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5. Le principali teorie contemporanee della traduzione

5.4. Le teorie traduttologiche basate sull’analisi del discorso e del registro

Negli anni ’90, il campo di studi della traduzione vede il predominio delle teorie basate sull’analisi del discorso, facendo un ulteriore passo in avanti rispetto all’analisi del testo che ha caratterizzato la fase precedente di studi e che ha avuto nel modello di Christiane Nord il maggiore esempio di analisi condotta a livello dell’organizzazione testuale (struttura della frase, coesione, etc.). L’analisi del discorso, diversamente da quest’ultimo, si occupa del modo in cui la lingua comunica il significato e le relazioni sociali e di potere.

Alla base di questo approccio teorico alla traduzione – che trova in Juliane House, Mona Baker e Basil Hatim e Ian Mason i principali realizzatori – si colloca il metodo proposto da M.A.K. Halliday71, fondato sullo studio della linguistica secondo un’ottica funzionale sistematica (systemic

functional linguistics), che collega le scelte linguistiche microtestuali alla funzione comunicativa

del testo e al significato socioculturale che esso implica.

Lo studio di Halliday si basa, dunque, sul metodo della “grammatica funzionale sistematica” (systemic functional grammar), ovvero un tipo di grammatica che mira allo studio del linguaggio in quanto comunicazione. Il termine “sistematica” si riferisce al concetto che il linguaggio è una rete interrelata di opzioni che producono significato; il termine “funzionale”, invece, spiega il fatto che il linguaggio è il risultato dell’evoluzione di ciò che è in grado di fare.

Secondo Halliday, il significato dipende dalle scelte linguistiche di chi scrive, le quali sono strettamente correlate ad un più ampio contesto socioculturale, con cui le realizzazioni linguistiche a livello superficiale hanno una forte interrelazione. A sua volta, l’ambiente socioculturale influenza il genere (il tipo di testo, associato ad una specifica funzione comunicativa), il quale comprende tre aspetti: il campo (determinato dal contesto da cui il testo deriva); il tenore (determinato dalla formalità dell’interscambio comunicativo e dalla relazione tra gli interlocutori); il modo (determinato dalle risorse richieste dalla comunicazione: vocabolario, stile, forma e mezzo espressivo, etc.).

Ciascuno di questi elementi del registro è associato ad un aspetto del significato. Questi aspetti, che insieme formano la semantica del discorso di un testo, corrispondono, rispettivamente, a tre metafunzioni – ideazionale, interpersonale e testuale – le quali soggiacciono all’apparato lessico-grammaticale, ovvero alle scelte lessicali e sintattiche che sottostanno al testo.

La metafunzione ideazionale è associata al campo e determina la realizzazione dell’esperienza umana, consentendo di trarre il senso dalla realtà; si serve di elementi di transitività (tipi di verbo, strutture attive/passive, partecipanti al processo, etc.).

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La metafunzione interpersonale ha a che fare con il tenore e quindi con l’interattività del testo; si realizza attraverso le strutture della modalità (verbi modali, lessico valutativo, avverbi di modo, etc.).

La metafunzione testuale è correlata al modo e si realizza attraverso le strutture tematiche ed informative (in particolare l’ordine e la struttura degli elementi nella frase) e attraverso la coesione (il modo in cui il testo è tenuto insieme dal punto di vista lessicale, per mezzo di pronomi, ellissi, anafore, ripetizioni, etc.).

La grammatica di Halliday è estremamente complessa e i traduttologi, che ad essa hanno fatto riferimento nei loro studi sulla traduzione, hanno selezionato gli elementi di maggiore interesse per le loro ulteriori ricerche.

In particolare, Juliane House si sofferma sul concetto di analisi del registro. Il suo intento è quello di condurre un’analisi comparativa del testo originale e del testo tradotto, rivolta alla qualità della traduzione, mettendo in risalto gli errori e le inesattezze.

La prima realizzazione di tale metodo risale al 1977 (A Model for Translation Quality

Assessment), ma, a parere degli altri studiosi, esso presenta varie problematiche (in particolare

l’assenza di testi poetici ed estetici nel repertorio dei casi di studio), alle quali l’autrice ha fatto fronte mettendo a punto una nuova versione del suo modello, nel 1997 (Translation Quality

Assessment: A Model Revisited), che verte essenzialmente nell’analisi del registro dei due testi,

originale e traduzione, da un punto di vista lessicale, sintattico e testuale.

Il modello di House opera come segue: innanzitutto viene fornito un profilo del registro del testo di partenza; a questo si aggiunge una descrizione del genere del testo di partenza sulla base del registro. Ciò consente di desumere una valutazione delle funzioni del testo originale, includendo la componente ideazionale ed interpersonale, ovvero si estrapolano le informazioni e si chiarisce il tipo di relazione tra l’emittente e il ricevente del messaggio.

Lo stesso processo descrittivo è condotto sul testo tradotto. I due profili così ottenuti vengono messi a confronto e si traggono considerazioni circa le inesattezze e gli errori, categorizzati a seconda del genere e della dimensione situazionale del registro e del genere.

Gli errori dimensionali sono definiti “errori occultamente erronei” (covertly erroneous

errors) per distinguerli da quelli che sono nominati “errori manifestamente erronei” (overtly erroneous errors), che costituiscono le inesattezze denotative o gli errori del sistema di arrivo.

Sulla base di tale confronto si desume una “constatazione di qualità” (statement of quality). Infine, la traduzione può essere classificata secondo due differenti categorie: traduzione manifesta (overt translation) o traduzione occulta (covert translation). Il primo tipo include i testi tradotti che si presentano al lettore in quanto traduzioni, senza nessuna pretesa di apparire come originali; al contrario, alla seconda categoria appartengono le traduzioni che nella cultura di arrivo godono dello statuto di testo originale.

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La funzione di una “traduzione occulta”, secondo la definizione di House, è di “ricreare, riprodurre o rappresentare nel testo tradotto la funzione che l’originale svolge nella sua struttura linguistico-culturale e nel mondo del discorso”(House, 1997:114).

A parere di House, l’equivalenza è necessaria a livello del genere e della funzione individuale del testo, ma la studiosa aggiunge un’ulteriore nozione, quella di “filtro culturale”, che il traduttore, in determinate situazioni – ad esempio, quando occorre rispecchiare nella traduzione particolari pratiche culturali del contesto originale – dovrebbe applicare, modificando gli elementi culturali per dare in tal modo l’impressione che la traduzione è di per sé un testo originale, apportando, in tal caso, cambiamenti a livello lessicale e del registro.

Nella teorizzazione di House, tuttavia, la distinzione traduzione manifesta/occulta è una classificazione relativamente flessibile, piuttosto che un’opposizione binaria. Del resto, la studiosa aggiunge che “nei casi in cui l’equivalenza occultamente funzionale è auspicata ma il genere del TP non esiste nella cultura di arrivo, lo scopo sarebbe quello di produrre una versione occulta piuttosto che una traduzione occulta”(House,1997:161).

Il metodo proposto da Juliane House nel 1977 rappresenta il primo sviluppo autorevole del modello elaborato da Halliday; vi fa seguito, nel 1992, il lavoro di Mona Baker, In Other Words: A

Coursebook on Translation.

L’obiettivo di Baker consiste nell’analizzare la traduzione a livello testuale e pragmatico, guardando all’equivalenza dal punto di vista del lessico, della grammatica, della struttura tematica, della coesione, del livello pragmatico (“il modo in cui gli enunciati sono utilizzati nelle situazioni comunicative”,Baker 1992:217).

La sua attenzione si focalizza maggiormente sulla funzione testuale, tralasciando le funzioni ideazionale e interpersonale. In aggiunta al modello di Halliday, la studiosa propone un approfondimento del metodo, suggerendo il “functional sentence perspective model” (lett. modello della prospettiva della frase funzionale), che prende in considerazione tanto il “dinamismo comunicativo” del testo, quanto l’ordine delle parole nella frase, mettendo al primo posto la componente tematica.

Rilevante per Baker, tra l’altro, risulta la “relativa marcatezza” delle strutture tematiche ed informative: il traduttore deve esserne cosciente e decidere se la traduzione richiede una forma altrettanto marcata, tenendo conto che spesso la scelta è condizionata dalle lingue.

Anche la coesione costituisce, per Baker, un elemento importante da tenere in conto nella traduzione, poiché l’aumento delle esplicitazioni dei legami coesivi può portare cambiamenti funzionali nel testo. L’idea della studiosa egiziana, dunque, è che ogni testo deve rispettare la logica della coesione prevista dalla lingua di appartenenza, rispondendo così alle esigenze pragmatiche della traduzione.

L’equivalenza pragmatica, di fatto, costituisce un nodo cruciale nella teoria di Baker, la quale la definisce come segue:

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Pragmatics is the study of language in use. It is the study of meaning, not as generated by the linguistics system but as conveyed and manipulated by participants in a communicative situation.72 (Baker, 1992:217)

I tre maggiori concetti della pragmatica sono: la coerenza, la presupposizione e l’implicazione.

La coerenza di un testo, come spiega Baker, “dipende dalle aspettative dell’ascoltatore o del ricevente e dalla loro esperienza del mondo”(Baker 1992:219), pertanto la coerenza del testo originale e della traduzione non possono essere uguali, perché i fruitori sono diversi. È dovere del traduttore far sì che il testo sia coerente per il lettore della traduzione. Lo stesso vale per la presupposizione, che Baker (1992:259) definisce “inferenza pragmatica”, nel senso che essa si riferisce alle conoscenze linguistiche ed extralinguistiche che l’emittente del messaggio ritiene siano in possesso del ricevente o che sono necessarie per la comprensione del messaggio stesso. La traduzione presenta dunque dei problemi quando il bagaglio culturale del lettore della traduzione non corrisponde al bagaglio culturale del lettore dell’originale, sia per ragioni di appartenenza a due contesti socioculturali differenti, sia per il fatto che tra l’originale e la traduzione, a volte, intercorre un intervallo temporale tale che le informazioni non sono più attuali o immediatamente recepibili dal lettore di arrivo.

Baker presta grande attenzione, altresì, all’implicazione, un’altra forma di inferenza pragmatica, che definisce come “ciò che il parlante intende o implica, piuttosto che ciò che dice” (Baker, 1992:223). Il concetto di implicazione è stato sviluppato da Paul Grice (1975), il quale descrive una serie di “norme” o “massime” che operano in una normale conversazione co-operativa (Munday, 2001:98). Esse sono: la quantità (dare la quantità di informazioni necessaria; non darne troppo o troppo poco); la qualità (dire solo cose vere o che si è in grado di sostenere); la rilevanza (dire ciò che è rilevante per la conversazione); il modo (dire ciò che occorre dire in una maniera appropriata al messaggio che si intende trasmettere e che possa essere compreso dal ricevente). Con il funzionamento di tali parametri, tuttavia, possono interferire altri fattori, in particolare il contesto linguistico e culturale a cui gli interlocutori appartengono e, ancor di più, la volontà di contravvenire deliberatamente a tali norme al fine di creare determinati effetti nella comunicazione. Baker sostiene che è compito del traduttore discernere le varie occorrenze e compiere le scelte traduttive appropriate (Baker 1992:236).

Altre due opere che sviluppano ulteriormente il modello di Halliday si devono a due studiosi dell’Università di Edimburgo, Basil Hatim e Ian Mason, coautori dei volumi Discourse

and the Translator (1990) e The Translator as Communicator (1997).

72“ La pragmatica è lo studio della lingua in uso. È lo studio del significato, non come generato da

un sistema linguistico ma come trasmesso e manipolato dai partecipanti alla situazione comunicativa.” [Trad. nostra].

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Il loro interesse è rivolto, in particolare, alle funzioni ideazionale e interpersonale, ed il loro obiettivo è, tra gli altri, quello di mettere in evidenza quali tipi di cambiamento causano differenze nelle varie funzioni del testo. Ad esempio, sulla base delle analisi condotte su determinati campioni di traduzioni, i due studiosi sono giunti alla conclusione che modificazioni a livello della transitività di un testo generano un cambiamento nella funzione ideazionale della traduzione; variazioni legate alla modalità provocano, invece, cambiamenti nella funzione interpersonale.

Il modello di analisi testuale di Hatim e Mason, oltre ad inglobare l’analisi del registro di House e l’analisi pragmatica di Baker, si spinge oltre, ovvero si occupa anche del livello semiotico del discorso. Il linguaggio ed il testo sono considerati coma la realizzazione di messaggi culturali e di relazioni di potere. Il discorso è definito, in senso ampio, come “Modi di parlare e scrivere che riguardano gruppi sociali che adottano un particolare atteggiamento attraverso le aree dell’attività socioculturale” [Trad. nostra] (Hatim and Mason, 1997:216)

Una funzione semiotica è svolta, altresì, dal dialetto e dall’idioletto, quest’ultimo esaminato in termini di analisi del tenore e del registro; mentre l’analisi del dialetto è associata a fattori relativi alla sintassi, al lessico e alla fonetica. La loro considerazione generale è che le peculiarità e le connotazioni del dialetto sono difficilmente riproducibili nel testo tradotto, che rispecchia una cultura di arrivo diversa da quella dell’originale.

A tal proposito, un concetto determinante nella loro teoria del tradurre è quello relativo alla cultura: i due studiosi inseriscono il tema della mediazione tra le culture nel discorso sull’attività traduttiva, asserendo che i fattori chiamati ad interagire sono l’abilità bilingue e la visione biculturale. Queste due nozioni, a loro volta, coinvolgono la sfera delle ideologie, del sistema morale e delle strutture sociopolitiche. L’inclusione di tali elementi avrebbe pertanto lo scopo di mediare la trasmissione del significato (Hatim e Mason, 1990:223).

Nella teoria di Hatim e Mason, si denota l’ intento di incorporare la nozione hallidayana di cultura ed ideologia nel loro modello di analisi della traduzione. Un intero capitolo del loro libro

Translator as Communicator è dedicato al tema dell’ideologia (Hatim e Mason, 1997:143-163).

Non mancano, tuttavia, le critiche nei confronti di tale metodo, a cui si rimprovera la vasta portata delle sue direzioni di analisi: l’incertezza consiste nel fatto se questo metodo sia effettivamente applicabile ad un’analisi concreta della traduzione. Inoltre, si denota in esso una tendenza di fondo a focalizzarsi sulle questioni linguistiche, come testimonia la terminologia adottata e il tipo di fenomeni investigati (scelta lessicale, coesione, transitività, cambiamenti stilistici, mediazione del traduttore, etc.), tendenza, questa, polemizzata dagli studiosi che promuovono l’approccio culturale alla traduzione. Lawrence Venuti, ad esempio, imputa all’approccio traduttivo di tipo linguistico la prosecuzione di “un modello conservativo di traduzione che ingiustificatamente restringe il ruolo [della traduzione] rispetto all’innovazione e al cambiamento culturale”(Venuti, 1998:21).

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Ciò che, invece, risulta essere apprezzato nella teoria di Hatim e Mason è la presenza di numerosi elementi che possono essere presi in considerazione quando si analizza una traduzione. In particolare, suscita interesse la loro distinzione tra elementi “dinamici” e “stabili” di un testo, che sono direttamente connessi alla strategia traduttiva: “testi fonte più ‘stabili’ possono richiedere un ‘approccio piuttosto letterario”, mentre nel caso di testi fonte più dinamici il traduttore si confronta con sfide più interessanti e la traduzione letterale non può più essere un’opzione” (Hatim e Mason, 1997:30-31).