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5. Le principali teorie contemporanee della traduzione

5.8. Lo studio della traduzione rispetto alle questioni di genere e al colonialismo

Diversi contributi inseriti nella già menzionata antologia di Bassnett e Lefevere,

Translation, History and Culture (1990), vanno nella direzione di un’apertura degli orizzonti di

studio della traduzione alle questioni sociali emergenti, soprattutto in certe aree lontane dal mondo occidentale. Le questioni di potere venutesi a creare all’interno di certe società e nelle relazioni tra nazioni e popoli differenti, iniziano a dominare la scena degli studi traduttologici a livello mondiale. Le due problematiche di maggiore rilevanza sono il femminismo e il colonialismo, intorno alle quali si sviluppano una serie di dibattiti che avranno la loro risonanza anche nelle concezioni teoriche in campo traduttologico di portata internazionale.

Per avere un’idea di come negli studi sulla traduzione si riversino le questioni di genere e il colonialismo, è possibile fare riferimento, tra gli altri, ai contributi di due teorici, Barbara Godard e Mahasweta Sengupta, che affrontano, rispettivamente, la problematica delle questioni di genere e della scrittura femminista intesa a sovvertire il discorso (maschilista) predominante93, e la problematica delle relazioni sociali venutesi a creare in seguito al colonialismo94. In entrambi i casi, la traduzione è intesa nei termini di una manipolazione necessaria ai fini di asservire il testo originale alle proprie esigenze.

In generale, le teorie femministe vedono una correlazione tra lo status della traduzione, che di sovente è considerata derivativa ed inferiore rispetto all’originale, e quello delle donne, spesso represse nella società e nell’ambito letterario. Da questa tendenza, tuttavia, prende le distanze Sherry Simon, che, pur condannando il carattere prevalentemente maschilista della scrittura, supera l’accostamento uomo-scrittura/donna-traduzione e, in uno studio dal titolo Gender in Translation:

Cultural Identity and the Politics of Transmission del 1996, correla il ruolo delle donne nella

traduzione al concetto di translation project (progetto traduttivo):

93 B. Godard, ‘Theorizing Feminist Discourse/Translation’, in Bassnett/Lefevere, 1990:87-96. 94 M. Sengupta, ‘Translation, Colonialism and Poetics; Rabindranath Tagore in Two Worlds’, in

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For feminist translation, fidelity is to be directed toward neither the author nor the reader, but toward the writing project – a project in which both writer and translator participate. 95 (Simon, 1996:2)

Nell’ottica femminista, di fatto, il concetto di fedeltà trascende le differenze culturali e linguistiche, per ascriversi piuttosto ad un elemento che sta sopra le parti, ossia il progetto di scrittura, a cui si collega direttamente il progetto traduttivo.

Nella prospettiva di genere, la teoria e la pratica della traduzione diventano occasione per costruire un linguaggio capace di scuotere la lingua e sovvertire il rapporto con il lettore, ponendolo di fronte a qualcosa di nuovo, frutto di manipolazione, anche ironica, del testo di partenza. In particolare, Luise von Flotow, nel suo articolo dal titolo “Feminist Translation: Contexts, Practices and Theories”96, spiega come la traduzione femminista in Quebec sia direttamente correlata al nuovo fenomeno letterario, che ha interessato la letteratura canadese tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80, ossia la scrittura femminista, finalizzata alla produzione di opere letterarie altamente sperimentali, votate ad attaccare, decostruire o semplicemente superare il linguaggio convenzionale da loro percepito come patriarcale, servendosi al contrario di un idioma con cui esprimere le proprie esperienze, intellettuali e fisiche (Von Flotow, 1991:72).

È interessante notare come il discorso teorico sul genere in traduzione rievochi il longevo dibattito a proposito della definizione delle “belle infedeli”, basato sullo stereotipo secondo cui le traduzioni belle, come le belle donne, sono per lo stessa natura infedeli, mentre le traduzioni brutte, parimenti alle donne meno avvenenti, assicurano maggiore fedeltà. È evidente che la nuova pratica traduttiva, mirante a far sentire la presenza della traduttrice nel testo d’arrivo, apporti notevoli sconvolgimenti nella visione tradizionale del ruolo della traduzione e dell’uso del linguaggio, a cui fa seguito la ridefinizione di concetti quali la fedeltà, la trasparenza, l’interferenza, la trasformazione, etc.

Risulta appropriato, a tal proposito, l’interrogativo che si pone Rosemary Arrojo nel suo saggio “Fidelity and The Gendered Translation”97 dedicato all’analisi della fedeltà e delle relazioni che intercorrono tra l’originale e le traduzioni femministe:

What kind of ‘fidelity’ can the politically minded, feminist translator claim to offer to the authors or texts she translates and deconstructs?98 (Arrojo, 1994:149)

95 Per la traduzione femminista, la fedeltà non deve essere rivolta nei confronti dell’autore né del

lettore, ma verso il progetto di scrittura – un progetto in cui partecipano sia lo scrittore che il traduttore. [Trad. nostra].

96 L. von Flotow, “Feminist Translation: Contexts, Practices and Theories”, in TTR : traduction,

terminologie, rédaction, Vol. 4, n. 2, secondo semestre 1991, pp. 69-84.

97 R. Arrojo, “Fidelity and The Gendered Translation” in TTR : traduction, terminologie, rédaction,

vol. 7, n. 2, 1994, p. 147-163.

98 “Che tipo di ‘fedeltà’ può garantire la traduttrice femminista, dotata di proprie idee politiche, agli

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Fornire una risposta esauriente e convincente appare un’impresa alquanto complessa. Un fattore determinante, tuttavia, è l’identificazione della traduzione con una vera e propria forma di

scrittura, un’attività di “produzione”, piuttosto che con la semplice resa del messaggio di qualcun

altro.

Arrojo, inoltre, richiama l’attenzione su un altro punto importante della traduzione di genere, ossia la presa di coscienza, da parte delle traduttrici stesse, di ciò che la traduzione femminista comporta. In primo luogo, si tratta di riconoscere che la presenza visibile della figura femminile nel linguaggio è un modo per mettere in pratica le politiche femministe; secondariamente, data l’impossibilità del linguaggio di essere neutrale, la traduttrice si dichiara consapevole del fatto che la focalizzazione femminista da lei assunta guida e struttura il suo lavoro di traduzione. Le traduttrici, effettivamente, acquisiscono la consapevolezza del fatto che la sfera culturale a cui fanno riferimento quando traducono è costituita dalla cultura femminista emergente, fatta di un proprio dizionario, di una propria enciclopedia, di un proprio repertorio di opere teoriche, letterarie, critiche, con le proprie traduzioni e le prefazioni alle traduzioni.

In conclusione, le nuove nozioni di ‘manipolazione’, ‘produzione’, ‘trasformazione’, ‘appropriazione’, etc., associate alla pratica traduttiva esercitata dalle donne, sono il segnale di un cambiamento radicale delle relazioni tra la traduzione, il testo originale e il suo autore.

Un’ulteriore area d’interesse per lo studio della svolta culturale all’interno dei Translation

Studies è rappresentata dalla letteratura post-coloniale99, che, per sua stessa natura – si tratta di opere scritte nella lingua dei colonizzatori da autori post-coloniali – pone in risalto una serie di fattori precedentemente ignorati, quali il genere, l’etnia, la sociologia, l’alterità linguistica, l’identità, la politica e l’ideologia, elementi che, com’è ovvio, penetreranno anche nella riflessione teorica e nell’attività pratica della traduzione, come spiega Federica Mazzara nel suo saggio dal titolo “La traduzione come studio culturale”100:

I Post-colonial Studies rappresentano un altro ambito di ricerca con cui la disciplina dei Translation Studies si è trovata spesso a dialogare. Quello della coesistenza in uno stesso territorio, in situazioni di differenza linguistica e

99 Per letteratura post-coloniale si intende ciò che Paul F. Bandia, studioso dell’Università di

Montreal, nel suo saggio dal titolo “Post-colonial literatures and translation”, definisce come “Letterature che hanno a che fare, nello specifico, con neo-colonialismo e letterature metropolitane, migranti e della diaspora, che possono essere raggruppate sotto l’etichetta di letteratura post-coloniale. Queste letterature hanno intrapreso ricerche traduttologiche che coinvolgono culture non-occidentali, dall’Africa, dall’India, dall’America Latina e dai Caraibi, come anche culture non-egemoniche come quella irlandese e quelle delle colonie come Australia, Canada e Sud Africa”. [Trad. nostra]. Cfr. Y. Gambier, L. Van Doorslaer, Handbook

of Translation Studies. Volume 1, John Benjamins Publishing, Amsterdam/Philadelphia, 2010, pp. 264-269. 100 F. Mazzara, La traduzione come studio culturale, contributo per la conferenza “Estudios

culturales/Cultural Studies – El porvenir de las humanidades” tenutasi all’Università di Valencia, 17-21 ottobre 2005. Disponibile in formato elettronico: http://discovery.ucl.ac.uk/4837/1/4837.pdf, consultato il 01- 12-2012.

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culturale, di discriminazione e disagio, di perdita della propria lingua e tradizioni, di tentativi di preservare la propria memoria culturale, è certamente un fenomeno che riguarda tutte le vicende di migrazione. Ne è derivata un’evidente mescolanza di genti, di lingue, di intonazioni e inflessioni diverse, che devono coesistere e coabitare negli stessi spazi, quasi sempre in situazioni conflittuali e mai realmente pacificate. L’ibridismo linguistico che caratterizza quasi sempre i paesi colonizzati, o “post”colonizzati, è spesso frutto di negoziazioni fra le due lingue – quella del colonizzatore e quella del colonizzato – ma soprattutto fra le due culture molto diverse fra loro.

Questa situazione polimorfica ha certamente influito sul problema della traduzione, che in questi casi non è mai estranea a questioni di identità, resistenza, egemonia e potere. (Mazzara, 2005:8)

Un fondamentale contributo agli studi post-coloniali in ambito traduttologico è quello fornito dalla studiosa bengalese Gayatri C. Spivak, che in un saggio dal titolo “The Politics of Translation” del 1993101, si occupa delle conseguenze ideologiche della traduzione in lingua inglese della letteratura del “Terzo Mondo” e delle distorsioni che essa implica. Nello specifico, rivolge alla cultura occidentale l’accusa di aver dato preminenza all’inglese e alle altre lingue egemoni, tanto da rendere quasi impossibile la traduzione inversa. Spivak definisce la lingua egemonica usata per tali traduzioni con il termine “translationese” (Venuti, 2000:400), poiché elimina l’identità degli individui e delle culture politicamente più deboli.

La studiosa bengalese, inoltre, riconosce in questo tipo di traduzione una forte tendenza ad “addomesticare l’estraneità” – per usare un termine di Venuti, che verrà analizzato in seguito – al fine di agevolare il lettore occidentale, rendendogli possibile la comprensione di quegli elementi esotici che caratterizzano la cultura e la lingua di partenza. La sua opinione è alquanto critica nei riguardi di tale pratica; dal suo punto di vista, le donne occidentali a sostegno del femminismo dovrebbero mostrare una reale solidarietà alle donne delle aree post-coloniali, dovrebbero imparare la lingua in cui loro parlano e scrivono. In sostanza, la traduttrice bengalese denuncia il forte influsso che, tradizionalmente, la cultura egemone esercita sulla traduzione, particolarmente visibile nei casi di forte collisione tra i valori culturali, di genere, di identità, etc. A tal proposito la studiosa utilizza l’espressione “politica della traduzione”, per indicare che la politica (di genere, culturale, economica, etc.) è implicita in ogni traduzione ed ha come conseguenza il fatto di imporre i valori culturali e sociali supportati dalla lingua egemone in cui si traduce, facendo sì che le differenze culturali siano assimilate per rendere accessibile il testo al pubblico europeo.

Spivak assume, inoltre, una specifica posizione nei confronti della visione antropologica dell’individuo rispetto alla cultura a cui appartiene, e di conseguenza, dello scrittore rispetto alla

101 C. G. Spivak, “The Politics of Translation”, 1993/2000, in L. Venuti, a cura, The Translation Studies Reader, Routledge, London, New York, 2000, pp. 397-416.

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corrente letteraria del suo tempo, posizione che si riflette nel suo approccio traduttivo. Dal punto di vista della studiosa bengalese, risulta erronea la supposizione dell’antropologia classica, secondo cui ogni individuo non è altro che un esempio della cultura in cui vive. L’interesse della studiosa non si rivolge alla tendenza principale, all’opinione corrente, ma avverte una preferenza letteraria per quei testi che esulano dalla rappresentazione del punto di vista della maggioranza e dal rispecchiamento di una nazione. Per tale ragione, sottolinea che il traduttore, o meglio la traduttrice, deve equipaggiarsi al meglio, soprattutto quando traduce gli scritti delle donne delle aree post-coloniali per il pubblico occidentale, perché deve essere in grado di tradurre tutti quei segnali, a volte anche celati, delle attitudini legate al colonialismo (Venuti, 2000:405).

Della complessità e della varietà dei fenomeni che si incontrano nel linguaggio utilizzato nelle colonie, offre una sintesi lo studioso canadese Bandia, nel saggio già menzionato, dal titolo “Post-colonial literatures and translation” (Gambier/Van Doorslaer, 2010), dove l’autore espone il carattere innovativo e sperimentale di tale linguaggio, di cui gli scrittori si servono come artificio letterario, e precisa che, per quanto riguarda la traduzione, tali trasformazioni linguistiche del linguaggio delle colonie sono concettualizzate sia a livello pragmatico, ossia rispetto ai processi linguistici di trasferimento, sia a livello metaforico, vale a dire rispetto al ruolo implicito della traduzione nell’approccio al discorso multilingue.

Questioni quali l’identità, l’ideologia e il potere, oltre ad essere inerenti alla letteratura prodotta dal discorso subalterno nella lingua dominante o egemonica, sono di primaria importanza nelle relazioni tra letteratura post-coloniale e traduzione, dal momento che gli studi post-coloniali hanno riportato l’attenzione del campo di studi della traduzione su argomenti da sempre fervidi in campo traduttologico, quali la natura dell’originale, le sue relazioni con il testo tradotto, la nozione di “equivalenza” o “transfer” tra unità linguistiche ed, infine, la concettualizzazione puramente linguistica, non ideologica, della pratica traduttiva.

Non si può non riconoscere che la letteratura post-coloniale penetra nel resto del mondo attraverso la traduzione, la quale, dunque, assume la funzione, alquanto onerosa, di scongiurare la marginalizzazione di certe culture periferiche e ritagliare loro un posto nel panorama letterario globale (Gambier/Van Doorslaer, 2010:266). Per rivalutare, quindi, il ruolo positivo della traduzione nei confronti della letteratura post-coloniale – ruolo spesso visto con sospetto dagli studiosi post-coloniali, per via del disequilibrio nelle relazioni di potere interculturale – Bandia sostiene che occorre rimediare a tale squilibrio, e propone una maniera in cui i traduttori postcoloniali dovrebbero agire: “Il traduttore post-coloniale dovrebbe essere interventista e, attraverso la pratica della ri-traduzione, decostruire strategie traduttive colonizzanti e resistere alle imposizioni ideologiche colonialistiche” [Trad. nostra](Gambier/Van Doorslaer, 2010:267). Solo sulla base di queste riflessioni, secondo lo studioso canadese, si può comprendere il legame tra la letteratura post-coloniale e la traduzione.

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La consapevolezza del fatto che vi siano culture letterarie minoritarie, la cui unica forma di riconoscimento è la loro traduzione nelle lingue egemoniche, fa nascere l’idea che la produzione letteraria post-coloniale esista solo come letteratura tradotta, cosicché l’ulteriore traduzione in altre lingue è considerata come la traduzione di un “originale tradotto” (Gambier/Van Doorslaer, 2010:267). Per tale ragione, molti studiosi definiscono la traduzione della letteratura post-coloniale attraverso termini come “ri-traduzione” (Niranjana 1992), “ri-creazione”, “riscrittura” o “riparazione” (Bandia, 2008).

Essenzialmente, il post-colonialismo impone alla traduzione una strategia che, lungi dall’essere semplicemente un “transfer”, esige una pratica di negoziazione tra culture associate da relazioni di potere sbilanciate.

Il legame tra colonizzazione e traduzione è accompagnato dall’argomento, secondo cui la traduzione ha svolto un ruolo attivo nel processo di colonizzazione e nella diffusione di un’immagine ideologizzata dei popoli colonizzati. Bassnett e Trivedi, nell’introduzione al loro volumecoedito del 1999, Post-colonial Translation. Theory and practice, puntualizzano che per lungo tempo la traduzione è stata un “processo unidirezionale”, nel senso che si è tradotto nelle lingue europee per il consumo europeo, senza istituire, invece, un reciproco processo di scambio bidirezionale (Bassnett/Trivedi, 1999:5).

Nella loro introduzione, la traduzione è definita come un’attività altamente manipolatoria che implica tutti gli stadi in questo processo di transfer oltre i confini linguistici e culturali; viene, inoltre, espresso il parere secondo cui la traduzione non è un’attività innocente, trasparente, ma è gravata di significato ad ogni stadio, ma soprattutto che essa raramente, se non mai, implica una relazione di uguaglianza tra i testi, gli autori o i sistemi(Bassnett/Trivedi, 1999:2).

Molto spesso, al contrario, nei discorsi a proposito di traduzione e post-colonialismo, ricorre l’espressione “relazioni di potere”. Per comprendere questo concetto è utile fare riferimento al volume di Tejaswini Niranjana del 1992, Siting Translation: History, Post-Structuralism, and

the Colonial Context, in cui la studiosa indiana pone la traduzione all’interno di quella serie di

discorsi, quali la filosofia, la storia, l’antropologia, la filologia, la linguistica e la critica letteraria, che operano nel contesto post-coloniale per mettere in chiaro le relazioni tra “popoli, razze, linguaggi”.

Rispetto alla traduzione, la studiosa indiana vede la stretta connessione con le strutture di potere: “La pratica della traduzione dà forma alle relazioni asimmetriche di potere che operano nel colonialismo e all’interno di esse prende forma a sua volta” [Trad. nostra] (Niranjana, 1992:2).

Secondo Niranjana tutto ruota intorno alla rappresentazione del colonizzato, tracciata in modo tale da giustificare la dominazione coloniale. Sarebbe questo, dunque, il punto di partenza della costruzione – violenta – del soggetto coloniale da parte delle strategie di “contenimento” messe in atto dalla traduzione.

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Di maggiore attualità mi appare l’opinione espressa da Bassnett e Trivedi, nel sostenere che la definizione di traduzione della letteratura post-coloniale s’imbatte oggi in una certa “tautologia”, dal momento che la società contemporanea è caratterizzata da un forte processo di interscambio tra popoli, lingue, culture, nonché da una intensa circolazione di saperi, informazioni, risorse economiche e intellettuali, alla cui base si colloca, deliberatamente o meno, un’indispensabile attività traduttiva, la cui valenza simbolica corrisponde alla sua funzione empirica (Bassnett/Trivedi, 1999:13).

Per completare la panoramica delle teorie relative al tema ‘post-colonialismo e traduzione’ occorre menzionare, seppure concisamente, altre due realtà, geograficamente e culturalmente lontane, in cui la tematica in questione ha avuto uno specifico esito. Si tratta del fenomeno del “cannibalismo” in Brasile e del contesto irlandese.

Nel primo caso, si ha a che fare con un movimento post-coloniale basato sulla metafora dell’antropofagia o cannibalismo, emerso intorno agli anni ’20 in Brasile, grazie al contributo di Oswald de Andrade, autore del Manifesto Antropófago, stilato sulla base della famosa faccenda della cannibalizzazione rituale di un vescovo portoghese di origini brasiliane (Munday, 2001:136). A partire dagli anni ’60, poi, con l’opera poetica dei fratelli Campos, la metafora dell’Antropofagia si è evoluta, fino ad indicare “un vero e proprio sperimentalismo nazionale, una poetica della traduzione, un’operazione ideologica, ed un discorso critico che teorizza il rapporto tra il Brasile e le influenze esterne”.102

L’immagine su cui gioca la metafora dell’Antropofagia consiste nell’idea che i colonizzatori e la loro lingua sono stati divorati dagli abitanti nativi, i quali si sono rinvigoriti attraverso questa forma di “nutrimento”, per usare un’espressione di Haroldo de Campos, il quale definisce la traduzione come “trasfusione” (Bassnett/Trivedi, 1999:95). La linea di pensiero del gruppo culturale degli Antropofagi si sviluppa sulla base della convinzione che le influenze straniere, ovvero dei colonizzatori, non debbano essere rifiutate, bensì assorbite e trasformate con l’aggiunta degli elementi autoctoni (Bassnett/Trivedi, 1999:98). L’intento è quello di liberare la cultura brasiliana dal condizionamento mentale del colonialismo, dal senso di inferiorità rispetto all’egemonia rappresentata dall’Europa e trarre, piuttosto, da questo gioco di forze tra centro e periferia del mondo, gli stimoli favorevoli alla crescita e al progresso. In termini di traduzione, la ripercussione si avverte nella nuova concezione del “progetto traduttivo”, che viene considerato come “creazione e ri-creazione, in grado di assorbire il testo originale e rivitalizzarlo attraverso i testi di arrivo consolidati che utilizzano una forma diversa e rinvigorita della lingua dei colonizzatori che appartiene alla post-colonia” [Trad. nostra] (Munday, 2001:137). Paradossalmente, per raggiungere il loro obiettivo, i “cannibalisti brasiliani”, primo tra tutti Haraldo de Campos, si rifanno alle concezioni teoriche d’impronta occidentale e risentono molto

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delle opere sperimentali di Ezra Pound e Walter Benjamin, in particolare per quanto riguarda il concetto della forza trasformazionale della “pura” lingua.

È interessante notare come questo particolare approccio post-coloniale alla traduzione abbia una certa risonanza in Europa, e soprattutto in Irlanda, dove il dibattito traduttologico verte sul ruolo della traduzione nella battaglia linguistica e politica tra l’irlandese e l’inglese.

Ad affrontare l’argomento, tra gli altri, è Michael Cronin, autore del volume Translating

Ireland (1996), il quale si pone in disaccordo con Niranjana e gli altri teorici post-coloniali che

hanno costruito le loro teorie sulla mera opposizione tra l’Europa e il Nuovo Mondo, o tra l’Europa e le colonie, senza tenere conto, invece, del “colonialismo interno” che ha interessato l’Europa stessa.

Con il suo volume, Cronin si propone di presentare e analizzare lo sviluppo della traduzione in Irlanda dagli inizi al giorno d’oggi e, nello stesso tempo, di esaminare le relazioni