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Perché piacque (ma non sempre) agli “addetti ai lavori”

Capitolo II: Musica andina e Nueva Canción Chilena nel contesto italiano: ricezione, narrazioni e rifiut

2.5 Perché piacque (ma non sempre) agli “addetti ai lavori”

L’epoca di cui ci stiamo occupando vide una notevole fioritura di periodici di argomento musicale, destinati prevalentemente ad una fascia di pubblico giovanile. Tra questi, uno dei più popolari fu senz’altro Ciao 2001, di orientamento complessivamente progressista e inte- ressato ai temi civili, ma assai meno alternativo rispetto ad altre pubblicazioni del settore, co- me Gong o Muzak, vicine ai movimenti della sinistra extraparlamentare180. Uno spoglio si- stematico della sezione dedicata al folk – che curava Sesto Passone – riferito agli anni “caldi” 1974-1977, mostra un continuo crescendo nell’interesse di Passone, non solo nei confronti del nucleo canonico della NCCH, ma anche di tutto il complesso di generi gravitanti nell’area del-

la nueva canción e della MA. Se da una parte si osserva lo spazio via via crescente dedicato da Ciao 2001 al folk nel suo complesso, riflesso di un generale tendenza del pubblico e del mer-

cato nazionale, dall’altra si deve constatare che la quota dedicata agli interpreti latinoamerica- ni fu davvero considerevole. Di fatto Passone recensì quasi tutta la discografia di genere pub- blicata in Italia, anno dopo anno, dedicando inoltre articoli monografici a Inti-Illimani, Quila-

payún, Americanta, Charo Cofré e Hugo Arévalo, Los Calchakis, ecc. Le recensioni di Passo-

ne risultano sostanzialmente in linea con la prospettiva critica della stampa progressista già esaminata sopra, pur mostrando – forse perché la rivista era destinata ad un pubblico per lo più adolescenziale – un limitato approfondimento critico. In definitiva, il carattere più rilevan- te degli interventi di Passone risiede probabilmente nell’ampiezza del panorama musicale considerato.

La NCCH fu certamente un tema di discussione negli ambienti musicali progressisti e alter- nativi degli anni 70, talvolta indicata come un modello virtuoso per la sua capacità di unire impegno artistico e militanza politica (Carrera 2014: 252) e di sperimentare convergenze tra culture egemoni e subalterne (Mosca 2016). In un milieu come quello italiano del canto socia- le e della musicologia militante, poco amante di narrazioni esotiche e sentimentali del popola-

178 R.SCAGLIOLA, «Gli Illimani chiudono il Festival Jara: Siamo operai non artisti», Stampa Sera, 16 aprile 1977, p. 25.

179 A.BIANCHINI, «El pueblo unido ed esule», Tuttolibri, 35, p. 8 (suppl. La Stampa, 24 settembre 1977). 180 Sulle diverse politiche culturali delle riviste musicali giovanili di quegli anni, si veda il saggio di Varriale (2016), che assume come esemplari proprio Ciao 2001 e Gong.

re, la “riproposta” andina degli Inti-Illimani fu apprezzata da più parti proprio perché si riten- ne, come scrisse Pestalozza, che «non pretende[va] di rifare l’originale, bensì lo ricrea[va] in una impeccabile formalizzazione curata con la severità di un’indagine rigorosa sui contenu- ti»181. Il musicologo del PCI li preferiva per questo agli Illapu, il cui stile più vivacemente espressivo e coloristico gli appariva eccessivamente «naturalistico» e mancante della necessa- ria elaborazione formale. Una lacuna che, secondo Pestalozza, caratterizzava anche molti esponenti del folk revival italiano, ritenuti talora eccessivamente soggettivi e viscerali (come Rosa Balistreri) o non ancora in possesso di uno stile maturo (come il Canzoniere Veneto). Una percezione che Alessandro Carrera estende alla generalità del pubblico italiano:

È vero però che tali entusiasmi collettivi [per gli Inti-Illimani] non erano dovuti solo all’identificazione politica, ma anche alla musica […] musica vergine, non compromessa col capi- tale e decisamente più accattivante di tanta musica popolare italiana, più accattivante perché in realtà non si trattava di autentica musica popolare andina, ma di una sua rielaborazione piuttosto dotta, cosa che del resto era ammessa dal gruppo stesso. (Carrera 2014: 251)

Pestalozza e Carrera accennano dunque ad un confronto tra il modello importato della NCCH e quelli esperiti fino ad allora dalla musica popolare italiana (intesa come folk revival e

canto sociale). Un simile confronto era stato delineato più ampiamente su Realismo – rivista del movimento studentesco milanese – in un numero dedicato alle musiche giovanili. Un’ampia e non banale intervista agli Inti-Illimani metteva tra l’altro in luce come il progetto culturale della NCCH, benché nato come un riscatto delle espressioni popolari per lo più con- tadine, si fondasse su aperture nei confronti della sfera accademica e di quella popolare com- merciale. Si citavano ad esempio le collaborazioni con i compositori del Conservatorio, tra cui l’istituzione di corsi di musica serali destinati ai musicisti popolari, attraverso i quali «si af- fermava nello studio e nell’insegnamento una concezione della musica che era diretta espres- sione di ciò che la rivoluzione andava realizzando»182. Un secondo carattere è rappresentato dalla effettiva popolarità del movimento, «fatto di migliaia e migliaia di creatori popolari nel- le città e nelle campagne, lavoratori, studenti, gente di tutti i ceti che facevano della musica un mezzo di espressione, di comunicazione dei loro problemi»183. La distanza rispetto agli omo- loghi movimenti di folk revival e canzone militante europei – e in particolare italiani – appari- va evidente anche ai musicisti cileni184:

Quando per la prima volta siamo venuti a Berlino al Festival della canzone politica, ci siamo resi conto che il livello della nostra canzone era molto elevato rispetto a quello degli altri paesi, degli stessi paesi socialisti europei. E questo dipendeva dal rapporto stretto che c’era fra la musica e la classe operaia da un lato e fra la musica popolare e i musicisti del conservatorio in Cile. Per esem- 181 L.PESTALOZZA, «Folk: l’esempio degli Inti-Illimani», Rinascita, 34, 1975, p.36.

182 «Il dibattito culturale sotto “Unidad Popular”», p. 43. 183 Ibidem p. 44.

184 Analoghe osservazioni da parte dei Quilapayún e di Isabel Parra sono riportate da Rodríguez Aedo (2016:76).

pio in Italia non esiste come invece esisteva da noi in Cile, un rapporto fra i musicisti e la classe operaia, le lotte della classe operaia. Anzi in Italia noi abbiamo notato una grande distanza fra la musica popolare e la musica del conservatorio.185

Nello stesso numero di Realismo, Umberto Mosca denuncia il limite di fenomeni come

Cantacronache e il Nuovo Canzoniere Italiano (cui pure riconosce grandi meriti) che riescono

sì a porsi come coscienza critica del movimento, ma le cui canzoni «non rispondono in so- stanza a quell’esigenza di nuova cultura che si va facendo strada tra le masse giovanili»186 e pertanto non diventano patrimonio della classe, nemmeno della sua componente più politiciz- zata. Davanti alla crisi della canzone politica italiana, l’esperienza cilena di UP offre, per Mo- sca, un esempio di cultura nuova radicata nel patrimonio folklorico, ma senza lasciare nelle mani della borghesia «quanto l’umanità ha prodotto di buono nei momenti di progresso stori- co ed artistico» (Mosca 2016: 369)187. Per Settimelli – che proprio in quegli anni era stato du-

ramente attaccato dall’interno del movimento in seguito ad una sfortunata partecipazione del

Canzoniere Internazionale al concorso musicale televisivo Canzonissima188– si poteva ap-

prendere dai cileni il «metodo del confronto e della collaborazione tra artisti popolari, compo- sitori, ricercatori, insegnanti, in un clima che tenda alla costruzione e non alla frantumazione», da contrapporre alle posizioni di chi, in Italia, riduce le problematiche dell’uso e delle funzio- ni sociali della musica ad una alternativa secca e apocalittica tra «televisione» e «cantieri edi- li»189. Dunque, per alcuni (come Pestalozza) la NCCH rispondeva bene alla linea ufficiale del PCI, che teorizzava una cultura progressiva come sintesi universale della dialettica popolare-

borghese; per altri (Mosca e Settimelli) appariva come una “terza via”, alternativa ai rigidi schematismi imperanti nel settore. Per la componente più vicina ai movimenti della sinistra alternativa e controculturale, la proposta cilena invece risultava poco convincente, in quanto ancorata a linguaggi convenzionali e culturalmente non eversivi.

È significativa la poca attenzione dedicata ai cileni da riviste musicali “alternative” come

Muzak e Gong, che uscirono tra il 1973 e il 1978, negli anni di maggiore auge della NCCH. Sulle pagine di Gong troviamo piuttosto interviste ad Atahualpa Yupanqui e al gruppo andino boliviano Los Ruphay, forse proprio alla ricerca di rappresentazioni della latinoamericanità musicale alternative alla “monocultura” cilena. Sulle stesse pagine, inoltre, Franco Bolelli pubblicò una recensione assai critica al sesto disco italiano degli Inti-Illimani, Chile resisten-

cia, nella quale, pur riconoscendone i pregi musicali, ne attacca il presunto conservatorismo:

[…] questo modo intriso di moralismo di coniugare musica e politica appartiene ad un ordine or- mai vecchio e ambiguo. Gli Inti-Illimani, dal canto loro, ne sono ad un tempo artefici e vittime, 185«Il dibattito culturale sotto “Unidad Popular”», p. 46.

186U.MOSCA, «Appunti per una critica della canzone militante dal 1945 al 1975», Realismo, n. 6, 1975, p. 25. 187 Originariamente pubblicato in Fronte popolare, 36, 19 ottobre 1975.

188 Si veda, su questa querelle, la ricostruzione di Tomatis (2016).

perché finiscono per essere soltanto un pretesto, e insieme avvallano questa dimensione ibrida con le proprie scelte di linguaggio. 190

Anche all’interno del Nuovo Canzoniere Italiano si intuiscono voci dissenzienti, tra le ri- ghe di un atteggiamento solidale nei confronti dei colleghi esuli e della causa cilena in genere. Qualche indizio traspare, ad esempio, quando Ivan della Mea scrive che – grazie ad una voca- lità capace di esprimere il suo bagaglio umano e la sua identità proletaria – «Violeta Parra di- strugge tutti i folklorici cileni», così come Giovanna Daffini distruggeva quelli italiani (Della Mea 2016: 706)191. Ancora oggi le almeno due diverse visioni all’interno della militanza mu- sicale della sinistra trovano echi nella memoria dei rispettivi componenti. Per Janna Carioli, che fece parte del Canzoniere delle Lame, Inti-Illimani e Quilapayún rappresentarono una im- portante lezione estetica:

Musicalmente per il nostro gruppo fu una svolta, fu soprattutto una spinta a migliorare la nostra performance musicale. Noi eravamo molto più naïves prima di incontrare loro. Il fatto che loro avessero questa armonizzazione vocale così bella e questa performance musicale così ricca, fu un impulso ad arricchire anche il nostro repertorio, al di là della riproduzione delle canzoni cilene che noi potevamo fare o dei pezzi sul Cile. Dopo, anche tutta la nostra musica diventò più ricca. Que- sto è un debito che abbiamo nei loro confronti, un debito positivo.192

Giovanna Marini invece distingue chiaramente tra il fattore politico (e umano) e quello estetico, riscontrando nel più popolare gruppo cileno la stessa mancanza di alterità osservata sopra da Della Mea:

GM: [gli Inti-Illimani] Devo dire, suscitavano molto entusiasmo per un fatto assolutamente di

adesione ideale a quello che... la loro situazione. Questo senz’altro. Sul piano musicale, devo dire che, insomma, i flauti andini alla fine erano citati dicendo “oddio, che strazio i flauti andini!”. Però per gli Inti-Illimani, assolutamente c’era una...venerazione... Intoccabili! Musicalmente non li tro- vavo molto interessanti, ecco, diciamo la verità. Avevano una cosa, però. Avevano una qualità me- lodica che permetteva di aderire al loro canto... Erano trascinanti, ecco. […] Piena di tanto, piena di tanta musica del mondo. Era proprio World Music, la loro…

SG: Per lei Juan Capra era molto più interessante, mi sembra di capire…

GM: Ma certo. […] Perché io avevo scoperto il fascino e l’importanza del canto contadino, del

canto pastorale italiano, che era lontano dalle consonanze. Che è un canto modale, è un canto diffi- cile. Invece loro erano un canto facile, molto facile. E Juan invece aveva un canto difficile. Allora, certo, trovavo più moderno Juan. Perché a questo punto, quanto più si va all’indietro, più diventa

190 F.BOLELLI, «Recensioni: Inti-Illimani», Gong, 5-6, maggio 1977, p. 61

191 In origine pubblicato come prefazione a S. Prati, Giovanna Daffini cantastorie, Libreria Rinascita, Reggio Emilia 1975, pp. 5-10.

moderno, per noi. No? E invece gli Inti-Illimani li vedevo piazzati proprio nella canzone di prote- sta classica, con tutti i crismi, con tutto a posto. Capisce? Tutto in regola.193

In effetti, come testimoniano anche gli stessi Inti-Illimani194, tra il gruppo cileno e i canzo-

nieri italiani si instaurarono rapporti di solidarietà e amicizia, ma non vi fu nella sostanza al- cuna vera collaborazione musicale – nemmeno con la parte più “internazionalista”, nonostante il comune sentire – dal momento che le rispettive poetiche erano troppo lontane per concretiz- zarsi in un prodotto condiviso. Le esperienze pregresse del periodo anteriore all’esilio li porta- rono invece a empatizzare da un lato con Roberto De Simone e la Nuova Compagnia di Canto

Popolare, che percepivano come l’esperienza italiana più affine alla propria, e dall’altro ad

affrontare, con interesse e grande partecipazione professionale e umana, la collaborazione con il compositore Alessandro Sbordoni, su suggerimento di Luigi Pestalozza195. Questa collabo- razione rinnovava in qualche modo le collaborazioni con musicisti accademici che il gruppo aveva conosciuto in Cile (con Luis Advis, Sergio Ortega e particolarmente con il peruviano Celso Garrido Lecca).