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Le mappe dell’alterità: ricezione e repertori cileni/andini negli anni 70

Capitolo II: Musica andina e Nueva Canción Chilena nel contesto italiano: ricezione, narrazioni e rifiut

4.2 Le mappe dell’alterità: ricezione e repertori cileni/andini negli anni 70

Le mappe musicali dei GIMCA

Come abbiamo già avuto modo di vedere nel precedente capitolo, la ricezione delle musi- che cilene/andine nel corso degli anni 70 – in una fase in cui talvolta «gli unici maestri furono gli Inti e si includevano nella grande famiglia della “musica andina” anche le canzoni di pro- testa degli esuli cileni»94 – fu condizionata fortemente dalla sovrapposizione di diverse rap- presentazioni sonore di un supposto mondo andino: essenzialmente quella “cilena”, quella delle MIA francesi e – con uno sfasamento temporale di pochi anni – quella autóctona. I GIMCA – come tutti gli ascoltatori italiani, e molto probabilmente più degli altri ascoltatori – sperimentavano la necessità di ricomporre un paesaggio ignoto attraverso pochi e confusi in- dizi provenienti da fonti diverse. Un puzzle paradossale, dato che in realtà i suoi pezzi appar- tenevano a immagini diverse, benché riproducessero paesaggi simili.

Un concreto esempio di quei puzzle è quello rappresentato dai repertori di concerto dei gruppi. Ogni programma di concerto è in qualche modo anche un terreno di negoziazione tra le distinte narrazioni musicali e disegna una mappa, talvolta di scala continentale, che va dal Messico fino al Cile [Figg.15-16].

La seguente tabella95 – che mette a confronto i repertori di otto ensemble, tra la seconda metà dei 70 e l’inizio degli 80 – mostra come per un verso la loro fonte principale fosse senza ombra di dubbio la discografia dei gruppi di punta della NCCH (fa eccezione unicamente Al- cantara), mentre altre fonti andine erano presenti in modo decisamente minoritario. Tuttavia,

per un altro verso, all’interno di quella discografia cilena si manifesta un’evidente inclinazio- ne nei confronti della sua componente folk e strumentale – in altre parole andina, o apprezza- bile come tale per il sound – anziché verso quella militante o cantautorale (con la parziale ec- cezione di Yawar Mallku). La percentuale andina, nei repertori di questi gruppi italiani, è in definitiva assai più alta di quella degli stessi Inti-Illimani e dei Quilapayún dell’epoca. In sin- tesi: il baricentro del gusto dei GIMCA si colloca sì nella MA, però nella sua versione cosmo-

polita cilena, segnatamente quella proposta dagli Inti-Illimani.

94 F. M. Clemente, «Albores», uno scritto datato 1990 e reso disponibile e sul blog dei fratelli Clemente (http://www.illaboratoriodelleuovaquadre.com/2017/09/12/albori/).

95 La tabella ha un valore meramente orientativo, per più motivi. In primo luogo, i dati non appartengono ad un campione omogeneo, ma sono gli unici risultati disponibili. I dati di altri gruppi, o di altri repertori, potrebbe- ro smentire il quadro offerto. In secondo luogo, la classificazione delle fonti risponde a criteri in parte arbitrari, anche se esplicitati. La fonte di un brano andino è classificata come NCCH se appare in un disco di artisti di que- sto movimento. Ciò non garantisce che il gruppo italiano si sia servito effettivamente di quella precisa fonte an- ziché di altre (direttamente andine), benché – sulla base delle testimonianze raccolte – la prima ipotesi sia di gran lunga la più probabile.

Tabella 1: Composizione di alcuni repertori di concerto negli anni 70 – inizio 80 Fonti96 Gruppi NCCH (totale) M A (no NCCH) MA (in NCCH) Sound andi- no in NCCH MA (totale) Jacha Uru (1978) 83% 12,5% 37,5% 17% 67% Yapanqui (1981) 89% 0% 33% 22% 55% L’Altro Suono (1980-82) 94% 2% 43% 9% 54% Cordigliera (1976-80) 73% 21% 26% 13% 60% Suono Popolare (1977) 79% 21% 33% 17% 71% Cantolibre (1980) 96% 0% 44% 20% 64% Alcantara (1979) 33% 33% 11% 11% 55% Yawar Mallku (1978-1982) 82% 10% 25% 8% 43% Inti-Illimani (1973-1978) 100% - 28% 9% 37%

Inti-Illimani Vs Los Calchakis

Per meglio comprendere come interagissero nella ricezione dei fan italiani le declinazioni dell’andino circolanti, nel corso delle conversazioni con i musicisti ho insistito sulla loro per- cezione dell’universo musicale latinoamericano in quel periodo, cercando in particolare di far emergere come essi collocassero al suo interno i due principali esponenti delle versioni dell’andino in gioco: gli Inti-Illimani e Los Calchakis. Ne riporto di seguito degli estratti:

SG: Sempre su questo piano: c’era differenza tra la NCCH e invece Los Calchakis, Los Incas... o sembrava tutto lo stesso? PC: No, assolutamente. Sono dei piani diversi. Io son sempre stato innamorato della Violeta Parra (molto più che di Víctor Jara). Per me il livello della NCCH è un livello di contenuti, prima di tutto. Los Calchakis erano di una superficialità sconcertante. Oltre alle cose negative che ti ho detto finora, si aggiungevano altre cose per me pestilenziali. Erano anche un gruppo piuttosto qualunquista, in quegli anni lì. E lì invece erano gli anni in cui bisognava prendere una posizione, dal punto di vista politico e sociale. […] Tra loro e la NCCH non c’è battaglia. Era molto più interessante la NCCH. Un altro autore tuttora fantastico è Patricio Manns.98

96 NCCH (totale): tutti i brani desumibili dalla discografia della NCCH disponibile all’epoca; MA (no NCCH): brani ascrivibili ai generi andini, non presenti nella discografia della NCCH disponibile all’epoca, in genere pro- venienti da discografia MIA;MA (in NCCH): brani ascrivibili ai generi andini, presenti nella discografia della

NCCH disponibile all’epoca; Sound andino in NCCH: brani non ascrivibili ai generi andini, ma con un sound

assimilabile (soprattutto musica strumentale con strumentazione andina prevalente).

98 Paolo Cogliati, intervista del 16/06/2018. Nel corso della stessa intervista esprime anche un giudizio su Los Incas: «è una storia un po’ diversa, ancora. Loro sono ancora più antichi, ed è sempre stata una compagine un po’

GG: [Los Calchakis] su di me avevano esercitato il fascino degli “archeologi della musica” [...].

Significa che queste cose che loro suonavano non esistevano più. Questo Viento mochica, queste cose qua, anche il modo con cui usavano le fotografie... questi venti... [fa il suono del vento], a me riportavano più che sul piano geografico, cioè le Ande... sul piano del tempo. Mi ricordo benissi- mo, in questo quadro, anche Vasija de barro. Per me Vasija de barro era una cosa di 2000 anni fa. Non mi ero manco preoccupato di vedere se c’è scritto di chi è99... Quindi, perfettamente, la loro mistificazione sta nel fatto di aver giocato nel proporre qualche cosa di più strong... giusto? ... Di più etnico. Intendiamoci… lasciamo perdere il criticare col pelo e contropelo questi termini. Di meno folklorizzato, in senso di modernizzato, appiattito. Di un pochino con dei suoni più arcaici. Più etnici, più peculiari, meno “bianchi”. Però di averli proiettati nello spazio... nel tempo, in illo

tempore... Questa era la maniera in cui li recepivo. E quindi mi stavano benissimo. Invece per me

la contemporaneità della musica andina di oggi, era Sikuriada, Lamento del indio, «Los arados los sembríos...» Io m’immaginavo... lo ricordo benissimo: una notte misi l’LP con le cuffie e comin- ciai a sognare in dormiveglia. E c’era questo povero indio contento, sempliciotto, naïf... che cam- minava sulle Ande, saltellando: «Los arados, los sembríos, las cosechas y su amor...». Perfetto. […] Quindi, gli Inti Illimani fotografavano la vera verità della musica andina di oggi. La Sikuria-

da... – rozza! – Sentivo i suoni dei sicus quando entrano in battimento con la quena, che sembrano

dei corni, in qualche modo, non so perché. Io li percepivo così. Forse perché percepivo l’idea della banda, non avevo idea... Magari sono stati bravi perché ci sono riusciti solo con due sicus e una

quena a riprodurre questo timbro iperarmonico delle bande di sicuris. A me, ragazzino, funzionò:

mi sembrava le nostre bande di trombe. Percepivo questo a livello di battimenti e di timbro. Quindi era sufficientemente vera dal punto di vista della etnicità di questa musica, quella che proponevano gli Inti-Illimani. Quello che proponeva Los Calchakis, per me, era archeologia musicale, cioè il re- cupero di cose... Ma io immaginavo che avevano trovato roba nei siti archeologici. Non avevo idea, però questa era la mia percezione. Invece i Quilapayún mi sembravano quelli proprio forti, duri e puri. Militanti forti, che un po’ se ne fregavano della qualità accademica musicale. Magari poi è un po’ il contrario, da un certo punto di vista. O per esempio il charango con le corde di me- tallo, un po’ sgangherato e stonato, anche del Canto del cuculi, o del... Qué lindas son las obreras, no? Che erano scarsi, avevano un charango cattivo…100

La discriminante temporale proposta da Garofalo ritorna nella sostanza, un tanto semplifi- cata, in altre conversazioni. Per esempio, nella contrapposizione tra la natura puramente “fol- cloristica” dei Calchakis e quella più articolata e complessa degli Inti-Illimani, i quali coniu- gavano politica, folklore – ma con una apprezzabile «differenza che era data appunto dal mo- do di interpretare i pezzi del folklore»101e una ricerca musicale più avanzata102. Nella memo-

mista, perché loro sono più argentini, come filone, però hanno studiato in Perù, quindi c’è sempre stata questa dualità che li ha arricchiti, secondo me. Però, sì, si sono un po’ fermati al concetto del solista, del bravo charan-

guista, del bravo quenista, quando suonavano con Uña Ramos, però... È una cosa che va bene, è piacevole ascol-

tarla ogni tanto, se non hai voglia di approfondire e andare oltre».

99 Garofalo si riferisce alla natura di composizione d’autore del pezzo, che infatti è una creazione del musicista ecuadoriano Valencia, su un testo di creazione collettiva di diversi autori.

100 Girolamo Garofalo, intervista del 20/01/2019. Le osservazioni conclusive sui Quilapayún sono un buon esempio dell’appiattimento temporale nella ricezione di materiale discografico appartenente a epoche diverse della produzione di un artista: il charango «sgangherato» di Canto del cuculí risponde a una registrazione del 1967, anche se arriva (in realtà ritorna) sul mercato italiano nel 1976, quasi contemporaneamente a un tema di

charango assai più stilizzato e curato, come Ventolera, nel disco Patria [QUILAPAYÚN 1976]. 101 Giuseppe Iasella, intervista del 17/02/2018.

102 «Però non sempre mi appassionava il folklore puro. Io avevo bisogno di ascoltare le armonie. Quel folklo- re, evidentemente, almeno così come lo sentivo io allora, si ripeteva, sempre uguale, o abbastanza simile. L’Inti[-

ria di alcuni, oggi, «Los Calchakis era quello che si trovava»103, parte di «un serbatoio comu- ne a cui attingere»104 per ampliare il repertorio.

Mauro Scipione, musicista romano, riprende grosso modo la distinzione tra il carattere fol- cloristico e quello politico dei due gruppi, ma osserva anche che quella dei Calchakis

MSc: […] non era la vera MA, ma portata e truccata e drogata per un orecchio europeo, perché se avessero, che ne so, proposto la musica arcaica, avrebbero fatto la fame. Invece truccandola e dando un piccolo restyling l’hanno resa molto commerciale e ascoltabile, perché tutto sommato erano pezzi abbastanza brillanti.105

D’altra parte, osserva Scipione, a proposito dei dischi “andini” degli Inti-Illimani, che MSc: Anche lì, diciamo, [erano] un po’ rivisitati i brani, perché magari se andiamo ad ascoltare le

versioni originali, lasciano un po’ il tempo che trovano. Li hanno europeizzati al massimo, in modo da renderli sempre più ascoltabili.106

Riassumendo, se dobbiamo dare fede alle narrazioni attuali sulla ricezione di quegli anni, constatiamo che veniva percepita una diversità politica, di contenuti, di approccio culturale e di livello dell’elaborazione estetica. Ma per tutti, incontestabilmente, si trattava in ogni caso di MA107. La musica dell’Altro è quindi ancora un agglomerato di oggetti musicali diversi, tra

i quali si riesce a operare a intuito qualche distinzione, che però non inficia l’unitarietà del quadro complessivo. Un quadro viziato, come sappiamo, anche da altri fraintendimenti, come l’appiattimento geografico indotto dal panamericanismo cosmopolita della NCCH e quello temporale indotto da un “effetto valanga” nella circolazione della discografia in Italia.

La scoperta dell’autoctono.

Gli anni 80 vedranno l’arrivo in Europa dei musicisti autóctonos. Ma già tra il 1976 e il 1977 alcuni – tra cui Angelo Palma e Giuliano Malinverno – ebbero l’occasione di ascoltare dal vivo Los Ruphay, apprezzando l’esistenza di una “terza via” musicale andina, oltre il “po- litico” cileno e l’“archeologico-commerciale” parigino. Palma assiste ad un concerto dei

Ruphay e gli «si apre un altro mondo», comprendendo che la MA non è «la staticità scenica di “Inti” e “Quila” (…) Quei ritmi si ballano, ci sono abiti colorati, i ponchos, i chullos, il modo

ma facevano delle cose diverse, che mi affascinavano di più, ed erano più ascoltabili, erano forse anche un po’ più... tu pensa al Mercado del Testaccio... quanto stile mediterraneo… Assimilando suoni e melodie della musica tradizionale del nostro paese ma interpretata coi loro strumenti, hanno contaminato in modo eccellente le due culture. Loro hanno vissuto in Italia per lunghi anni ed hanno pescato a piene mani nella cultura nostra. Il Te-

staccio è un’interpretazione che rende chiara l’idea» (Giuseppe Iasella, intervista del 17/02/2018).

103 Biancastella Croce, intervista del 08/04/2018.

104 Achille Meazzi, intervista ad Achille Meazzi ed ElianaPiazzi, 05-01-2019.

105 Mauro Scipione, intervista del 21/06/2018. Scipione ha fatto parte di diversi GIMCA romani: Yupanqui, Ay-

mara e, in tempi più recenti, Maanpa.

106 Ibidem.

107 A questo proposito, il CD Sortilège des Andes, del Trencito de los Andes [1996], fa precisamente il punto su quella visione “ecumenica” del mondo musicale andino, mettendo ordine – in un certo senso – all’interno della confusa ricezione europea degli anni 70-80. In questo senso, Sortilège des Andes è un’altra mappa, una ricompo- sizione del puzzle andino, ma assai più evoluta e sofisticata rispetto a quelle prodotte dai GIMCA durante quella fase. Ne tratterò in modo specifico nel caso di studio dedicato al Trencito de los Andes.

di suonare è più animato, la vocalità è diversa… la quena suonata nella terza ottava»108. Dal canto loro, Felice e Raffaele Clemente riferiscono di aver preso contatto con la musica

autóctona tra il 1978 e il 1979, ascoltando delle musicassette. Ne deriva quella che Raffaele Clemente, allora quattordicenne, reputa oggi la svolta fondamentale della propria vita, il vero nucleo generatore di tutti gli eventi successivi:

RC: Daniel Varela ci ha portato la cassetta di Wiñayataqui – quello che adesso si chiama Sartañani [dei Bolivia Manta] – e anche Comunitario cósmico [dei Ruphay]. […] Lui anche

l’aveva conosciuta a Parigi, in Francia – era nato e cresciuto a La Boca, di andino non aveva niente –, e da buon ideologo, aveva subito colto il conflitto, no? E quindi ci diceva «Sì, va bene, però, guardate… C’è un’altra musica andina. È questa quella vera...» e ci diede le due cassette. […] Questo è stato il momento in cui la nostra vita si è proprio … Tutto quello che c’è oggi è un’emanazione di quella scelta.109

Tali ascolti occasionali di musica autóctona coincidono però con altri fattori, determinando in diversi casi una svolta all’interno dei GIMCA. L’esaurimento della temperie politica che aveva prodotto negli anni precedenti l’auge del caso cileno indebolisce fortemente anche l’accettazione del genere musicale che l’aveva accompagnata, facendo perdere alla NCCH par- te del suo appeal. Parallelamente, diversi componenti dei GIMCA hanno avuto modo di cono-

scere da vicino altre espressioni musicali, non solo attraverso ascolti estemporanei, ma anche grazie a personali viaggi di scoperta e alla frequentazione diretta di musicisti latinoamericani portatori di una posizione diversa (e critica) nei confronti delle MA cosmopolite. Il panorama

delle MA include ora non solo i già ricordati Ruphay e Bolivia Manta, ma anche un più vasto

“arcipelago” autóctono che include artisti come Wara, Khonlaya, Charijayac, Luzmila Car- pio, Enrique Males, Conjunto Indígena de Peguche, ecc. Questa volta però le nuove scoperte non si limitano a produrre un allargamento dei repertori, come era avvenuto fino ad allora, ma mettono in crisi il paradigma “ecumenico” e cosmopolita che aveva retto fino a quel momen- to. Come influisce allora la scoperta delle “vere” Ande sulla rappresentazione identitaria, già in precedenza problematica, dei GIMCA?