Capitolo II: Musica andina e Nueva Canción Chilena nel contesto italiano: ricezione, narrazioni e rifiut
4.3 Problematizzare l’identità
Durante un’intervista con i componenti dell’attuale gruppo milanese Giambellindios110 – eredi della vicenda di Jacha Uru e poi Senda Nueva, e collegati all’insieme “liquido” dei
108 Angelo Palma, intervista del 17/06/2018.
109 Raffaele M. Clemente, intervista del 05/09/2019. Daniel Varela è un musicista argentino, di Buenos Aires, già conosciuto dai Clemente a Roma. Per la discografia citata, si veda BOLIVIA MANTA [1978],mentre non sono riuscto ad identificare Comuniario cósmico, che non figura nella discografia dei Ruphay.
110 All’intervista (04/04/2018), che si è svolta in forma di conversazione aperta con me e tra tutti i partecipanti, hanno preso parte Andrea Colle, Giancarlo Bavosi, Attilio Interlandi (componenti del gruppo), Francesco Greco (ex-componente), Roberto Chinello (futuro componente) e Joana Debora García Morago (componente di Canto-
libre e del duo Yerbamate). Nel seguito della ricerca, il contatto con i Giambellindios si è trasformato in una “os-
servazione partecipata”, culminata in un concerto collaborativo dei Giambellindios e del duo Yerbamate, formato appunto da Joana Debora García e da me.
gruppi lombardi tra gli anni 70 e 80: Nuestra America, Los Andes, Cordigliera, ecc. – Andrea Colle riconosce la nascita di un conflitto, negli anni 80, legato alla svolta autoctona:
AC: C’è stato un momento in cui i gruppi hanno preso una via. I Cordigliera: «Il moceño è lungo
e si suona come uno strumento basso». Cogliati [componente del gruppo Senda Nueva e di altre formazioni “andine” dell’area milanese, N.d.A.]: «Questi non han capito nulla: il moceño è un’altra cosa»111. Che è vero, in qualche modo, però nessuno sapeva, nessuno è aymara… Per cui, appro- priarsi della verità assoluta messa in tasca... Però era così. Io a un certo punto suonavo con i Nue-
stra America musica cubana, mezza andina... Suonavo con Senda Nueva altre cose, eccetera. Poi
una fetta di Senda Nueva, i fondatori, Cogliati [...] han preso la cosiddetta via autoctona. Io all’epoca ero interessato a quel tipo di sonorità e ho preso quella via. E ho avuto anch’io un mo- mento integralista in cui mi sembrava che fosse giusto fare la sicuriada. [...] Poi mi son reso conto: «che stai facendo? Non sei un indio, non sei aymara. Sei un milanese qualunque che la mattina si sveglia e va a timbrare il cartellino. Cosa ne sai tu dell’ortodossia?». Però c’è stato quel momento lì, in cui c’è chi ha continuato a fare la NCCH e cercava di farla bene, e noi invece che cercavamo di fare le cose “autoctone”... C’è stata una frattura forte, il conflitto tra chi faceva l’autoctono – tra megavirgolette – e chi continuava a seguire le fila della NCCH.112
Il conflitto generò prese di posizione perfino settarie, ma implicò comunque una profonda revisione del paradigma fino ad allora indiscusso:
SG: Quando si verifica la scoperta che questo mondo musicale è più variegato e ampio di quello
che si poteva immaginare all’inizio, come vengono riclassificate le cose che già conosci? Per esempio, c’è un conflitto rispetto alla NCCH?
PC: Sì, enorme! [risata] Poi, sai, da giovani viene tutto vissuto in maniera più viscerale... Sì,
conflitto. Anzi. Poi addirittura noi vedevamo una sorta di mistificazione nell’uso degli strumenti andini da parte dei gruppi cileni, perché in effetti è anche vero, insomma. A loro non interessava tanto quello. Interessavano altre cose, legittime, per l’amor di Dio. Però, insomma, gli strumenti come li suonano loro... è come dire... come se uno si fosse fermato a un certo punto e non avesse avuto voglia di approfondirlo, no? Allora noi gli si dava un’accezione morale e moralista a questo. Invece adesso, chiaramente, non ha più senso. Però ecco, sì, soprattutto con gli Illapu, per noi è stato terribile. Noi siam stati... siamo arrivati a litigarci con gli Illapu [risata]. Siamo andati qui in Svizzera a sentirli, con questi miei amici di La Paz, che sono cresciuti nella zona di origine del
moceño, e loro [gli Illapu] hanno fatto sfoggio del loro finto moceño. Tu sai che loro usano questo
strumento, che loro chiamano moceño, ma che non viene suonato come moceño. Il moceño viene suonato come fosse un fagotto... no... Invece il moceño è molto difficile a suonare... nella seconda ottava, terza ottava e quinta tra la seconda e la terza. Quindi tenendo le dita sullo stesso buco produci tre suoni differenti, ed è complesso. Quindi quando questi nostri amici – ma anche noi, perché eravamo così un po’ dei “fondamentalisti islamici” – abbiamo visto suonar questa roba qua, siamo rimasti un po’ scioccati. Abbiamo sentito la necessità di andare di là da loro e dirgli «guardate che non si suona così la musica andina». E loro hanno reagito tutto sommato bene. C’era... abbiamo parlato con [Erik] Maluenda e Roberto Márquez. Loro han detto... «sì, però, come si suona? fateci sentire». Una reazione... Uno di noi ha suonato il moceño, […] e loro han detto «a noi quella cosa lì non interessa. Basta...». E noi siamo andati via arrabbiatissimi. Come se qualcuno qui mistificasse la nostra musica. Oppure la musica irlandese – immagina – suonata in
111 Colle si riferisce qui alla profonda differenza tra l’uso “cosmopolita” del moceño (un flauto di grandi di- mensioni) sul registro grave, ottenendone un suono profondo e pastoso, e quello tradizionale, molto piç comples- so, che invece sfrutta soprattutto gli armonici superiori, ottenendo un suono totalmente distinto.
maniera superficiale. Penso che sia offensivo per un irlandese che invece ha passato la vita, ed è nato lì, a suonarla. No?
SG: E questo forse lo sentivate come più offensivo da parte degli Illapu che da parte degli Inti- Illimani?
PC: Sì, certamente. Gli Inti-Illimani… io mi ricordo una volta, invece, parlando con José Seves,
gli ho detto: «ma voi perché non suonate le tarkas?» per esempio. E lui mi dice: «perché non le sappiamo suonare». È stata una risposta sincera, onesta...113
Laddove essa si verifica, la scoperta dell’andinità “autoctona” genera, con la caduta del pa- radigma “ecumenico” e cosmopolita, una duplice presa di posizione, una specie di “separa- zione delle carriere” tra chi è disposto ad intraprendere una ricerca e un apprendistato degli stili reputati autentici – decisamente più impegnativi di quelli cosmopoliti, in quanto retti da un’estetica aliena, tutta da acquisire – e chi invece non la ritiene, per diverse ragioni, una via percorribile. Dietro alla scelta di non intraprendere la strada delle Ande, in alcuni casi si profi- la una questione identitaria più ampia, che include una difficoltà a collocarsi all’interno di et- nicità specifiche, comprese quelle italiane, meridionali o settentrionali:
SG: Penso a voi e a noi, che siamo rimasti ancorati, come gruppi, al modello della NCCH. A voi non è arrivata l’onda folclorica autoctona?
AM: No... Non è arrivata, ma perché ... Ma ce lo siamo anche detti. Non ci interessava di fare la
musica andina. Ci interessava fare musica che in qualche modo avesse implicazioni di un messaggio. Poi in realtà anche la musica folclorica ha un suo perché e delle sue ragioni sotto, no? Non è che ne sia priva. Però è come se non ci sentissimo... titolati a farlo, nel senso che non essendo originari di quelle parti lì, ci sembrava una forzatura. Ne ragionammo anche con Eduardo Carrasco, in una delle nostre prime lettere.
EP: Eduardo ci scrisse «Perché non fate la musica della vostra terra?». Allora noi abbiamo
mandato due-tre cassette di musica “folclorica” nostra, che erano principalmente ballo liscio alla Casadei…o giù di lì.
AM: Io ho poca attinenza anche con la tarantella del Sud. [...] Perché devo fare una cosa che non
mi appassiona? Io ho iniziato a fare quella musica – e l’ho spiegato anche a lui – perché mi inte- ressava quella musica. E già facendo una musica della NCCH, che mi piaceva, non mi sentivo pro- prio a posto in coscienza. È da lì che poi, sul discorso poncho sì - poncho no, non c’è stato dubbio:
poncho mai! Perché è anche, voglio dire, un costume che non ci appartiene. Culturalmente non ci
appartiene. È stato secondo me chiaro da subito. Musica andina... [ne abbiamo fatta solo] proprio i primi tempi, perché forse eran le cose più semplici, come esercizio che ci ha permesso di entrare un po’ in quel mood lì. Soprattutto per poter apprendere e familiarizzare con la tecnica degli stru- menti. Ma poi l’abbiamo abbandonata per dedicarci ad altro, ecco. Non è un caso che il nostro uni- co disco Meteore sia un disco fatto di musiche composte da noi con testi in italiano pur utilizzando strumenti musicali provenienti dall’area andina.114
L’apparizione di un’alterità percepita come più radicale – quella della musica autóctona, e poi quella delle comunità rurali – ha in qualche modo relativizzato e “declassato” l’alterità della NCCH. Chi ha proseguito lungo quel filone si è posto, come si è visto, una domanda sul senso di praticare quel genere musicale in tempi e luoghi diversi da quelli che ne avevano mo-
113 Paolo Cogliati, intervista del 16/06/2018.
tivato la nascita. Gli strumenti e i moduli musicali impiegati, ora riconosciuti come sostan- zialmente affini alla cultura occidentale, non ponevano però questioni di legittimità “etnica”. Ma chi ha scelto la strada della ricerca e della riproposta della tradizione andina ha invece do- vuto affrontare la questione etnica che affiorava nelle parole sopra riportate di Andrea Colle.
Felice e Raffaele Clemente – i musicisti più “integralmente andini” fioriti nel panorama italiano – rivendicano oggi per la MA uno statuto di linguaggio non vincolato all’appartenenza
etnica e pertanto universalmente fruibile a livello estetico, al di fuori del contesto etnografico e dell’ambito rituale, come vedremo più avanti115. Diversa è la posizione di altri musicisti
transculturali, come Paolo Cogliati e Angelo Palma116. Anche Cogliati è critico con chi vinco- la la “ortodossia” alla etnicità:
PC: Nel terreno di ortodossia ci entri perché hai passione, non perché sei indigeno. Io son pieno di
amici indigeni che non san suonare! Non è necessariamente una relazione di fatto, il fatto di nasce- re lì e quindi avere un diritto, un privilegio… No. Soprattutto non lo è adesso, in cui è tutto così globale, pubblico. Tra l’altro, tra i migliori musicisti ci son musicisti non sudamericani, attualmen- te, nel panorama della musica, diciamo, andina. Ci sono musicisti giapponesi, ci son musicisti francesi, spagnoli, che hanno dedicato una vita a cercare, a capire e a studiare questa musica. An- che con umiltà. Certo che quando vai lì, prima di tutto sono indigeni che ti guardano... – “indigeni” chiamiamoli… – in maniera strana. Poi però, se tu riesci ad entrare in sintonia e a dimostrare quel- lo che sai fare, non in termini tecnici, ma in termini di passione, poi dopo sei sul loro livello, sei sul loro piano e puoi condividere tutto con loro. Io vedo come un atteggiamento quasi reazionario, quello di dire «io sono» e quindi appartengo come ad un’altra casta: «quella roba lì non la toc- co».117
Ma quella musica, per Cogliati, non è realmente separabile dal contesto originario: PC: Quello che ci attirava era la musica, però facevamo fatica ad accettare tutto il resto. Questo è
un grande gap, un grande problema, è una tara forte – io credo – di tutti gli italiani o comunque gli europei, che si sono avvicinati a questa musica. Perché quello che poi negli anni successivi ho capito è che per capire la musica bisogna essere disposti a capire loro. Capirli e condividere con loro... perché poi la musica non è astratta dal resto. La musica viene dalla loro esperienza di vita, anzi, nel loro caso è una parte fondamentale della loro espressione artistica... 118
Della stessa opinione è Angelo Palma:
AP: Io penso che sia assolutamente correlata con l’ambiente in cui questa musica si forma, nasce,
con il contesto del vivere quotidiano. Nasce nel contesto rurale agricolo e quindi legata a dei cicli che hanno a che vedere con la terra, con il sole, con le stagioni […]. Chi non è nativo si deve ap-
115 Il tema è affrontato in dettaglio nel caso di studio dedicato ai fratelli Clemente.
116 Paolo Cogliati ha fatto parte del gruppo Senda Nueva e di altri gruppi dell’area milanese, continuando ad occuparsi intensamente, anche se non professionalmente, di musica andina, sia a Milano sia in Perù e Bolivia. Angelo Palma, musicista torinese, vanta una delle più variegate esperienze nel campo delle musiche latinoameri- cane, tra quelle incontrate nel corso della mia ricerca: musica prevalentemente andina con Umami e con i boli- viani Los Ruphay; afroamericana con Raiz Latina; “cilena” con i Taifa, ecc. Senza contare altre esperienze musi- cali “eccentriche”, come quella con il gruppo di musiche folk dell’Italia meridionale La paranza del Geco. Sia per Cogliati che per Palma, si veda anche il caso di studio dedicato ai rispettivi gruppi Senda Nueva e Umami (Parte terza, III).
117 Paolo Cogliati, intervista del 16/06/2018. 118 Ibidem.
procciare senza pretese di volere cambiare delle regole che ci sono per natura... La musica andina non può essere un solo fatto estetico. Non lo è secondo me, ripeto. Rimane correlata all’ambiente in cui nasce: all’ambiente umano, ambiente geografico e naturale. Poi tutto il resto, anche le composizioni fatte da gente che andina non è, compresi sudamericani, ben vengano, assolutamente. Però secondo me rispecchiano una impressione personale [...] un apporto in più che arricchisce e non sminuisce. Però lo spirito con cui nasce […] secondo me è naturalmente legato anche a quello che è l’immaginario, all’evocazione che può suscitare la musica andina, in origine. Che nasce in quel contesto di cui io ti dicevo poc’anzi.119
Se la domanda di fondo, nella definizione identitaria dei GIMCA, è «Chi siamo, quando
suoniamo questa musica?», la risposta – quale che sia il percorso artistico e culturale intrapre- so e fatta salva qualche ingenuità della prima ora – è per tutti: «noi stessi». Nonostante le di- vergenze di opinioni sul valore di determinate esperienze e sui percorsi musicali-culturali in- trapresi, nessuno tra gli interpellati da questa ricerca ha fatto ricorso ad argomenti quali quelli accampati dai giapponesi sulla musica andina boliviana, studiati nella etnografia della Bigen- ho (2012), i quali arrivano a immaginare radici storiche comuni tra i due popoli.
Racconta Silvio Contolini che, prima ancora di trasferirsi lui stesso a Cochabamba, in Bo- livia, dove risiedette per diversi anni,
SC: questo fu oggetto di dibattito all’interno della prima formazione dei Runa Simi. Perché ci
rendevamo conto che noi in realtà, la nostra formazione, il nostro vissuto era occidentale. E quindi, nonostante la passione, nonostante tutto, non potevamo essere “come loro”.120
L’esperienza boliviana, poi, lo porterà a confermare che «io non sono loro, e loro non sono me […] Ci possiamo amare... ma siamo diversi e ognuno deve rimanere cosciente di ciò che è»121. Le riflessioni di Mario Cardona sul proprio percorso personale, con cui concludo questo paragrafo, riaffermano ancora una volta un sentire comune a buona parte della comunità GIM- CA, quali che siano state le specifiche scelte musicali:
MC: È assolutamente normale e naturale che uno si immedesimi nei modelli che ha, per cui “cerca
di suonare come”. Credo che questo faccia parte... sono le tappe dell’apprendistato. Dopo, uno, nei limiti tecnici che ha, cerca di trovare la propria dimensione, che è la cosa più importante. Penso che ci sia stato un momento fondamentale di riflessione, che ha coinciso con il disco
Altrocharango122, […] in cui mi sono detto «se voglio continuare a suonare questo strumento, non posso farlo attraverso la riproduzione o un modo abbastanza approssimato di suonare con lo stile di ...». In questo credo che anche le conversazioni con Jaime Torres siano state molto importanti. […] Sono andato a Humahuaca con lui, abbiamo fatto un viaggio, e io capivo sempre di più che lui era un pezzo di quel posto, che… c’erano ragioni profonde per cui lui suonava in quel modo, e che io ero “altro da quello”. Ma quell’“altro da quello” era altrettanto ricco di tante cose, e questo sco- prire la profonda diversità, invece di portarmi ad abbandonare, per dire «non sarò mai così», mi ha portato a dire «meglio così: sono io libero di fare quello che sento». […] Oggi penso che esista un
charango fuori dell’America Latina. Esiste un charango internazionale, suonato in Giappone,
suonato in Europa, ovunque, e ognuno ci mette la propria sensibilità, ognuno farà quello che pensa 119 Angelo palma, intervista del 17/06/2018.
120 Silvio Contolini, intervista del 07/04/2018. 121 Ibidem.
di fare. Ci sarà probabilmente il giapponese che vuole fare solo la musica chuquisaqueña, e va bene così. Per esempio, il discorso del Trencito de los Andes, lo trovo un discorso straordinario. Loro hanno fatto una ricerca straordinaria e hanno fatto qualche cosa che secondo me è assolutamente pregevole. Però nello stesso tempo non ho mai riconosciuto in quello la mia strada. Altrimenti sarei andato lì e, magari molto male, avrei cercato di imparare a fare quello. Però no, io ho pensato di fare altro. In definitiva nessun charanguista è tutto, ma tutti i charanguisti sono qualcosa e quel qualcosa è tanto più “onesto” o “vero” quanto più esprime i sentimenti profondi del proprio mondo emotivo.123
5 CRISI E RITORNI