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Dopo la grande fioritura teorica della traduzione nel periodo romantico, non si segnalano, nella seconda metà dell’Ottocento, testimonianze di particolare interesse in materia. Una fase intensa di concettualizzazioni e dibattiti prenderà avvio, piuttosto, nel XX secolo, segnando così la svolta nell’evoluzione teorica e pratica di questa disciplina.

Conformemente al limite cronologico individuato da Georges Steiner, ovvero il 1946 ‒ anno della pubblicazione del lavoro di Valéry Larbaud, Sous l’invocation de Saint Jérôme, considerata un’opera “affascinante ma per nulla sistematica” (Bassnett-McGuire, 1993:103) ‒, concludiamo la panoramica storica della teoria della traduzione con la prima metà del Novecento. La trattazione dello sviluppo della disciplina a partire dagli anni ’50 del XX secolo, sarà ripresa nel secondo capitolo della presente sezione teorica, nel quale si procederà secondo una nuova ottica di studio e di classificazione degli sviluppi teorici, identificata per mezzo della nuova denominazione attribuita alla materia della traduzione, vale a dire Translation Studies.

Il panorama teorico internazionale della traduzione, a partire dai primi anni del Novecento, si fa particolarmente frastagliato e complesso, per cui si manifesta una netta distinzione tra gli sviluppi della ricerca in ambito traduttologico nel mondo britannico ed americano, piuttosto segnato da un isolamento intellettuale, rispetto alle altre nazioni europee e all’area sovietica, che hanno visto il fiorire di scuole, teorie e movimenti, che hanno spesso interagito tra loro, confermando, smentendo o integrando le teorie altrui.

All’inizio del Novecento, contributi di fondamentale importanza provengono dal formalismo russo e dallo strutturalismo cecoslovacco, che trovano il loro posto accanto alle

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formulazioni che man mano maturano nel contesto europeo occidentale (tedesco, francese, italiano e spagnolo).

Nonostante si risenta ancora di certe concezioni proprie delle epoche passate, gli apporti teorici allo studio della traduzione appaiono ora particolarmente innovativi ed importanti, in quanto provengono da discipline ben determinate e strutturate, quali: la linguistica, la psicologia, la filosofia, la critica letteraria, la semiotica.

Un contributo particolarmente significativo è quello del filosofo tedesco Walter Benjamin, attraverso il suo celebre saggio del 1923, Die Aufgabe des Übersetzers16.

La teoria di Benjamin muove dall’idea dell’esistenza della “pura lingua”, astrazione/concetto di cui si serve per spiegare i grandi temi legati alla traduzione: il rapporto tra le lingue, la traducibilità, la fedeltà e la libertà. Ammessa l’esistenza di una “pura lingua”, Benjamin ritiene che tutte le lingue, accomunate da un criterio di affinità, si integrino in essa, ovvero siano caratterizzate da un concetto di “convergenza”, per cui, “le lingue non sono fra loro estranee, ma a priori, e prescindendo da ogni relazione storica, sono affini in ciò che vogliono dire” (Nergaard, 1993:225). Da ciò deriva l’idea di traducibilità, che il filosofo tedesco riallaccia al concetto di “sopravvivenza” di un’opera, la quale si mantiene in vita, dunque, quando di protrae nella storia, e per far ciò deve subire un processo di “maturazione”, inteso come fenomeno di trasformazione e rinnovamento dell’originale, fenomeno a cui concorre in larga misura la traduzione, in quanto a modificarsi è tanto la lingua dell’autore del testo originale quanto la lingua del traduttore. Stabilito che la traduzione consiste nel “trasmettere con la massima esattezza, possibile, la forma e il senso dell’originale” e che “nessuna traduzione sarebbe possibile se la traduzione mirasse, nella sua essenza ultima, alla somiglianza con l’originale” (Nergaard, 1993:225-226), Benjamin spiega i concetti di fedeltà e libertà alla luce della “pura lingua” sostenendo, per la prima questione (la fedeltà), la teoria che “La vera traduzione è trasparente, non copre l’originale, non gli toglie luce, ma fa riverberare tanto più pienamente sull’originale, come rafforzata per suo tramite, la pura lingua.” (Nergaard, 1993:233), e formulando, per la seconda (la libertà), il concetto di “non- comunicabile” presente in ogni lingua, ovvero “qualcosa che rimane oltre il comunicabile” e che, a seconda del rapporto con cui lo si coglie, può essere definito “simboleggiante” o “simboleggiato”, laddove il “simboleggiante” è la “pura lingua”, l’essenza vincolata al materiale linguistico, mentre il “simboleggiato” porta in sé il senso. Ne risulta che “Il grande e unico potere della traduzione” sarebbe, dunque, quello di “svincolare la pura lingua dal simboleggiante, fare del simboleggiante il simboleggiato stesso” (Nergaard, 1993:233-234). Il compito del traduttore consisterebbe, pertanto, altresì, nel “redimere nella propria quella pura lingua che è rinchiusa in un’altra” (Nergaard, 1993:234).

16 W. Benjamin, Die Aufgabe des Übersetzers, 1923, Introduzione alla traduzione di Tableaux parisiens di Baudelaire. Ora in W.B. Gesammelte Schriften, (hrsg.) R. Tiedemann, H. Schweppenhäuser,

Frankfurt am Main, Suhrkamp Verlag, 1972. Bd. IV, pp. 9-21. Cfr. “Il compito del traduttore“, in Nergaard, 1993:221-236.

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Nei primi decenni del Novecento si collocano anche le riflessioni Benedetto Croce e José Ortega Y Gasset a proposito della traducibilità.

Il filosofo e critico italiano, nel suo saggio intitolato L’intraducibilità della rievocazione17 (1936), ha proposto osservazione di grande rilievo sulla concezione della traduzione, con un approccio in cui si può cogliere una duplice tendenza, da un lato distruttiva – in particolare in relazione al concetto di traducibilità – e dall’altro costruttiva – apportando contributi innovativi e moderni utili ai fini della teoria e della pratica del tradurre.

Croce affronta la questione della traduzione da una prospettiva molto ampia, prendendo in esame qualsiasi tipo di trasferimento di qualsiasi tipo di testo.

Una delle prime osservazioni riguarda l’impraticabilità della traduzione intersemiotica, come la traduzione musicale, pittorica o scultorea delle poesie e la rappresentazione teatrale dei drammi, per ragioni che sarebbero intrinseche alla natura stessa della poesia, con le sue caratteristiche metriche e ritmiche.

Il vero tradurre, dunque, per Croce consiste nello “stabilire l’equivalenza dei segni per la reciproca comprensione e intelligenza”, laddove per equivalenza egli intende il processo che “si adopera a togliere gli equivoci della varietà” che complicano la conoscenza; mentre il tipo di testi che si presterebbero ad essere tradotti con successo è la prosa, ma con una rigida restrizione: “la prosa che sia meramente prosa, la prosasticità della prosa”, escludendo invece categoricamente la prosa letteraria, poiché questa, “come ogni altra forma di letteratura, ha di più un’elaborazione di carattere estetico, che pone al traduttore lo stesso non superabile ostacolo che gli pone la poesia” (Nergaard, 1993:216-217).

Croce passa dunque a esaminare nel concreto le traduzioni che, a dispetto della loro impossibilità teorica, tuttavia esistono. Le divide in due categorie: nella prima rientrano le traduzioni interlineari, strumenti funzionali all’apprendimento delle opere originali, prive di autonomia, ovvero “domandano di essere integrate con gli originali”; la seconda, invece, comprende le traduzioni che hanno la pretesa di sostituirsi all’originale, ri-creandolo. Per le traduzioni della prima categoria, Croce ricorre alla metafora delle “belle infedeli”; per le seconde a quella delle “brutte fedeli”; mentre crea una terza categoria a cui associa l’idea delle “brutte infedeli” e che definisce come le traduzioni più numerose e “che confondono i due diversi reggimenti e hanno rese sospette le traduzioni e data mala fama ai traduttori in generale” (Nergaard, 1993:218).

Un versante su cui il breve saggio di Croce si pone come innovatore è quello dell’intromissione mentale dei testi altrui. Il filosofo, di fatto, assimila il concetto di lettura al concetto di traduzione associandoli all’idea che, per “intendere un pensiero altrui o dei filosofi dei tempi passati importa includerlo nel nostro, cioè non veramente tradurlo (come si dice per

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metafora) nel nostro “linguaggio”, ma nel nostro “pensiero” presente”. Dunque, se per comprendere il pensiero altrui o i concetti dei filosofi del passato occorre fare riferimento al nostro presente, per comprendere una poesia, allo stesso modo, non occorre tradurla nel nostro “linguaggio”, perché, “leggere una poesia, leggerla veramente – sostiene Croce – è ricevere unicamente i suoni originari e in essi rivivere le immagini della poesia originale”. Al contrario, se la poesia viene sottoposta “ad una sequela perpetua di variazioni e traduzioni, si nega il carattere ideale, serbando di lei il mero nome per darlo ai sempre nuovi ma sempre irrazionali e bruti modi vitali” (Nergaard, 1993:218-219).

Sulla scia dell’elaborazione teorica di Croce in campo traduttologico si porranno, nei decenni successivi, altri importanti teorici, quali Roman Jakobson e Umberto Eco, che riprenderanno, rispettivamente, le questioni legate all’intraducibilità della poesia e ai limiti dell’interpretazione.

Ortega y Gasset, invece, fonda la sua idea di traducibilità sul concetto che tradurre è “un desiderio irrimediabilmente utopistico”, così come utopistiche sono tutte le intenzioni che l’uomo si propone di realizzare, ivi inclusa la comunicazione, l’utilizzo del linguaggio, perché quest’ultimo sarebbe caratterizzato dal limite di non poter esprimere tutto ciò che la mente umana elabora. La portata di tale limite aumenta nel caso della traduzione, e da qui deriva la “miseria del traduttore”, ma al tempo stesso “lo splendore della traduzione”, come chiarisce nel suo saggio Miseria y

esplendor de la traduccíon, del 1937.18

Tale limite del parlare, di fatto, viene supplito, nell’ottica del filosofo spagnolo, dalla rivalutazione del concetto di silenzio: “Ogni popolo tace alcune cose per poterne dire altre. Perché sarebbe impossibile dire tutto.” (Nergaard, 1993:182)). Il silenzio, dunque, diventa parte integrante del linguaggio stesso e svolge il suo ruolo fondamentale anche nella traduzione: “essa consiste nel dire in una lingua proprio ciò che questa lingua tende a tacere. Ma allo stesso tempo, si intravede quell’aspetto del tradurre che può costituire una magnifica impresa: la rivelazione dei mutui segreti che popoli ed epoche si nascondono reciprocamente e che tanto contribuiscono alla loro dispersione e ostilità.” (Nergaard, 1993:184).

Sebbene Ortega y Gasset riconosca la grande difficoltà dello scrittore, e ancora di più del traduttore, di “usare la sua lingua d’origine con prodigiosa abilità, ottenendo due cose che sembra impossibile conciliare: essere intellegibile e allo stesso tempo modificare l’uso corrente della lingua”, la sua posizione non è ostile alla possibilità del tradurre. Ciò che, al contrario, legittima e nobilita tale attività è la concezione della traduzione come una pratica che consente di “allontanarci dalla nostra lingua per andare verso le altre”, idea che il filosofo spagnolo condivide con il teologo tedesco Schleiermacher (Nergaard, 1993:189-190).

18 La miseria della traduzione, in Nergaard, 1993:181-213. (Ortega y Gasset, Miseria y esplendor de la traduccíon, in Obras completas, t. 5, pp. 429-449, Madrid, 1947.)

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Contributi significativi alla teoria della traduzione, nella prima metà del Novecento, provengono altresì dal campo della linguistica, soprattutto in virtù dell’avvio di organiche riflessioni sulla questione dei significati delle parole.

Ad occuparsi di tale problematica è innanzitutto il linguista svizzero Ferdinand de Saussure, noto per il suo Corso di linguistica generale presso l’Università di Ginevra, raccolto e pubblicato postumo dai suoi allievi nel 191619.

Lo studioso svizzero dimostra che il rapporto di significazione che unisce la cosa e il concetto (non linguistici) alla parola non è così semplice come appare nella concezione tradizionale, secondo la quale le cose e i concetti sono già dati in precedenza e non esiste problema di significato che non sia solubile. Saussure pone in evidenza il fatto che la denominazione delle cose e dei concetti non ubbidisce a leggi universali, poiché ogni civiltà suddivide il mondo in oggetti secondo i propri bisogni, e sostiene, di conseguenza, che ogni parola fa parte di un sistema (insieme strutturato – diremmo oggi) e non di una nomenclatura in cui costituirebbe un’unità isolata.

Con Saussure prende, dunque, avvio il dibattito della linguistica moderna sul problema del

senso delle parole, cha ha la sua diretta ripercussione nella teoria della traduzione. L’analisi di

Saussure in tal senso pone in rilievo il fatto che le difficoltà che si manifestano nel tradurre non sono legate a certe pretese di “genialità delle lingue” né di “ricchezza” o “povertà” di certi idiomi forti o deboli, nobili o volgari per natura, ma che dipendono dalla descrizione della civiltà di cui la lingua è espressione. Per questa ragione, Saussure disapprova la traduzione parola per parola, in quanto ogni gruppo sociale fa l’inventario delle cose del mondo in maniera diversa, e le nomenclature particolari di questi inventari non possono, quindi, mai corrispondere a pieno fra loro, termine per termine. Al contrario, il linguista svizzero è favorevole alle soluzioni empiriche dei traduttori, quali il prestito ed il calco, per esempio, ed esprime il suo ottimismo nei confronti del tradurre, che seppur più difficile di quanto finora si sia creduto, è comunque un’attività possibile (Mounin, 1965:77-80).

Anche il linguista americano Bloomfield – nonostante l’intransigenza teorica rispetto alla semantica, che egli considera come il punto debole della linguistica, in virtù della nuova concezione di senso da lui elaborata sulla base dell’introduzione della nozione di situazione, come parametro determinante per la comprensione degli enunciati – ritiene che la traduzione sia possibile in virtù di certi intendimenti pratici tra gli interlocutori (Saussure, 1916:83-86).

La tendenza generale di questa prima fase di studi sulla traduzione del primo Novecento consiste, dunque, essenzialmente, nell’idea che, nonostante la reciproca incommensurabilità tra le lingue, la traduzione è possibile, in virtù proprio di tale diversità linguistica, che si rispecchia in

19 F. de Saussure, Cours de linguistique générale, a cura di Charles Bally, Albert Riedlinger e Albert

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una radicale diversità di pensiero, e dunque di espressione della realtà e del modo di vivere il mondo.

La novità dell’approccio consiste, tuttavia, nel fatto che in questa fase iniziano a comparire delle differenziazioni marcate tra i vari tipi di traduzione possibili, tanto rispetto ai differenti tipi di testo, quanto in rapporto alle finalità della comunicazione e alle attese del lettore.

Dall’Inghilterra, ad esempio, giunge la teoria di Theodor H. Savory (Saussure: 1916:61) che distingue quattro tipi di traduzione, non sulla base degli autori, dei tipi di testo, delle lingue originali o di quelle in cui si traduce, ma sulla base delle necessità che il lettore cerca di soddisfare per mezzo delle traduzioni:

1. La traduzione fattuale, nella quale il lettore cerca solo un’informazione, in genere materiale. Operazione rigorosa quando il fatto da trasmettere è descritto, nelle sue lingue, dallo stesso punto di vista.

2. La traduzione narrativa, in cui il lettore cerca un’informazione, elementare anche in questo caso, sul succedersi di una serie di fatti raccontati in un certo ordine. Operazione che vuole essere rigorosa (e può sempre riuscirvi) solo a livello, appunto, della successione dei fatti.

3. La traduzione scientifica e tecnica, che presenta problemi soprattutto terminologici e come tali, specifici. Anch’essa può raggiungere il rigore più assoluto.

4. La traduzione degli stili, possibile solo se l’autore, il traduttore e il lettore sono per così dire sulla stessa lunghezza d’onda personale: operazione quasi sempre approssimativa.

Sulla base di queste premesse teoriche si costruiranno nei decenni a venire quelle formulazioni teoriche innovative che daranno luogo all’evoluzione della materia del tradurre in direzione di una disciplina con una organicità e una strutturazione proprie, la cosiddetta traduttologia, o Translation Studies, più prossima, dunque, ad una scienza che non ad una pratica empirica, aprendo così la strada, come vedremo nel capitolo seguente, ad una serie di dispute teoriche sullo status della materia.

36 CAPITOLO II

Gli sviluppi contemporanei della teoria della traduzione

1. Introduzione

La pratica della traduzione esiste da millenni, com’è stato esposto nel precedente capitolo, ma la sua istituzione come disciplina è un fenomeno del tutto recente. Di fatto, in ambito accademico essa è rimasta a lungo relegata al rango di attività finalizzata all’apprendimento delle lingue, e a livello culturale ha mantenuto per tanto tempo – e parzialmente riveste ancora oggi – un ruolo piuttosto marginale e subordinato rispetto ad altri tipi di scrittura. Inoltre, si è protratto per secoli il divario tra pratica e teoria, laddove, nel corso di lunghi secoli, per teoria si devono piuttosto intendere le riflessioni, che la pratica del tradurre ha stimolato, di volta in volta, in quegli intellettuali che l’hanno praticata, per finalità e con metodologie differenti.

Per lunghi secoli ad occuparsi di traduzione sono stati per lo più scrittori, filologi, letterati, assieme ad alcuni teologi e a qualche linguista “idiosincratico”20; a partire dal secondo dopoguerra, invece, si dedica attenzione costante e impegno scientifico a questa materia. In particolare, lo studio della traduzione, soprattutto della traduzione letteraria, inizia ad essere condotto nell’ottica della linguistica, della letteratura comparata e dell’analisi contrastiva, non senza l’apporto di contributi essenziali da parte delle teorie informatiche, logiche e matematiche.

È così che l’approccio allo studio della traduzione muta considerevolmente: i teorici della nuova generazione si proiettano verso l’obiettivo di istituire una vera e propria disciplina, alla quale assegnare, non solo una maggiore sistematicità e scientificità, ma anche una denominazione adeguata al suo nuovo status. Come vuole la tradizione scientifica, infatti, ogni campo di studi deve essere designato da un termine “sintetico” che risponda il più possibile ai criteri di economia linguistica e di chiarezza semantica. Per il campo di studi della traduzione, dunque, si cerca una denominazione che sintetizzi il concetto di “studio scientifico della traduzione”.21

Nel presente capitolo s’intende tracciare una sintesi della nascita e dello sviluppo dei

Translation Studies, fornendo una panoramica dei principali approcci teorici venuti alla ribalta a

partire dalla seconda metà del XX secolo.

20 J. S. Holmes, Translated! Papers on Literary Translation and Translation Studies, Rodopi,

Amsterdam, 1988, pp. 67-68.

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La padronanza dei concetti-chiave della traduttologia ed un orientamento globale all’interno delle differenti prospettive di studio, che segnano la fase più recente dello studio della traduzione, risultano necessari al fine di addentrarsi con consapevolezza nelle questioni relative alla critica delle traduzioni, su cui verte il presente lavoro di tesi dottorale.

Un elemento di primaria importanza in questa fase teorica consiste nell’aspetto terminologico, che soggiace allo studio scientifico della disciplina.

Dal momento che i materiali teorici, ai quali ci affideremo in questo capitolo, sono redatti in diverse lingue (in primo luogo, inglese, ma anche francese e tedesco), riteniamo che l’adattamento alla lingua italiana dei concetti formulati dagli studiosi stranieri sia uno degli obiettivi fondamentali per assicurare intelligibilità e uniformità al nostro discorso.

Nella maggior parte dei casi, le citazioni in lingua straniera saranno rese in italiano direttamente all’interno del nostro testo, oppure nelle note a piè di pagina, nel caso in cui le citazioni originali corredino la nostra trattazione. Laddove la terminologia presentasse delle problematicità ai fini dell’adattamento in lingua italiana, saranno proposte tra parentesi le forme originali, accanto al nostro tentativo di traduzione.