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4. Contenuto della Convenzione

4.1. Obblighi nazionali

La Sezione 3 (artt. 11-15) delinea le misure richieste ad ogni Stato contraente per garantire, a livello nazionale, la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale; innanzitutto dovrà identificare e definire gli elementi di questo patrimonio presenti nel suo territorio, facendosi aiutare dalle comunità, dai gruppi e dalle organizzazioni governative rilevanti. Verrà dedicato uno spazio specifico all’aspetto delle comunità, ma già nell’articolo 11 si sottolinea la necessità di un processo partecipativo che non riconosce solo il singolo Stato come protagonista: si tratta di una delle grandi innovazioni e punti di forza della Convenzione.

Un primo e importante impegno per gli Stati è l’attività di inventariazione: ogni Stato deve preparare uno o più inventari del patrimonio culturale immateriale presente nel proprio territorio, premurandosi di aggiornarlo periodicamente. Inoltre, dovrà presentare un rapporto periodico al Comitato, nel quale saranno integrate anche le informazioni relative agli inventari (art. 12). Una dottrina rilevante sostiene che, se gli

115 UNESCO, Operational Directives for the Implementation of the Convention for the Safeguarding of the

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“ingredienti” del patrimonio possono essere identificati ed elencati in inventari – necessariamente parziali e senza limiti precisi –, i valori assegnati a questo patrimonio dalle comunità culturali sono per lo più situazionali e contestuali, quindi più elusivi116.

Del resto, ciò viene confermato dal fatto che l’inventariazione del patrimonio culturale immateriale viene riconosciuta come parte del processo di implementazione della Convenzione, ma non si ritrovano nella Convenzione indicazioni precise su come compilarli. Si lascia allo Stato la libertà di decidere come strutturarli e in che numero predisporne; viene solamente indicato che devono essere “community-based inventories”, ossia basati sulla comunità, seppure la responsabilità prima della compilazione rimane comunque allo Stato. Essi non sono fini a sé stessi, ma devono essere un punto di partenza per l’attività di salvaguardia117. Nel procedimento di

costruzione degli inventari, una studiosa riconosce il ruolo determinante delle amministrazioni locali, che devono farsi ancora di più portavoce dei cittadini, in collaborazione con le associazioni o i gruppi folkloristici del territorio. Inoltre, ha riconosciuto due approcci principali seguiti nella compilazione di inventari: uno più “civilizzato” e l’altro detto “selvaggio”. Gli inventari “civilizzati” sono caratterizzati da un alto livello di professionalità e di strutturazione, grazie a competenze acquisite in ambito accademico, o nel campo, da specialisti di discipline etnoantropologiche; si riconosce in essi un atteggiamento scientifico basato su un’osservazione partecipante, sulla sua restituzione agli attori sociali, grazie all’accessibilità totale dei dati che viene garantita e che permette una presa di coscienza diffusa del valore del patrimonio. Gli inventari “selvaggi” sono caratterizzati invece da un basso livello di specializzazione tecnico-scientifica e da sistemi di individuazione del patrimonio non rigidi; la mancata esperienza di gestione e di tutela del patrimonio fino a quel momento in alcune zone ha comportato la creazione di strumenti ad hoc modellati su ispirazione dello spirito della Convenzione del 2003; non viene riconosciuta a questi nessuna finalità scientifica, anche nell’ambito della validazione antropologica degli inventari, ma risalta molto invece la funzione sociale del processo che vi sta dietro118.

116 ARANTES A. A., 2009, op. cit.

117 LAPICCIRELLA ZINGARI V., 2015, op.cit.

118 BORTOLOTTO C., Gli inventari del patrimonio culturale intangibile - quale “partecipazione” per quali “comunità” in SCOVAZZI T., UBERTAZZI B., ZAGATO L. (a cura di), Il patrimonio culturale nelle sue diverse

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All’articolo 13 viene invece elencata una prima serie di misure di salvaguardia che la Convenzione impone agli Stati contraenti: l’adozione di una politica generale che promuova la funzione del patrimonio culturale immateriale nella società e integri la sua salvaguardia nei programmi di pianificazione; l’istituzione di organismi competenti nella salvaguardia del patrimonio culturale immateriale; la promozione di studi scientifici, tecnici e artistici o metodi di ricerca per salvaguardare in modo efficiente questo patrimonio, specialmente quello in pericolo; l’adozione delle adeguate misure legali, tecniche, amministrative e finanziarie utili a potenziare le istituzioni di formazione per la gestione del patrimonio immateriale e la sua divulgazione in spazi appositi, per garantire l’accesso al patrimonio intangibile e per creare centri di documentazione specifici.

Infine, viene segnalato anche l’impegno richiesto agli Stati in relazione all’educazione, alla sensibilizzazione ed al potenziamento delle capacità (art.14) che mirano a: garantire il riconoscimento, il rispetto e la valorizzazione del patrimonio culturale immateriale nella società attraverso programmi di sensibilizzazione e formazione del pubblico in generale, con uno speciale occhio di riguardo per i giovani, programmi di sensibilizzazione e formazione dei gruppi e delle comunità interessati, rafforzamento delle attività di salvaguardia, gestione e ricerca scientifica del patrimonio culturale immateriale e con mezzi utili alla trasmissione delle conoscenze; informare il pubblico sui pericoli che costantemente minacciano il patrimonio; promuovere l’educazione sulla protezione degli spazi naturali e sui luoghi della memoria.

L’articolo 15 è interamente dedicato alla partecipazione delle comunità, dei gruppi e (talora) individui, che creano, conservano e trasmettono il patrimonio immateriale. Viene rivelato l’approccio partecipativo che si intende perseguire con la Convenzione; infatti gli Stati contraenti dovranno coinvolgere attivamente gruppi, comunità e individui nelle proprie attività di gestione e di salvaguardia di tale patrimonio. Le comunità sono poste quindi al centro del sistema, non solo come portatori delle testimonianze dell’intangibile, ma anche come arbitri di ciò che si deve considerare patrimonio culturale immateriale; si tratta di una logica conseguenza alla natura del patrimonio di questo tipo, che esiste solo se viene messo ancora in pratica e la cui pratica continua dipende interamente dall’abilità e dalla volontà del gruppo o della

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comunità culturale che lo possiede. Tra le definizioni contenute nel secondo articolo della Convenzione non si trova quella di comunità, ma la si può ritrovare in un glossario stilato nel 2002, durante i lavori preparatori della Convenzione: comunità sono quelle “persone che condividono un senso auto-attribuitosi di connessione. Questo può essere manifestato, per esempio, in un senso di identità e di comportamento comune, così come nelle attività e nel territorio. Gli individui possono appartenere a più di una comunità”119. Le comunità sono nuclei variabili, che si possono definire e distinguere

autonomamente rispetto ad un singolo elemento del patrimonio culturale immateriale, ma nella Convenzione si ritrova solo il riconoscimento dell’esistenza di comunità identificabili120. Se da un lato l’apertura alla partecipazione dei gruppi e delle

comunità ha diminuito, e per certi versi scardinato, il potere delle attività istituzionali, dall’altro la conoscenza da parte delle comunità delle regole e del linguaggio delle istituzioni permette agli attori non governativi di poter prendere parte attivamente alla costruzione di norme o alla definizione delle loro rappresentazioni culturali o identitarie. Tuttavia, per quanto venga riconosciuta fondamentale la partecipazione delle comunità, non vengono concretamente delineate nella Convenzione o nelle sue Direttive Operative politiche partecipative da adottare per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale; ci si limita ad imporre dei vincoli e dei criteri e a supportare i gruppi attraverso workshop di capacity building che l’UNESCO ha appositamente deciso di mettere in atto121.