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A partire dalla seconda metà del Novecento, come già detto, si inizia a parlare di teoria della traduzione in maniera sistematica, affrontando la questione da punti di vista differenti, tanto concettuali quanto pragmatici, sviluppando approfondite riflessioni sulla natura e sull’esercizio di tale disciplina. Gli studiosi, in maniera individuale o facendo capo a particolari scuole di pensiero, interpretano in modo differente l’essenza e gli obiettivi di questa che, di volta in volta, assume la definizione, evidentemente labile, di arte, scienza, pratica, esercizio, e così via, senza pervenire definitivamente ad una demarcazione netta della sua connotazione.

Negli ultimi decenni, pertanto, il panorama traduttologico internazionale risulta particolarmente florido ed eterogeneo, cosicché l’intento di classificare – in modo cronologico o tematico, che si voglia – gli sviluppi teorici della materia risulta evidentemente complesso, dal momento che le prospettive di studio e le concettualizzazioni si integrano e si compenetrano, talvolta si contrappongono, talora convergono.

D’altra parte, tracciare una periodizzazione quanto più circostanziata possibile tra le varie tendenze risponde all’esigenza dei cultori della traduzione (traduttologi, critici, traduttori e studiosi in genere) di delimitare un campo di studi che nella sua fase attuale assiste ad un approfondimento teorico e ad un incremento pratico a livello internazionale particolarmente rigogliosi.

L’analisi epistemologica della traduzione brevemente tracciata da Claude Bocquet35 pone l’avvio delle riflessioni scientifiche sul tradurre a partire dal momento in cui essa guadagna l’accesso all’Università come disciplina autonoma, e non più come esercizio didattico finalizzato all’apprendimento di una lingua straniera. Questa decisione viene presa per la prima volta nel 1930 presso l’Università tedesca di Mannheim, dove il prof. Glauser, immigrato svizzero poliglotta, fonda un primo istituto universitario di traduzione e d’interpretazione; la seconda esperienza è quella avviata a Ginevra nel 1941 dal prof. Antoine Velleman.

A questa prima fase della nascita della traduttologia, fa seguito, nella periodizzazione di Bocquet, la fase della teorizzazione conflittuale della disciplina del tradurre con le scienze formalizzate che hanno preso parte alla formazione della traduttologia, prima tra tutte la linguistica; la terza tappa, che prende l’avvio negli anni ’80, corrisponde invece all’avvicinamento della traduttologia alle scienze cognitive, nel tentativo si superare l’approccio linguistico formale ed aprire i propri orizzonti a concetti quali il contenuto, il tipo di discorso, il senso, e così via.

35 C. Bocquet, “La traductologie: préhistoire et histoire d’une démarche épistémologique, in M.

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Anche Jeremy Munday, nel suo volume introduttivo al campo dei Translation Studies, nel ritracciare cronologicamente lo sviluppo della disciplina, fa innanzitutto rimontare agli anni ’60 l’epoca della sua introduzione nell’Università americana – a Iowa e Princenton, per l’esattezza – sotto forma di seminari sulla traduzione, focalizzati in particolare sul processo di traduzione e sulla comprensione del testo (Munday, 2001:8-9).

Parallelamente a questo approccio, Munday colloca la traduzione anche nell’ambito di studio della letteratura comparata, poiché, per poter confrontare testi appartenenti a nazioni e culture differenti, si fa spesso ricorso alla letteratura tradotta. Un’altra area in cui la traduzione diventa oggetto della ricerca è quella dell’analisi contrastiva, ovvero dello studio di due lingue a confronto al fine di individuare differenze e analogie.

Munday situa questa fase di studio della traduzione negli anni ’60 e ’70, e indica nei contributi di Vinay e Darbelnet (1958) e di J. C. Catford (1965) i risultati più significativi. Conformemente all’analisi di altri teorici europei, anche lo studioso scozzese individua nell’approccio linguistico alla traduzione degli anni ’50 e ’60, il momento cruciale per lo studio della disciplina in maniera sistematica e scientifica, delineando con maggiore chiarezza il relativo campo d’indagine. Tra i maggiori rappresentanti di questo tipo di approccio Munday segnala: George Mounin (Les problèmes théoriques de la traduction, 1963), Eugene Nida (Toward a

Science of Translating, 1964), Wolfram Wills (Übersetzungswissenschaft. Probleme und Methoden, 1982), Werner Koller (Einführung in die Übersetzungswissenschaft, 1979), Otto Kade

(Zufall und Gesetzmäßigkeit in der Übersetzung, 1968), Albrecht Neubert (Grundfragen der

Übersetzungswissenschaft, 1968).

Gli sviluppi più significativi, secondo la sintesi proposta da Munday, si hanno, tuttavia a partire dagli anni ’70, in seguito alla minuziosa teorizzazione della disciplina ad opera di James S. Holmes, che oltre a proporre con considerevole successo la denominazione Translation Studies per questo campo di studi, crea, altresì, una mappatura delle differenti aree di indagine in materia di traduzione (come già visto nel terzo paragrafo del presente capitolo), rendendo così possibile la prima organizzazione scientifica e organica della traduttologia, a cui ancora oggi si fa riferimento.

A partire dagli anni ’70, dunque, l’orientamento di studi della traduzione basato sull’analisi contrastiva viene messo da parte; l’approccio scientifico incentrato sulla linguistica continua ad essere rilevante in Germania, ma il concetto di equivalenza ad esso associato declina, per lasciare il posto a teorie incentrate sul tipo di testo e sulla funzione della traduzione. Diversamente, la concettualizzazione di Halliday sull’influenza dell’analisi del discorso e della grammatica funzionale sistematica, che considera la lingua come un atto comunicativo in un contesto socioculturale, continua ad essere prominente nelle decadi successive, soprattutto in Australia e in Gran Bretagna, e trova applicazione nelle opere di diversi studiosi, tra cui: Bell (1991), Baker (1992) and Hatim and Mason (1990, 1997).

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La fine degli anni ’70 e gli anni ’80 vedono, inoltre, l’ascesa di un approccio descrittivo che ha origine nella letteratura comparata e nel Formalismo Russo. Pionieri di tale corrente sono i teorici della Scuola di Tel Aviv, Itamar Even-Zohar e Gideon Toury, promotori del concetto del

polisistema letterario, in cui, tra l’altro, letterature e generi letterari diversi, incluse le opere

tradotte e quelle non tradotte, competono per l’egemonia. I teorici del polisistema hanno lavorato con un gruppo di studiosi belgi, di cui fanno parte José Lambert e, più tardi, André Lefevere, e con gli inglesi Susan Bassnett e Theo Hermans. A quest’ultimo si deve il volume The manipulation of

Literature: Studies in Literary Translation (1985), che ha dato il nome alla cosiddetta “Scuola della

Manipolazione”, la quale promuove un approccio dinamico, orientato culturalmente, che prenderà sempre più piede nei decenni a seguire.

Gli anni ’90, invece, vedono l’interazione tra le recenti scuole e concettualizzazioni e le nuove prospettive d’indagine della traduttologia internazionale: in particolare, nel panorama teorico spiccano le ricerche su traduzione e genere condotte da Sherry Simon in ambito canadese; la scuola “cannibalistica” brasiliana promossa da Else Vieira; la teoria postcoloniale della traduzione con le figure prominenti degli studiosi di Bengali, Tejaswini Niranjana e Gayatri Spivak; l’analisi orientata agli studi culturali condotta da Lawrence Venuti negli Stati Uniti.

Siri Nergaard36, dal canto suo, sceglie di tracciare l’evoluzione della formazione della disciplina sulla base del nome con cui di volta in volta è stata denominata (scienza, teoria e studi), e individua tre generazioni di studiosi.

a) La prima generazione ricopre gli anni ‘50 e ‘60 del Novecento e associa alla disciplina del tradurre la denominazione di scienza, in virtù del fatto che a segnare una svolta scientifica della materia sono i tentativi di traduzione automatica computerizzata, condotti principalmente da teorici dell’informazione, linguisti e addirittura matematici e ingegneri, che applicano alla ricerca sulla traduzione l’impronta della logica dei calcolatori. Sulla scia dell’approccio generativista di Noam Chomsky (Aspetti di una teoria della sintassi, 1965), si assiste, in questi anni, ad una generale scientifizzazione della lingua e dell’atto linguistico che, per quanto riguarda la traduzione, sfocia nell’attuazione di operazioni traduttive, le quali, trascurando gli effetti legati ai processi di comunicazione e ai fenomeni culturali connessi alla lingua, consistono perlopiù in trasposizioni terminologiche, difficilmente applicabili al campo della traduzione letteraria. Tali teorie altamente formalizzate sono intese, in primo luogo, ai fini di una funzione pratica, cioè devono servire come istruzioni e regole per il traduttore. Ne consegue che il compito principale della disciplina viene individuato nella costruzione di una teoria in grado di stabilire dei criteri stabili e fissi su come fare una traduzione equivalente all’originale37 (Nergaard, 1995:7). Si tratta pertanto di un approccio

36 S. Nergaard, Teorie contemporanee della traduzione, Bompiani, Milano, 1995, pp. 5-17.

37 Il concetto di equivalenza, che dovrebbe chiarire il rapporto fra testo di partenza e testo di arrivo,

è una delle questioni più dibattute e articolate della teorizzazione del tradurre, con cui si sono confrontati numerosi studiosi della materia. Nida (Toward a Science of Translating, 1964) parla di equivalenza formale ed equivalenza dinamica; Popovič (Dictionary for the Analysis of Literary Translation, 1976) distingue

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prevalentemente normativo, al quale si oppongono i teorici che affrontano la traduzione da un punto di vista non linguistico e con altri modelli metodologici, e che considerano queste teorie prescrittive come source-oriented (orientate al testo di partenza) e aprioristiche, nel senso che la traduzione sarebbe funzionale unicamente all’originale e non al testo/contesto di arrivo, e le regole formulate prescinderebbero la situazione testuale, contestuale, linguistica, etc. Gli esponenti più rappresentativi di questa prima generazione appartengono alla scuola tedesca dell’Übersetzungswissenschaft, tra cui Kade (1964, 1968), Koller (1978), Wills (1977), ma anche Nida (1964), Mounin (1963, 1965) e Catford (1965). Le ragioni dell’inadeguatezza di tale approccio scientifico e prescrittivo rispetto alla traduzione sarebbero da ricercare nella natura stessa del tradurre: mentre la linguistica, per la sua impostazione strutturalista, indaga la natura e la struttura della lingua (nel senso della langue saussuriana), la traduzione non riguarda una trasposizione da lingua a lingua, ma da testo a testo (a livello della parole). Se la linguistica si occupa della lingua come un sistema, e del suo aspetto sincronico, la traduzione è un fatto dinamico che avviene nella diacronia (Nergaard, 1995:8-9). Con ciò non si vuole tuttavia escludere l’approccio linguistico dall’ambito traduttologico, ma si intende inserirlo in una visione più ampia che tenga conto anche degli aspetti extralinguistici ed extratestuali.

b) La seconda generazione, che va dalla fine degli anni ‘70 all’inizio degli anni ‘80, assume il termine di teorie in riferimento allo studio della traduzione e si contraddistingue per la conduzione dei primi tentativi di fondare una disciplina che non sia né scientifica né prescrittiva e che privilegi i testi letterari, in un quadro di studi relativi, soprattutto, alla letteratura e alle letterature comparate. L’innovazione consiste nel fatto che si inizia a condurre una riflessione sulla traduzione a partire dalla traduzione stessa, ovvero non si ricercano più in altre teorie le regole applicabili al tradurre, ma si descrivono i fattori che soggiacciono alla traduzione in quanto tale. Tale teoria, che Berman38 chiama traduttologia, è una “riflessione che la traduzione fa su se stessa, a partire dal fatto che essa è un’esperienza” (Berman, 1985:39). Tale evoluzione è direttamente connessa agli sviluppi che si verificano nelle teorie del testo e nella linguistica testuale, e si basa, come in esse, sull’ampliamento dell’unita di traduzione, rispettivamente di analisi, dalla parola o dalla frase al testo. Secondo la terminologia di Toury39, si verifica uno “spostamento graduale di interesse da quelle relazioni definite come interlinguistiche a relazioni dette intertestuali” (Nergaard, 1995:110). L’area iniziale di sviluppo di tali teorie sono soprattutto i Paesi Bassi

quattro tipi di equivalenza (linguistica, paradigmatica, stilistica e testuale); Reiss (Möglichkeiten und

Grenzen der Übersetzungskritik, 1971) parla di equivalenza funzionale; Gorlée (Semiotics and the Problem of Translation. With Special Reference to the Semiotics of Charles S. Peirce, 1994) che ha fatto una piccola

rassegna dei modi di intendere l’equivalenza in traduzione, ne elenca una serie e ricorda come Catford (A

Linguistic Theory of Translation, 1965) avesse indicato come compito centrale di una teoria della traduzione

quello di definire la natura e le condizioni dell’equivalenza traduttiva. (Nergaard, 1995:7, nota n. 9).

38 A. Berman, Les tours de Babel: Essai sur la traduction, Trans-Europ-Repress, Mauvezin, 1985, p. 39. 39 G. Toury, Comunicazione e traduzione. Un approccio semiotico, in Nergaard, 1995:110; titolo

originale: “Communication in Translated Texts. A Semiotic Approach”, in G. Toury, In Search of a Theory

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(Holmes, Lambert, Van den Broeck), ma gradualmente la nuova tendenza si espande in tutta l’Europa con risultati significativi soprattutto in Francia (Meschonnic, Ladmiral, Berman). Alla base di tale evoluzione stanno le teorie dei formalisti russi, che hanno dato un forte impulso in particolare agli studiosi olandesi, ma anche ai teorici della Scuola di Tel Aviv, Toury e Even- Zohar. Alcuni traduttologi di questa generazione, come Holmes, Toury e Lefevere, basandosi sul principio della non-normatività e della non-source-orientedness (lett. non-orientamento al testo fonte) forniscono importanti contributi per la definizione della natura e degli obiettivi della disciplina del tradurre.

c) La terza generazione, infine, quella degli anni ‘80, rappresenta la fase dei cosiddetti

Translation Studies, secondo la designazione inglese di Holmes, che trova applicazione in ambito

internazionale, a ragion del fatto che la traduzione non viene considerata una scienza, né una teoria, ma un campo di studi, il cui obiettivo non è quello di fornire istruzioni e modelli su come tradurre, ma descrivere i fenomeni che avvengono in traduzione. Stando alle considerazioni di Pym40, la traduzione non è una scienza, non perché nessuna delle teorie sia giusta, ma perché sono pochi i criteri generalmente riconosciuti con cui si possa dimostrare che una certa teoria è sbagliata. E non è una teoria, perché a una teoria si richiede una maggiore uniformità e univocità di quanto si possa trarre negli studi sulla traduzione (Pym, 1992:183). La considerazione di fondo di questa generazione di studiosi è che il tradurre non riguarda tanto le lingue quanto le culture, per cui si concepisce la traduzione come comunicazione interculturale (Hatim and Mason, Discourse and the

translator, 1990; Bassnett and Lefevere, Translation, History and culture, 1990; Pym, Translation and Text transfer. An Essay on the Principles of Intercultural Communication, 1992). Si tratta del

cosiddetto cultural turn (lett. svolta culturale), quel fenomeno che segna la nuova era della traduzione, ricorrendo all’espressione utilizzata da Mary Snell-Hornby41, nel 1988, la quale si esprime a favore della cultura come elemento di unità di analisi, in sostituzione del testo. Alla base di tale svolta culturale stanno le teorie post-strutturaliste e decostruzioniste, in particolare di De Man e Derrida. Quest’ultimo, nello specifico, mette in discussione i concetti si originalità e

autorità, invalidando così l’opposizione netta tra ‘originale’ e ‘traduzione’ che rendeva invisibile il

traduttore (Venuti, 1992)42. L’ottica interculturale che prende piede nella traduzione si accompagna ad un’apertura geografica degli orizzonti teorici: studiosi provenienti da regioni periferiche rispetto all’Occidente e da aree postcoloniali partecipano sempre più attivamente al dibattito sulla traduzione, apportando contributi da un’ottica alternativa. In particolare lo studio della traduzione si confronta ora con problematiche nuove, quali: la prospettiva multietnica e multiculturale

40 A. Pym, Translation and Text transfer. An Essay on the Principles of Intercultural Communication, Peter Lang, Frankfurt/Main,1992, p. 183.

41 M. Snell-Hornby, “Linguistic Transcoding or Cultural Transfer? A Critique of Translation Theory

in Germany”, in S. Bassnett and A. Lefevere, Translation, History and Culture, Pinter, London/New York, 1990, pp. 79-86 (pp.81-82).

42 L. Venuti, Rithinking Translation. Discourse, Subjectivity, Ideology, Routledge, London/New

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(Johnson, 1985; Spivak, 1992; Niranjana, 1992); i giochi di potere tra culture dominanti e culture dominate (Jacquemond, 1992); il colonialismo (Sengupta, 1991); il femminismo e le questioni di genere (Simon, 1996; Godard, 1990); l’ideologia (Lefevere, 1992); la soggettività (Venuti, 1992).

La panoramica appena fornita evidenzia chiaramente come la ricerca sulla traduzione spazi ora all’interno di campi di studi complementari, allorché apporti di discipline affini si integrano nell’indagine traduttologica in senso stretto.

Pregnante risulta, a nostro parere, la definizione fornita da Christine Durieux (Università di Caen, Bassa Normandia) nel suo contributo per il volume di studi sulla traduzione curato da Michel Ballard in occasione del colloquio di Artois (26-28 marzo 2003), incentrato sulla questione: Qu’est-

ce que la traductologie? (Che cos’è la traduttologia?):43

La traductologie est une discipline essentiellement limitrophe. […] La traductologie se situe effectivement à la frontière de diverses disciplines auxquelles elle emprunte des pans entiers et dont elle mobilise des théories; c’est le cas, notamment, de la philosophie du langage, de la linguistique, psycholinguistique et sociolinguistique, de la psychologie cognitive, des sciences de la communication, des neuroscience.44 (Ballard, 2006:95-96)

Nel paragrafo seguente, è nostra intenzione fornire, in maniera sintetica e concisa, un quadro generale e complessivo, seppur lungi da ogni pretesa di interezza, dei fenomeni che caratterizzano la traduzione contemporanea, al fine di ottenere una visione d’insieme delle teorie finora elaborate, per poi discernere da esse le concettualizzazioni pertinenti all’analisi critica, che intendiamo condurre delle due traduzioni italiane del romanzo kadareano Kështjella.