La qualità del travertino del Colonnato – il materiale con il quale vengono realizzati pilastri, colonne, trabeazione dei prospetti interni ed esterni, balau- strata, statue, scalini e guide della pavimentazione – è al centro di vivaci pole- miche nel grande cantiere vaticano, in particolare per ciò che concerne il Por- tico settentrionale, il primo ad essere realizzato. Oggetto del contendere è, in primo luogo, la provenienza della pietra: se infatti talvolta viene prescritto a fornitori e ad appaltatori di rifornirsi presso cave di Tivoli, in più di un’occa- sione verranno utilizzati invece blocchi provenienti da Monterotondo, gene- ralmente ritenuti di qualità inferiore. In dettaglio, già nel novembre del 1658 Andrea Appiani, uno dei principali fornitori di travertino, attesta in una sup- plica alla Sacra Congregazione della Reverenda Fabbrica di aver preso in affitto dal 6 dicembre dell’anno precedente una cava “detta la Bolicara disegnata con suoi confini in territorio di Monte Rotondo”; l’appalto per la fornitura di sedici colonne del II° giro del Portico settentrionale stipulato con Giovanni Francesco Ghetti il 2 maggio 1659 prescrive travertino di Tivoli, indicazione peraltro contraddetta dagli accordi siglati con l’Appiani appena quindici giorni dopo, per ulteriori colonne dello stesso giro, in cui è citato il “Travertino di m.te Rotondo”; nell’appalto per la fornitura della trabeazione del I° giro (cioè verso la piazza), ancora con l’Appiani (25 novembre 1659), saranno ricordate indistintamente le “mie Cave di Tivoli, e di Monterotondo” in modo non dissimile da un editto emanato poche settimane prima dalla Sacra Congrega- zione della Reverenda Fabbrica (“Dovendosi continuare à far cavare dalle Cave cosi di Tivoli come di Monte Rotondo quantità di travertini per compire la fab.a de i Magnificentissimi Portici…”), mentre negli accordi relativi alla trabeazione del IV° giro (verso l’esterno) con Bonifacio Perti (16 dicembre 1659), infine, non verrà specificata la provenienza della pietra19.
Un ventaglio di possibilità piuttosto ampio dunque, che sembrerebbe in- dicare, almeno nel corso della prima fase del cantiere, una limitata attenzione per ciò che concerne la provenienza del materiale, o forse la sottovalutazione di un problema destinato ad assumere invece una crescente importanza. I toni della controversia si alzano infatti decisamente nel corso degli anni: già nella Congregazione minore del 27 marzo 1661 si decide di incaricare il Bernini di individuare le parti per le quali sia possibile utilizzare i blocchi “in- ferioris qualitatis”; poco più di un mese dopo è peraltro lo stesso architetto a denunciare in Congregazione il trasporto in cantiere di travertino di Monte- rotondo “pessimae qualitatis” ad opera delle maestranze di Pietro Nerli20. La questione finisce per assumere aspetti grotteschi dal momento che, come de- nunciato dello stesso architetto, lo scarico del materiale scadente avviene in- torno a mezzogiorno approfittando dell’assenza per il pranzo dei responsabili tecnici della Fabbrica.
Malintesi e contrasti sono destinati a ripetersi anche per il Colonnato me- ridionale, appaltato in toto per ciò che concerne le opere in travertino, come si è visto, ai capomastri scalpellini Andrea Appiani, Carlo Piervisani, Giovanni Francesco Ghetti e Bonifacio Perti. I Capitoli stipulati il 17 novembre 1660 concedono il permesso di utilizzare “Travertini di qualsivoglia sorte, e condi- tione in ogni cava, e porto che siano, et anco per la strada di Tivoli eccettuato però quelli che al presente si trovano alle Cave e Porti del sig. Pietro Nerli à Monte Rotondo” ; contrariamente a quanto affermato dalla Lanzetta, dunque, il divieto riguarda solo i travertini di proprietà del Nerli (la cui scarsa qualità sarà effettivamente denunciata più volte), non tutti quelli provenienti da
Fig. 46 - Colonnato di S. Pietro. Portico settentrionale. Colonna, dettaglio di un tassello (foto dell’A.)
Fig. 47 - Colonnato di S. Pietro. Portico settentrionale. Colonna, dettaglio di un tassello (foto dell’A.)
Fig. 48 - Colonnato di S. Pietro. Portico settentrionale. Colonne (foto dell’A.)
Monte Rotondo. Si spiega in questo modo l’inserimento nei Capitoli stessi dei prezzi relativi sia ai travertini di Tivoli che a quelli estratti a Monte Ro- tondo, questi ultimi di costo inferiore a causa della riconosciuta minore qualità. Che sia stata prevista una differenziazione qualitativa viene provato dalla di- stinzione operata tra le colonne del primo giro (cioè quelle verso la piazza) e le rimanenti (“Le colonne et ogni altro lavoro del primo giro del nuovo Portico migliore degl’altri del 2°, 3° e 4° giro e con maggior diligenza, e di Travertino tutto di Tivoli”); in particolare, la prescrizione relativa al travertino “tutto di Tivoli” conferma implicitamente come per i settori meno visibili del Colonnato fosse permesso l’utilizzo della pietra proveniente anche da altre zone; e, in ef- fetti, sono successivamente documentate lavorazioni con travertino di Monte Rotondo (ad esempio, il 30 ottobre 1661, in relazione a quattordici blocchi serviti per nove statue ed uno stemma del Portico settentrionale od il 6 di- cembre 1662 per un altro stemma, od ancora il 23 maggio 1666 relativamente ad otto statue ed ad altri stemmi). Che d’altra parte esistesse un’evidente in- soddisfazione nei confronti della qualità del lavoro condotto fino a quel mo- mento lo si intuisce dall’impegno preso dagli appaltatori (“Promettono di fare le Colonne, e gl’altri lavori migliori di quelli che si sono fatti sin hora nel Portico che al presente si lavora”, cioè di quello settentrionale). Sebbene mo- tivata forse dal desiderio di snellire le operazioni velocizzando al massimo i tempi, la quasi assoluta libertà concessa agli appaltatori (“Che la R. Fabrica debba lasciare la total cura, governo e amministrazione concernente quest’opera alli detti mercanti eccettuati però quelli che saranno deputati da S. E. [il car- dinale Flavio Chigi] à riconoscere, e rivedere il lavoro, ne alcun altro ve si possa ingerire senza lor consenso”) non sembra, come peraltro verrà denunciato successivamente, il modo migliore per garantire il livello qualitativo del lavoro; appare dunque tutt’altro che sorprendente che anche la realizzazione del Portico meridionale determini una vivace diatriba tra committenza ed esecutori. Richiamandosi proprio ai Capitoli del 17 novembre 1660 che gli attribuivano la facoltà di far verificare “se li lavori sudetti rieschino di n.ra sodisfattione”, il 26 marzo 1667 il cardinale Flavio Chigi chiede alla Congregazione piccola di nominare un architetto che esamini il Colonnato ormai compiuto; da qui
Fig. 49 - Cava di travertino (da Castelli e ponti di Mae-
stro Niccola Zabaglia, Roma 1743, tav. XIV). L’immagine
rappresenta contemporaneamente le succesive operazioni relative all’estrazione del materiale: al tracciamento di guide per definire le misure richieste tramite picconi (A), segue l’inserimento di zeppe poste a distanza regolare (B) che, percosse con movimenti coordinati dai cavatori muniti di mazze di ferro (C), determinano il distacco del blocco fino alla sottile fascia cretosa che divide orizzontalmente i diversi strati di travertino. Calato in basso (E), ciascun blocco viene sbozzato nella forma e nelle misure desiderate (F, G), per essere infine caricato sul carretto da trasporto (in basso)
un breve memoriale del Bernini in cui, dopo aver fatto notare come “Colonne, Pilastri, Base e Capitelli del primo giro non sono fatte tutte di travertino di Tivoli, ma mischiate con travertino di M.te Rotondo” ed aver criticato la stessa lavorazione dei blocchi, si propone una seppur modesta decurtazione dei pagamenti (venti scudi per ogni colonna, 1/6 della cifra pattuita per la trabeazione del primo giro, 1/13 per quella del quarto).
La replica non si fa attendere: “havendo havuta notitia di una relatione fatta dal Cav.r Bernino come si asserisca di ord.e delle EE. VV. [cioè della Sacra Congregazione] con la quale si pretende fare un defalco al prezzo con- venuto”, Andrea Appiani “e compagni” (ovvero i quattro appaltatori delle opere in travertino del Portico meridionale) indirizzano alla Congregazione una puntigliosa contro perizia, affermando esplicitamente come le critiche berniniane non abbiano alcuna “sussistenza”. Viene negato infatti l’utilizzo di travertino di Monte Rotondo nei settori in cui questo era stato vietato (“li pretesi travertini di m.te Rotondo q.li o non ci sono, o pure in pochissima parte messi come si dirà con approvazione del Architetto e Ministri respetti- vam.te della Rev. Fab.a”), ribadendo la puntuale osservanza delle prescrizioni contenute nei Capitoli; ma soprattutto si evidenzia l’incoerenza del Bernini che ha autorizzato il montaggio anche di quei blocchi che ora vengono giudicati non conformi (“onde non è da vedere come si possa hoggi pretendere di di- chiarare non buoni quelli sassi che si è permesso di metter in opra”). Inoltre, è stato ancora il Bernini a volere espressamente travertino di Monte Rotondo per parti importanti e visibili del Colonnato, come i monumentali stemmi pontifici e le statue di coronamento: comportamento illogico se questo tipo di pietra fosse stato realmente scadente così come sostenuto. Il documento si chiude con un’orgogliosa riaffermazione della qualità del materiale e dell’opera svolta nel Colonnato meridionale, giudicati nettamente superiori a quelli del Colonnato settentrionale (“quanto meglior bontà e conditione sia il lavoro fatto nel Colonnato controverso di quello sia il lavoro del Colonnato dell’altra banda”) e della convenienza economica per la Reverenda Fabbrica (“potranno l’EE. VV. ben sapere dal Compotista della Rev. Fab.a costa quello dell’altra banda più di venticinque o trenta mila scudi di quello fatto da gl’or.i”).
Al memoriale dell’Appiani e compagni è allegato un ulteriore documento, datato 20 novembre 1667 e siglato da cinque scalpellini (Giovanni Mariscalchi, Francesco Perini, Giuseppe Vigiù, Angelo Siani, Ambrogio Appiani) al servizio dei quattro appaltatori maggiori, i quali confermano come abbiano “più e più volte inteso il S.r Bened.o Drei ordinare a quelli che assistevano a dd.i lavori di scarpello et a Muratori per ord.e del S.r Cav.r Bernini che non si mettesse in opra li sassi benche lavorati, se prima non fossero stati visti, revisti, et approvati dalli min.ri della R. fab.ca”, ribadendo di aver “veduto che in esecuzione di d.o ord.e detti sassi erano spesso revisti dal med.o S.r Cav.r quando veniva alla fab.ca e sempre da d.i Ministri da q.ti più volte ne furno refutati e fatti lasciar in terra, et alle volte anco fatto calare a basso più pezzi benche lavorati da essi stimati non buoni”. La conclusione è perentoria: tutti i blocchi in travertino messi in opera sono stati “visti, revisti, et approvati da sud.i Ministri e Sig.r Cav.r”. La strategia difensiva delle maestranze è chiara- mente finalizzata a ribaltare eventuali responsabilità sulla direzione tecnica, in particolare sul soprastante Benedetto Drei e sullo stesso architetto Giovan Lorenzo Bernini. Dovranno dunque essere ricondotti a questi ultimi, e non agli scalpellini, manchevolezze e difetti del travertino del Portico meridionale, dal momento che a loro competeva la discrezionalità di autorizzare o respingere l’utilizzo di ogni singolo blocco di pietra.
Il confronto tra le fonti a disposizione (i Capitoli, le stime dei diversi
Fig. 50 - Roma. Palazzo del cardinal Giuliano della Rovere ai Ss. Apostoli. Cortile, dettaglio di una colonna (foto del- l’A.)
Fig. 51 - Roma. Palazzo del Commendatore di S. Spirito. Cortile, dettaglio di una colonna (foto dell’A.)
lavori, le argomentazioni esposte dalle diverse parti, etc.) porta ad orientare il giudizio verso le posizioni espresse dagli appaltatori, le cui affermazioni vengono effettivamente confermate dalla documentazione disponibile. Da qui l’ipotesi che l’operazione promossa dal cardinale Chigi ed avallata dal Bernini abbia avuto come principale fine un sostanzioso ribasso delle somme dovute agli appaltatori stessi: orientamento peraltro in linea con l’azione svolta dall’architetto nel corso di quegli anni, dal momento che sono frequenti le decurtazioni imposte nei vari conti presentati dalle diverse maestranze attive nel cantiere.
I difetti di una parte dei blocchi in travertino contribuiscono a rendere necessaria l’opera di risarcitura di lacune e scheggiature mediante tasselli. Il 4 dicembre 1665, ad esempio, viene registrato un pagamento, peraltro modesto, “per n.o 8 Stuchature fatte con il mio Stucco et Stoppa alle Commisure di Travertini del Passeggio del Colonnato, o’ vero Braccio dalla Parte del Palazzo” (cioè, ancora una volta, nel Portico settentrionale): curiosamente, il beneficiario della somma è lo stagnaro Giovanni Francesco Bertocchini21. Sebbene in gran parte occultate da successivi interventi, lacune e tasselli sono ancora oggi visibili in diverse colonne, in particolare del Portico settentrionale (figg. 46,
47), come peraltro confermato dal recente restauro.
Interamente in travertino, le colonne non sono monolitiche, ma composte da blocchi sovrapposti di misure diverse (fig. 48), sistemati attraverso l’allesti- mento e l’utilizzo coordinato di appositi “Castelli” e della “Antenna grande” mobile22. Già la “Prima Barcata di Rochi di colonne di travertino”, cioè la prima fornitura scaricata in piazza S. Pietro il 29 marzo 1658, comprende blocchi con misure differenti, seppure piuttosto omogenee: a parte uno, i di- versi “Rochi” presentano un diametro variabile da 6 ¼ a 6 ¾ palmi (cm 140/150 circa) derivante con ogni probabilità dalla prevista rastrematura, mentre l’altezza oscilla tra 3 e 4 1/3palmi (cm 67/98); dimensioni analoghe
presentano anche i rocchi della “2° Barcata”, consegnati cinque giorni dopo (3 aprile 1658)23. I diametri ricordati non sono lontani da quelli delle colonne finite, il che permette di ipotizzare un lavoro di sbozzatura piuttosto accurato già in cava (fig. 49), dato effettivamente confermato dalla documentazione disponibile, che comprende pagamenti agli scalpellini “che anno abozzatto diversi Pezzi di Colonne a monte ritondo”24. Le successive forniture registrano una maggiore variabilità in relazione all’altezza dei rocchi, le cui misure variano da 3 ½ a 5 palmi (cioè da cm 78,3 a 111,7), anche se è opportuno notare come la maggior parte presenti un’altezza compresa tra 3 ½ e 4 palmi (in linea, dunque, con i primi blocchi consegnati). Infine, le notazioni relative alla quantità di travertino da pagare al cavatore attestano come si riconoscesse a quest’ultimo una maggiorazione del 25% rispetto al volume del materiale scaricato in piazza S. Pietro: con ogni probabilità, una sorta di valore medio finalizzato a risarcire il materiale eliminato nel lavoro di sbozzatura compiuto precedentemente nella cava.
Il quadro appare meno definibile per ciò che concerne una parte delle co- lonne messa in opera nel Portico settentrionale e, soprattutto, per quelle del Portico meridionale: la scelta di procedere ad un appalto “a tutta robba e fat- tura” rende infatti superfluo distinguere nella documentazione le dimensioni di ciascun blocco, dal momento che la cifra concordata si riferisce al prezzo unitario riferito alla colonna intera.
Al di là delle ragioni pratiche ed economiche che, come si è visto, ne hanno suggerito l’adozione, nella scelta di colonne costituite da rocchi, Bernini
Fig. 52 - Colonnato di S. Pietro. Portico settentrionale. Colonna, dettaglio. È visibile l’alternanza tra un blocco singolo e due semiblocchi con giunto verticale (foto dell’A.) Fig. 53 - Colonnato di S. Pietro. Portico settentrionale. Pilastro, dettaglio. Si noti l’alternanza tra un blocco singolo e due semiblocchi con giunto verticale (foto dell’A.) Fig. 54 - Colonnato di S. Pietro. Portico settentrionale. Colonna, base (foto dell’A.)
si allontana dalla tradizione, che affondava le proprie radici nella lezione bru- nelleschiana, che aveva costantemente privilegiato i fusti monolitici, anche di grandi dimensioni. Una certa diffidenza nei confronti dei fusti delle colonne composte da più blocchi sembra peraltro permanere nella cultura architettonica cinquecentesca, come rivelato ad esempio da una breve nota contenuta nel proemio delle Vite vasariane, in cui si loda la “molta gratia” delle colonne della chiesa fiorentina dei Ss. Apostoli, aggiungendo tuttavia “sebbene sono di pezzi”. Come già segnalato da Roberto Gargiani, il primo esempio di co- lonne composte da blocchi nell’architettura del Quattrocento sembra essere infatti il portico del palazzo Comunale di Pienza (1462-1464); a Roma colonne costituite da rocchi sono presenti in architetture della seconda metà del secolo, soprattutto cortili e chiostri (ad esempio, il viridarium o palazzetto Venezia, 1465-1471; il palazzo del cardinale Giuliano della Rovere ai Ss. Apostoli, dal 1474; l’ospedale di S. Spirito) e, in misura minore, del Cinque-Seicento (pa- lazzo del commendatore di S. Spirito; palazzo Ludovisi, poi Chigi-Odescalchi) (figg. 50, 51).
Uno degli elementi più interessanti del Colonnato vaticano riguarda la tecnica di assemblaggio dei blocchi di travertino delle colonne ; appare più corretto, tuttavia, parlare di tecniche, per le differenze esistenti tra i due Portici. Dagli accordi stipulati con Andrea Appiani (17 maggio 1659), relativi al Por- tico settentrionale, si deduce come il capomastro scalpellino si impegni “di fare num.o diciotto in venti colonne di Travertino di m.te Rotondo ciasche- duna delle quali habbia un pezzo d’intiero circuito, e l’altro pezzo diviso in
Fig. 55 - L. Cruyl, Prospectus Locorum Urbis Romae
Insignium, Roma 1666. Veduta parziale di piazza S. Pie-
tro con il Colonnato in costruzione. In basso, sono visibili alcuni rocchi con foro centrale
due parti, e così di mano in mano di buona pasta, e qualità, e saranno quelle del secondo giro, che seguono appresso alle già poste”25. Sebbene il documento ricordato sia un capitolato d’appalto – quindi non una Misura, e stima redatta ad opera compiuta – la tecnica di assemblaggio basata sull’alternanza verticale tra blocco singolo e due semiblocchi verrà effettivamente osservata: evidentis- simi prima del recente restauro, i relativi giunti sono tuttora visibili sia nelle colonne che nei pilastri, sebbene parzialmente occultati dalle stuccature (figg.
52, 53). Avvalora questo dato anche un’altra prescrizione contenuta nel con-
tratto, la composizione in due pezzi del plinto e del toro di base, che trova an- ch’essa puntuale conferma nell’opera realizzata (fig. 54).
Appare dunque opportuno interrogarsi sulle motivazioni della scelta ber- niniana. Se sono indubbie le maggiori garanzie offerte dalle colonne monoli- tiche in termini di stabilità e di resistenza, altrettanto evidente è che, per di- mensioni e numero, manufatti di questo tipo avrebbero comportato modalità di estrazione in cava e di trasporto tali da determinare un inevitabile allunga- mento dei tempi realizzativi e, soprattutto, pesanti aggravi economici. Non sarebbe stato quindi realistico pensare di riproporre il grande esempio dei fusti monolitici delle sedici colonne in granito del portico del Pantheon, di dimensioni analoghe a quelle del Colonnato vaticano26, a cui il Bernini avrà probabilmente guardato all’inizio anche per la comune struttura trabeata; inoltre, la presenza di un sistema voltato gravante sulle colonne stesse (e non semplici travi lignee rivestite di bronzo come nel tempio adrianeo), deve aver suggerito la ricerca di soluzioni maggiormente appropriate alla specificità del-
Fig. 56 - Castello (da Castelli e ponti di Maestro Niccola
Zabaglia, Roma 1743, tav. X). L’immagine rappresenta
un “Castello, che serve per più usi”, i cui diversi livellli sono facilmente raggiungibili dagli operai grazie alle ap- posite scale. La mobilità della macchina è assicurata da “quattro ruote per trasportarlo con facilità, ove richieda il bisogno, sterzando le prime due”
Fig. 57 - Antenna per il sollevamento di blocchi di pietra (da Castelli e ponti di Maestro Niccola Zabaglia, Roma 1743, tav. VII). Sebbene nella didascalia della tavola venga chiarito come l’Antenna sia servita “per alzare tutte le statue sopra il gran Colonnato della piazza di S. Pietro”, risulta possibile ipotizzare diverse analogie con l’Antenna usata per sollevare i rocchi delle colonne nel cantiere ber- niniano, in virtù anche della capacità “di alzare pesi ri- guardevoli a forza del contrasto, che fanno le funi, o ventole, che la sostengono”
Fig. 58 (a fronte) - Antenne, argani e vari dispositivi di sollevamento in uso presso la Fabbrica di S. Pietro (Stoc- colma, Nationalmuseum, inv. NMH THC 581). Gene- ralmente attribuito a Nicodemus Tessin il Giovane, il di- segno è stato recentemente riferito al fratellastro Abraham Swanskiöld (1644-1709). In alto, a sinistra compare la scritta “Organo [cioè argano] di S. Pietro”. Si notino, in basso, le ruote per lo spostamento delle macchine
l’opera. Non è forse un caso che anche in opere precedenti, ad esempio il cortile del palazzo di Giuliano della Rovere ai Ss. Apostoli, le colonne del portico, più grandi, fossero realizzate a blocchi mentre quelle della loggia su- periore, di dimensioni minori, fossero monolitiche.
La scelta di alternare blocchi singoli a semiblocchi appare per di più legit- timata dalla cultura trattatistica, in particolare dal De re aedificatoria dell’Alberti, in cui viene esplicitamente raccomandata; una scelta che conoscerà peraltro limitate, ma significative riprese27.
Per ciò che concerne il fissaggio dei blocchi, un’incisione di Lievin Cruyl, tratta dal Prospectus Locorum Urbis Romae Insignium (1666), mostra in primo piano alcuni rocchi delle colonne dei Portici, con dimensioni sostanzialmente