, mentre nell’aria si sentono i suoni e le voci di quel 1968 che segnò la fine di Gibellina»112 Il Grande Cretto invita ad una riflessione: forse solo dal 2015, solo dopo la sistemazione delle macerie, è stato possibile chiudere i circoli viziosi di nostalgia e il senso di abbandono da parte degli abitanti. Possiamo immaginare il Grande Cretto come necropoli: un territorio di sepoltura che esprime ed esprimerà nel futuro le smagliature del nostro tempo, ma questa operazione di sepoltura è, a mio avviso, soprattutto l'innesco di un processo atto a trovare nuove appartenenze. Nello stesso anno della visita di Burri, nel dicembre 1981, Mimmo Jodice (1934) mostra all'amico Joseph Beuyes le fotografie di Gibellina distrutta. «Mi chiese – racconta Jodice – che cosa fossero. Gli dissi che avevo provato a raccontare un paese che non c'era più, con gli abitanti finiti in una baraccopoli. Rispose che voleva assolutamente vedere quel posto. Il sindaco, Ludovico Corrao, ci venne a prendere a Palermo, ci condusse nel paese abbandonato e ci lasciò soli per tutta la mattinata».113 Credo che né Beuyes né Jodice sapessero che Burri aveva progettato il cretto-necropoli e che i lavori sarebbero iniziati da lì a quattro anni. Beuyes restò colpito dalle macerie e Jodice lo immortalò sulla pellicola in momenti di grande tensione emotiva. Alcuni scatti sono pubblicati nell'antologia di ritratti Look at me – da Nadar a Gursky: i

ritratti nella Collezione d'Arte UniCredit (Guadagnini (a cura di), 2016). Beuys si aggira anche nella

baraccopoli temporanea ormai dismessa. Nel 1981 Beuys aveva risposto all’appello del gallerista Lucio Amelio nella produzione di opere che avessero per tema il sisma campano del 1980 dedicando, nella 112 http://www.artecinema.org/artecinema-calendar-2016/2016/10/5/audioghost-68

sua prima personale in Italia, a Napoli, l'opera Terremoto di Palazzo, un’istallazione composta da frantumi di vetro e ceramica sul pavimento e dai tavoli delle botteghe artigiane in equilibrio su oggetti fragili. A Gibellina l'artista prende appunti e progetta, in linea con la macro-opera Difesa della Natura, la piantumazione di trecento querce nel luogo della tendopoli. Il Sacro Bosco. Il progetto non venne realizzato – come riportato nel comunicato stampa del 2001 – certamente a causa della morte dell'artista, ma a mio avviso anche perché in quel momento non venne compreso pienamente. A distanza di venti anni, nel 2001 venne capito, riesumato e realizzato. L'ambiente era finalmente pronto ad accogliere quell'opera d'arte. L'evento di posa della prima quercia è stato un omaggio al maestro tedesco e ha visto la presenza di Lucrezia De Domizio Durini, la studiosa che ha raccolto il testimone dell'artista continuando a promuovere Difesa della Natura e ad agire di conseguenza. C'è il suo apporto artistico nel progetto esecutivo del Sacro Bosco che si contrappone alla superficie asciutta e deserta del Cretto con una grande vitalità. Lucrezia De Domizio Durini continua a curare e scrivere saggi dedicati a Joseph Beuys e alla sua opera.