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In proposito, pare opportuno prendere atto del fatto che anche nel mondo bancario prima della crisi e pur nella consapevolezza della assoluta particolarità del

di gravi irregolarità gestional

6. In proposito, pare opportuno prendere atto del fatto che anche nel mondo bancario prima della crisi e pur nella consapevolezza della assoluta particolarità del

settore (contrassegnato dal regime di riserva di attività e dalla necessità di perseguire obiettivi di sana e prudente gestione, al fine di assicurare la stabilità del Sistema), si riteneva che non ci fosse la necessità di predisporre norme specifiche, “ulteriori” e diverse da quelle applicabili alle altre imprese, per garantire la qualità dei vertici.

Le dinamiche interne al mercato sembravano sufficienti e le norme di vigilanza avrebbero quindi potuto limitarsi a regole essenzialmente quantitative.

La crisi economica – soprattutto ad avviso degli osservatori del comparto bancario – ha messo viceversa a nudo la precarietà e la relatività di questo assunto.

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L’attività di vigilanza e di enforcement

Più in particolare, sono stati individuati alcuni convergenti elementi di intrinseca debolezza: i) l’opacità dei bilanci bancari; ii) i conflitti di interesse di coloro che avrebbero dovuto fornire le informazioni necessarie per consentire l’applicazione delle “regole del mercato” (società di revisione e società di rating, in testa); iii) plurimi aspetti di moral hazard alimentati dalle aspettative di implicite garanzie di salvataggio pubblico (la nota “regola” del too big to fail); iv) consigli di amministra- zione pletorici, spesso carenti sul piano della professionalità e della complementarietà delle competenze dei relativi componenti, pure per questo non in grado di predeterminare ex ante gli obiettivi di rischio e di aver constante contezza ex post della situazione economico-patrimoniale dell’intermediario gestito; v) scarsa informazione in capo agli amministratori non esecutivi ed indipendenti, nonché inadeguata loro proattività nell’assolvimento dei loro compiti di controllo; vi) incentivi a beneficio degli amministratori esecutivi e di altri key officers disallineati da prassi remunerative corrette, perché non collegate all’andamento di medio-lungo periodo della società amministrata e soprattutto alla liquidità esistente.

Sarebbero così derivate – per effetto di sistemi di gestione e controllo dei rischi frammentati ed incompleti, nonché di flussi informativi ritardati e/o insufficienti – marcate inefficienze sugli assetti organizzativi e di monitoraggio e ciò ha determinato a livello regolamentare, soprattutto sovranazionale, l’emersione di un

trend orientato all’adozione in campo bancario di disposizioni normative più

organiche e puntuali rispetto al passato (la recente direttiva comunitaria in materia di crisi delle Banche si rivela particolarmente significativa per la ridefinizione dei tradizionali rapporti tra sanzioni pubbliche e attività imprenditoriale privata).

Si tratta, infatti, di disposizioni essenzialmente volte: i) ad una maggiore specificazione dei compiti da assegnare all’organo gestorio, tramite l’identificazione di criteri di adeguata composizione, per avere board sempre più consapevoli e attivi, tramite chiare distinzioni di ruoli ed un esercizio trasparente dei poteri di delega; ii) ad un rafforzamento del sistema di gestione e controllo in primis dei rischi; iii) a concentrare l’attenzione sui sistemi di remunerazione; iv) nonché ad una puntualizzazione dei poteri, anche sanzionatori, delle Autorità di vigilanza.

A livello “domestico”, la Banca d’Italia ha assecondato questo processo, disponendo numerose verifiche sul campo, nel dichiarato rispetto del noto binomio “autonomia-responsabilità”, con la consapevolezza che “senza una coerente responsabilità l’autonomia può degenerare in arbitrio”.

Per lo stesso motivo, negli ultimi tempi, l’Autorità di vigilanza bancaria si è impegnata per agevolare una sempre più efficiente adozione di processi decisionali adeguati, mediante una più precisa allocazione delle rispettive responsabilità.

In quest’ottica, specifiche previsioni sono state dedicate agli amministratori non esecutivi ed indipendenti per sviluppare dialettiche costruttive all’interno del consiglio come plenum e contrastare soprattutto il dilagare di egemonie eccessive in capo ad una ristretta cerchia di soggetti.

Inoltre, il ruolo del Presidente del Consiglio di Amministrazione è stato orientato verso una progressiva “restrizione” delle prerogative con valenza esecutiva,

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L’attività di vigilanza e di enforcement

per spostarsi verso l’affidamento di incombenze super partes, allo scopo di trasformare la carica in un soggetto garante del corretto funzionamento dell’organo gestorio, per mezzo di un’effettiva dialettica endoconsigliare, di un reale bilanciamento dei poteri e dell’assunzione di decisioni informate anche da parte di amministratori non esecutivi.

Ancora, sono stati espressamente introdotti alcuni principi sulla istituzione di comitati interni al Consiglio di Amministrazione e sulle modalità di circolazione dei flussi informativi.

Infine, sul delicato tema dell’idoneità degli amministratori all’esercizio delle proprie funzioni, ci si sta sempre più allontanando da approcci caratterizzati da verifiche incentrate sulla meccanica verifica del possesso di qualifiche predeterminate, per concentrarsi su controlli da effettuare in concreto e da parametrare alle caratteristiche delle diverse imprese in osservazione, nonché al ruolo che ciascun amministratore concretamente ricopre.

Per passare dalla vigilanza regolamentare all’attività ispettiva, quest’ultima si sta sempre più spesso soffermando sulle aree del governo societario e dei controlli interni ed in queste occasioni – come è stato recentemente rilevato – viene talora nuovamente constatata sia la frequente presenza di figure che egemonizzano il processo decisionale, sia la sussistenza di indicatori di ridotta funzionalità dell’organo amministrativo, che spesso sembra operare aderendo acriticamente a proposte poco istruite o addirittura “azzardate”, presentate da parte dell’amministratore delegato o da parte del comitato esecutivo, o che comunque pare rifiutare l’adozione di interventi di natura strategica coerenti con la crescente complessità del contesto economico e finanziario.

Converrebbe, allora, che un simile approccio – che fatalmente ruota attorno alla predisposizione di regole particolarmente prescrittive anche in un settore, come quello del governo societario, nel quale ampio respiro solitamente viene attribuito al principio “liberale” della autonomia organizzativa (ed in stretta connessione a quello di “proporzionalità”) – venga esteso pure nei confronti delle società che emettono strumenti finanziari negoziati su mercati regolamentati, e dunque richiamano, senza intermediazione bancaria, capitali di rischio?

Questa pare davvero essere la domanda centrale.

In taluni casi, anche operando fuori dal settore bancario (e assicurativo), possono certamente verificarsi disfunzioni sul versante della integrità dei mercati finanziari e tali disfunzioni possono anch’esse determinare (proprio perché i predetti mercati sono sempre più integrati e interconnessi) ricadute sulla stabilità del Sistema e dunque della “società civile”, in generale, soprattutto se ampio è il coinvolgimento della clientela retail.

Tuttavia, tale notazione empirica, unitamente alla presa di coscienza del differente dato normativo che non impone alle società emittenti di operare necessariamente in un regime di riserva di attività, potrebbe, o non, essere ritenuto sufficiente per incidere su un versante che dovrebbe essere delegato alla iniziativa

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privata, ma che – l’esperienza lo ha insegnato – potrebbe essersi rivelata insufficiente, a maggior ragione quando l’organo decisionale non sia performante e costituisca lo scenario nel quale si realizzano indebite interferenze?

Prima di abbozzare (tanto meno in questa sede) qualsiasi risposta, va poi pure considerato che la possibilità di intervenire efficacemente in un’ottica di prevenzione - o come si usa dire con lessico comunitario sotto l’angolo visuale della “misura di intervento precoce”- e conseguentemente l’elaborazione di regimi di minor stabilità del rapporto amministrativo (che può venir “colpito” anche dall’esterno e senza l’intervento della Autorità Giudiziaria) e di previsione di responsabilità diverse da quelle attuali, accrescerebbe – come è stato notato – il “costo-opportunità di condotte illegittime”. Il che non sarebbe male.

Al contempo, non bisogna però dimenticare che la predisposizione di un regime troppo afflittivo, oltre ad accrescere i costi di funzionamento dell’intero apparato organizzativo interno, potrebbe avere una serie di effetti indesiderati, non a caso, già posti in evidenza dagli interpreti.

Essi possono venire così sintetizzati: i) una eccessiva avversione al rischio da parte delle imprese; ii) la richiesta di compensi troppo elevati o di “coperture” comunque remunerative che potrebbero schermare (quantomeno in parte) le condotte assunte da eventuali azioni di responsabilità o che potrebbero depotenziare gli effetti deterrenti discendenti dall’irrogazione di sanzioni di diverso tipo; iii) la aprioristica restrizione del numero degli amministratori ipoteticamente disposti ad assumere il relativo incarico, con correlati rischi di fenomeni spiacevoli di “selezione avversa”, a vantaggio di managers meno bravi e più spregiudicati.

Certamente sarebbe auspicabile riuscire a garantire un regime equilibrato, caratterizzato dalla possibilità di colpire soltanto chi abbia realmente deviato in modo macroscopico e pregiudizievole dalle regole di buona amministrazione, senza dunque poter prescindere dalla individuazione di un’azione o di una omissione cosciente e volontaria. Bandendo così a priori, ogni anche soltanto larvata forma di “responsabilità oggettiva”.

Ad ogni modo, l’introduzione di previsioni ulteriori dovrebbe pur sempre fondarsi sulla consapevolezza della peculiarità del comparto operativo o delle modalità di attrazione dei mezzi finanziari nel quale ci si muove e della coscienza di una molteplicità di interessi in gioco, superiori rispetto al panorama tradizionale (e non c’è dubbio che una cosa è discutere dei “servizi bancari chiave”; un’altra cosa è prendere in esame altre e più “esotiche” forme di sollecitazione all’investimento).

Infatti, soltanto al ricorrere di questi presupposti, si potrebbe raccomandare l’obiettivo di perseguire l’efficienza e di preservare la fiducia degli investitori (indipendentemente da quale sia il loro titolo) in ogni circostanza, senza farsi influenzare da modelli quantitativi sofisticati (ma deboli).

Peraltro, è evidente che potrebbe risultare per certi aspetti contropro- ducente incidere sulla propensione al rischio degli imprenditori, per il solo fatto che si trovano ad agire a stretto contatto con il mercato del capitale di rischio. Diverso,

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insomma, potrebbe essere il grado di tutela da assicurare, se sono stati assunti comportamenti consapevoli di non avversione alla volatilità degli investimenti.

Eccessivi presidi di stabilità, potrebbero, infatti, rappresentare un freno all’accesso ai mercati regolamentati, soprattutto se in altri settori del Sistema si spinge apertamente verso un ridimensionamento del “bancocentrismo” che ha caratterizzato per anni il nostro Ordinamento (si veda ancora la recente Relazione Annuale del Presidente della Commissione alle pp. 20 e ss.).

Occorrerà dunque riflettere ulteriormente e più a fondo.

In tutti i casi, come pare ci si stia muovendo a livello comunitario, non potrà che propendersi per una analitica pre-individuazione dei presupposti che potrebbero consentire alle Pubbliche Autorità (pur sempre per il tramite di loro condotte proattive delle quali finirebbero per diventare responsabili) di destituire in corsa quegli esponenti aziendali che si ponessero in linea di smaccata discontinuità con una corretta definizione degli assetti organizzativi-decisionali prescelti. Un aspetto, quello volto alla scelta e messa a punto delle regole che precisano il perimetro entro il quale gli amministratori possono compiere le loro scelte, che – come è noto – parrebbe sfuggire alla protezione della business judgement rule, con la conseguenza che l’inadempimento al dovere di garantire alla società un assetto organizzativo adeguato, risulterebbe sottoposto – ogni qualvolta si discuta di responsabilità – ad un parametro di valutazione più rigido rispetto a quello impiegato dal Giudice in riferimento al generico dovere di gestire la società con la “diligenza richiesta della specifica natura dell’incarico”.

In questo caso, insomma, il tradizionale braccio di ferro tra “rules vs

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Conclusioni

Vittorio Santoro

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Il compito del relatore di sintesi è sempre arduo, soprattutto quando sia difficile ricostruire un filo conduttore in ragione della varietà degli argomenti trattati. Pertanto vorrete considerare ciò che sto per dirvi, piuttosto, quali osservazioni sparse suggeritemi da ciò che ho via via ascoltato e, in parte, anticipatamente letto per la cortesia dei relatori.

Questa prima parte della mattina si è aperta con alcune importanti indicazioni sviluppate dal dottor Caputi. Quello che egli ci ha detto deve indurci a riflettere su alcuni quesiti di fondo, provo a indicare quelli che a me paiono i più importanti: 1) vigilare sul mercato finanziario vuol dire necessariamente intervenire dopo che i disastri si sono già verificati? 2) Possiamo almeno recuperare una rapidità di intervento e se sì quali sono gli strumenti più adatti? 3) Non si rischia che un intervento pervasivo ostacoli maggiormente il reperimento di capitali, che è motore necessario per una rapida ripresa, per fare ripartire l’economia?

Si tratta evidentemente di snodi problematici non ancora risolti, in ordine ai quali i legislatori dei vari paesi europei e, prima ancora, quello comunitario faticano a trovare un equilibrio pienamente soddisfacente.

Eppure, le crisi economiche costringono a trovare soluzioni. Paradigmatico è quanto avvenne dopo la Grande Crisi del secolo scorso: nonostante la tendenza dei vari paesi a chiudersi in un orizzonte nazionale, le soluzioni legislative e regolamentari furono abbastanza allineate, pure nella varietà che rispecchiava le peculiarità politiche, economiche e sociali di ciascun paese. Gli anni successivi a quella crisi furono quelli dell’istituzione e dell’implementazione di autorità di vigilanza sui mercati creditizi e finanziari.

Oggi siamo alla ricerca di nuovi modelli di vigilanza. Non ci si accontenta di intervenire sulla governance delle imprese vigilate, se ne verifica la correttezza del comportamento e, persino, si valuta se e quali prodotti possano essere offerti all’investitore in relazione al suo profilo.

Sembra che la vigilanza sia sempre più friendly verso gli investitori. In verità la direzione, verso cui muovono gli ordinamenti, è almeno ondivaga: da un lato, vi è

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uno sforzo verso la standardizzazione dei prodotti più rischiosi, si pensi ai derivati OTC; dall’altro, è proprio il legislatore primario a scardinare gli stessi caratteri tradizionali degli strumenti finanziari: si pensi al proliferare dei prodotti ibridi, con caratteristiche insieme di titoli azionari e obbligazionari; si pensi alla possibilità che in caso di crisi di una banca le obbligazioni emesse siano trasformate in capitale di rischio.

Il prof. Costi ha aggiunto, nel medesimo senso indicato da Caputi, che il dilemma non risolto, persino insanabile, è quello tra norme tese a promuovere la regolazione del mercato e quelle tese a favorire l’autonomia degli attori (le imprese) che operano sul mercato. Siamo presi tra Scilla e Cariddi in quanto (ha osservato Costi), da un lato, il mercato da solo non funziona, ha fornito ampia prova di non essere in grado di autoregolamentarsi; d’altro lato, l’amministrazione pubblica, più in generale, i soggetti deputati alla vigilanza non sono efficienti.

Stiamo, per altro, assistendo a una stagione nuova che, al fine di rimediare ai guasti derivanti da una reazione lenta e parcellizzata affidata ad autorità nazionali, vede finalmente un sostanzioso spostamento di competenze dal piano nazionale a quello europeo. Il dilemma indicato da Costi, tuttavia, non è risolto ma spostato sul piano dell’ordinamento europeo.

A ben considerare a esso se ne aggiunge un altro e, forse, più profondo, vale a dire quale deve essere la ratio della vigilanza? Penso che tutti, o almeno i più risponderebbero: la tutela del risparmio investito. Una risposta condivisibile ma non sufficiente senza ulteriori chiarimenti.

Una cosa è dire che gli investitori sono indirettamente tutelati perché ci occupiamo di ottimizzare il funzionamento del mercato garantendo trasparenza (e/o stabilità). In questa chiave, infatti, la tutela del risparmio è un effetto secondario, un beneficio di secondo grado, restando, invece, in primo piano una vigilanza che si occupa e si preoccupa delle imprese, degli intermediari.

Altra cosa è, invece, dire che unico o principale obiettivo delle autorità di vigilanza è la tutela dell’investitore anche a costo di compromettere la stabilità degli intermediari. Negli Stati Uniti il Dodd-Frank Act si è preoccupato di ciò creando una nuova autorità con lo specifico compito di tutela dei risparmiatori; in Europa e in Italia siamo ancora lontani, non dico dal risolvere il problema, ma persino dall’identificarlo quale problema.

Cerco di spiegarmi meglio: se le Autorità di settore, come dimostra il c.d. fenomeno della cattura dei regolatori, sono enti esponenziali degli interessi complessivi degli intermediari controllati, allora la medesima Autorità non può essere l’efficace tutore degli intermediari e, allo stesso tempo, dei consumatori.

Al fine di assicurare ai consumatori una protezione adeguata, il legislatore statunitense ha stabilito che la nuova Autorità, appositamente creata, ha il potere di qualificare un atto o una pratica commerciale quale abusiva, ogniqualvolta ritenga che essa interferisca con la capacità del consumatore di capire i termini o le clausole

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di un prodotto o di un servizio finanziario; si tratta di non riconoscere, nel linguaggio comune oggi prevalente, il bollino blu.

La soluzione degli Stati Uniti meriterebbe di essere perfezionata nell’ordinamento di partenza e di essere estesa ad altri ordinamenti, perché se è esatto che i consumatori sono i veri “giudici del mercato”, in Europa manca un pezzo della vigilanza quello specificamente ed esclusivamente deputato alla protezione dei loro interessi.

Io credo che le valutazioni e le indagini di un’Autorità, così concepita, ancorché non possano essere destinate a una tutela giudiziaria diretta a favore dei consumatori/investitori, dovrebbero poter essere utilizzate nelle azioni collettive dei privati contro gli intermediari che abbiano venduto prodotti finanziari pericolosi o semplicemente non dotati del bollino blu. In tale senso gli avvisi dell’Authority costituirebbero un incentivo indiretto alle azioni individuali e collettive dei risparmiatori. A tal fine sarebbe, tuttavia, necessario disporre che la documentazione di cui si sia valsa l’Autorità, durante le proprie indagini, siano messe a disposizione dei consumatori, laddove oggi perlopiù accade che le Autorità preposte alla trasparenza dei mercati oppongano ai risparmiatori/investitori, che ne facciano richiesta, il segreto d’ufficio.

D’altra parte, benché nella maggior parte degli ordinamenti il giudice, in quanto peritus peritorum, non potrebbe prestare pedissequo ossequio alle opinioni delle Autorità indipendenti, è evidente che il compito del giudice sarebbe facilitato dalla valutazione precedentemente espressa da una tale Autorità di elevato e specifico profilo professionale; in altri termini al giudice non resterebbe che la verifica della validità del ragionamento svolto dall’Autorità. Certo maggiore ausilio deriverebbe da una norma esplicita che imponesse al giudice di tenere in debito conto le considerazioni espresse dall’Autorità preposta alla protezione dei consumatori.

Di più credo che, se anche l’Unione europea non ritenesse di doversi muovere in tale direzione, sarebbe strategico per l’Italia adottare un approccio notevolmente più favorevole agli investitori. Infatti, in un momento in cui, nel nostro Paese, tutti i comparti economici cedono di fronte al perdurare della crisi economica, l’industria del “risparmio”, più precisamente la capacità di risparmiare dei cittadini italiani, ancora resiste. Questo vantaggio competitivo del nostro Paese deve essere salvaguardato con le modalità sopra schematicamente delineate.

Anche le disposizioni applicative delle convenzioni internazionali in tema di giurisdizione favorirebbero un tale approccio più attivo del legislatore italiano. Infatti, è noto che, riguardo ai contratti conclusi da risparmiatori/consumatori, si applica la legge del paese nel quale il consumatore ha la residenza, a condizione che questo sia anche il paese in cui il professionista svolge le sue attività o verso il quale dirige tali attività.

A proposito della tutela del risparmiatore ci sono venute in soccorso anche le considerazioni del prof. Police, il quale ci ha resi avvertiti dei mutamenti in corso

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nella concezione della vigilanza, non più insieme di disposizioni di divieto, presidio di polizia per la preservazione dell’ordine del mercato, ma piuttosto insieme di disposizioni di cura della parte debole. Prendendo a prestito la terminologia adoperata da Vella in un saggio recente: non si tratta di procedere per spintoni, ma con una “spinta gentile” verso le pratiche migliori. In un mercato finanziario la vigilanza non può e non deve garantire all’investitore l’esclusione del rischio, ma almeno deve assicurare che non si venda spazzatura.

In verità occorre tenere conto che gli obiettivi di vigilanza sono plurimi e che si tratta di ponderare gli interessi e di affidarne il presidio ad autorità diverse,

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