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La riserva di attività I concetti di “professionalità” ed esercizio nei confronti del pubblico

dei servizi di investimento

2 La riserva di attività I concetti di “professionalità” ed esercizio nei confronti del pubblico

L’art. 18, comma 1, TUF, conformemente alla disciplina previgente, prevede una riserva di attività.

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Atti dei seminari celebrativi per i 40 anni dall’istituzione della Consob

L’attività di vigilanza e di enforcement

La riserva copre solo, come noto, l’esercizio “professionale” e “nei confronti del pubblico” dei servizi di investimento.

Il termine professionale evoca immediatamente l’art. 2082 c.c. e i risultati raggiunti dalla giurisprudenza, teorica e pratica, in tema di professionalità dell’imprenditore.

È professionale, si dice, l’esercizio di un’attività caratterizzato da abitualità, stabilità, continuità sistematica; non è invece professionale l’esercizio occasionale, episodico (Galgano). Su questa lettura tradizionale si può certamente convenire, purché si sia avvertiti che professionalità e abitualità non sono espressioni perfettamente sinonimiche e che può essere “professionale” anche un’attività non esclusiva, o un’attività ciclica, o ancora un’attività che porti a un unico, ancorché complesso, risultato produttivo (Oppo; Spada). Non è intenzione del legislatore – lo si può dire senza incertezze – riservare a imprese di investimento e banche l’esercizio di singoli atti di intermediazione mobiliare.

Certo, una simile lettura svilisce, in qualche modo, il richiamo dell’art. 18 alla professionalità, che diviene attributo necessario di ogni attività di impresa, inidoneo quindi a dare autonoma caratterizzazione a una modalità di esercizio. Si potrebbe pensare cioè che, così ricostruito, il concetto si riveli inutile e ridondante, in quanto già ricompreso nell’art. 2082 c.c. Si tratterebbe, però, di una conclusione tutt’altro che sconvolgente, se è vero che, già con riguardo alla richiamata norma codicistica, è stato scritto che la professionalità può ben apparire quale “duplicato” del concetto stesso di attività, intesa come complesso di atti teleologicamente coordinati, “e per ciò stesso dotati di una certa continuità” (Ferro-Luzzi). D’altro canto il codice di commercio del 1882 (art. 8) addirittura accompagnava il termine “professione” con l’aggettivo “abituale”, e ancor oggi la legislazione tributaria impiega comunemente questa doppia locuzione.

Non deve dunque sorprendere che il legislatore del TUF abbia inteso ribadire,

ad abundantiam, che riservata è la prestazione di servizi di investimento, non il

compimento di singoli atti, non coordinati per una finalità unitaria.

Né sembra vi siano spazi per ricostruire, accanto alla professionalità che potremmo dire “generica”, disegnata dall’art. 2082 c.c., e intrinsecamente contenuta nel concetto stesso di attività di impresa, una professionalità “di settore”, cioè specifica dell’impresa di investimento. Di essa infatti non si potrebbero in alcun modo, se non con arbitrio, dettare i caratteri, in assenza di indicazioni legislative.

Altri ritiene che nel concetto di “professionalità” si possa rinvenire non solo il carattere della abitualità, della continuità sistematica, ma anche l’ulteriore requisito della destinazione dell’attività al mercato (già Bigiavi), sì che sarebbe a dirsi professionale solo l’attività di impresa finalizzata allo scambio, non invece quella esercitata per proprio conto.

La tesi non è nuova per la teoria dell’impresa e gode di numerosi consensi, al punto che è stato proposto di leggere la formula legislativa come se dicesse “al fine della produzione per lo scambio” (Asquini). Tuttavia questa costruzione, che postula la

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necessaria destinazione al mercato del prodotto dell’attività imprenditoriale, è stata sottoposta a pervasive critiche, non solo da parte di chi ritiene ravvisabile attività di impresa là dove vi sia una almeno potenziale remunerazione dei fattori della produzione, nel che sarebbe dato scorgere comunque l’economicità dell’attività (Oppo); ma in fondo anche da parte di chi, pur ipotizzando la necessità di un momento di scambio dei beni prodotti, dimostra però di considerare irrilevante la dimensione del mercato, ammettendo così implicitamente anche il carattere imprenditoriale di un’attività di produzione per consumatori individuati, al limite anche per uno solo (Galgano).

Senza addentrarsi in temi così controversi di teoria generale dell’impresa, si può peraltro osservare che probabilmente all’affermazione della necessaria destinazione al mercato dell’attività di intermediazione riservata può giungersi più agevolmente argomentando, non già in punto di “professionalità”, bensì in punto di esercizio dell’attività “nei confronti del pubblico”; concetto questo che diviene autenticamente centrale per la ricostruzione della fattispecie.

Infatti l’esigenza che l’attività sia rivolta al pubblico di per sé esclude dal campo riservato ogni attività che un soggetto non svolga per il mercato, ma per se stesso o, il che appare a questi fini del tutto analogo, per il proprio “gruppo” di appartenenza.

Le attività “infragruppo” non possono dirsi, infatti, destinate al pubblico e non ricadono dunque sotto la nota riserva. E’ allora sul concetto di “pubblico” che bisogna soffermarsi.

Va anzitutto chiaramente differenziata questa nozione dal concetto di “pubblico” fatto proprio dalla disciplina dell’appello al pubblico risparmio (artt. 93-bis ss TUF). Nell’appello al pubblico risparmio, infatti, “pubblico” individua una massa di persone indeterminata e indeterminabile al momento dell’offerta, o comunque inferiore al numero individuato per via regolamentare dalla Consob come “rilevante”. Diviene dunque decisiva per la costruzione della figura l’impossibilità di determinare

a priori gli oblati.

Non solo. Non si applicano le norme sull’offerta al pubblico – e anche questo è noto - là dove l’offerta, pur non avendo destinatari esattamente individuabili, sia tuttavia rivolta esclusivamente a investitori “qualificati” (art. 100 TUF).

La soluzione è logica, in quanto la disciplina della sollecitazione è una disciplina dell’informazione, se si vuole “di trasparenza”, e di informazione non c’è bisogno, o comunque l’esigenza è senz’altro minore o, se si vuole, differente, ove destinatari dell’offerta siano soggetti già informati, in ragione della loro qualifica professionale.

In sostanza pubblico nella disciplina dell’appello al pubblico individua una massa di soggetti a) non individuabili al momento dell’offerta (o al di sotto della ricordata soglia di rilevanza), b) composta da risparmiatori bisognosi di protezione.

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Diversa, almeno in parte, è la finalità della riserva che ci occupa. Qui infatti sono anche perseguiti obiettivi di “trasparenza”, ma accanto a essi, e prima di essi, la legge si prefigge di dettare regole di comportamento e di stabilità per gli intermediari. E’ dunque la ratio stessa della disciplina a rendere impossibile un trattamento differenziato del pubblico “qualificato” e di quello “non qualificato”.

Meno agevole, piuttosto, è verificare se “pubblico” sia necessariamente una massa indeterminata, o se si debba invece ritenere comunque riservata un’attività di intermediazione svolta a favore di terzi, anche là dove si tratti di una cerchia individuata di destinatari, o addirittura di uno solo.

Taluni dei primi commentatori (Quatraro) avevano escluso potersi parlare di attività rivolta al pubblico là dove i servizi di investimento fossero offerti ad una cerchia ristretta di soggetti, secondo un meccanismo di “collocamento privato”. Ma questa lettura non convince: la locuzione “nei confronti del pubblico” è infatti qui usata nell’accezione più vasta.

Vero è che non solo nella disciplina dell’appello al pubblico risparmio si rinviene un’utilizzazione del termine “pubblico” nel senso di massa indiscreta. Infatti il requisito della indeterminazione dei destinatari si ritrovava, secondo le tesi tutt’ora dominanti, già nella legge bancaria, e oggi nel TUB, ove si parla di raccolta del risparmio “tra il pubblico” (art. 10, comma 1). Tuttavia nel sistema del TUF la previsione della riserva di attività è concepita in modo tale da non poter essere limitata. Infatti la ricordata finalità di imporre regole di comportamento agli intermediari sarebbe frustrata ove ci si limitasse a imporle nel caso di offerte al risparmio diffuso.

In altri termini. L’art. 18 TUF pone una disciplina a carattere soggettivo: si regola l’attività delle imprese di investimento; a esse si impone di comportarsi in un certo modo, di stipulare i contratti con certe forme, e così via. Siffatte regole di comportamento devono essere sempre obbligatorie, ogni qual volta un soggetto eserciti sul mercato – ovvero nei confronti di altri (Motti) – le attività contemplate dall’art. 18, comma 1. Altrimenti sono la stessa stabilità del mercato e la “significatività” dei prezzi che su di esso si formano a essere poste in pericolo. Non può ammettersi che sia liberamente esercitabile un’attività di intermediazione a favore, ad esempio, di tutte le banche operanti in una certa regione.

In questo senso, chiaramente, si è espressa la Consob sin dall’entrata in vigore della legge n. 1 del 1991, con la comunicazione n. 91007155 dell’11 dicembre 1991, ove è detto che “non è sufficiente ritenere sussistente il concetto di pubblico solo quando una attività finanziaria è prestata a favore di una pluralità indifferenziata di soggetti fungibili. (…) La nozione di pubblico invece è configurabile anche quando una attività finanziaria è indirizzata ad una pluralità di persone, che sono individuabili per effetto della loro mera appartenenza ad una determinata categoria di soggetti”.

Si può certamente concludere che l’attività riservata dall’art. 18 TUF è quella che si caratterizza per la compresenza dei seguenti elementi: a) deve rientrare in una delle fattispecie descritte dall’art. 1, comma 5, TUF; b) deve essere esercitata

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“professionalmente”, ancorché non in via esclusiva, né senza interruzioni; c) non deve essere circoscritta al gruppo, ma essere destinata al mercato.

Invero, un decreto ministeriale, pur esso antecedente al TUF, aggiunge che non rientrano nella riserva di attività i “servizi prestati in via occasionale ed accessoria, senza predisposizione di idonei schemi organizzativi per il loro svolgimento” (art. 2, comma 1, lett. b), D.M. 329/97). In più, l’art. 1, comma 1, lett. b), del medesimo decreto prevede l’inapplicabilità della disciplina dei servizi di investimento ai soggetti che “prestano occasionalmente ed a titolo accessorio un servizio di investimento nell’ambito di un’attività professionale disciplinata da disposizioni legislative o regolamentari che ammettono la prestazione del servizio”.

Il decreto non aggiunge molto a quanto si è sin qui detto, se non per un ulteriore elemento che aggiunge alla fattispecie, consistente nella predisposizione di “idonei schemi organizzativi” per lo svolgimento dell’attività, così richiamando la nozione di “organizzazione”, che pur si ritrova nella definizione generale di imprenditore, ma che, in quella sede, viene enunciata distintamente rispetto a quella di professionalità.

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