PAESAGGIO AGRARIO ED ECONOMIA DEL MONTE
TAVOLA 5. Nella cartina sono indicate le zone del distretto gemonese coltivate con maggior intensità
2. I radicamenti fondiari
La tipologia dei radicamenti fondiari che caratterizzava il paesaggio agrario gemonese era per lo più composta da terreni recintati: la gran parte della superficie coltivata era parcellizzata in braide, baiarzi e broili. Le braide erano le unità culturali più diffuse. Di norma erano formate da alcuni campi (da due a quattro) all’interno dei quali veniva applicato un regime di coltura promiscua.17 Il
12 Dopo aver superato il torrente Orvenco, partendo da Gemona, il paesaggio sulla mezzacosta montuosa era caratterizzato da una continuità dei radicamenti fondiari che si estendevano fino al villaggio di Artegna. In particolare nella zona di Aplia e nei pressi del torrente, sono attestati numerosi terreni coltivati. ACG, S. Michele, b. 1421, «…terram arboribus et vitibus plantatam scitam in Orvencho…», «…baiarcio scito in Aplia…»
13 APG, Legati a favore della pieve, 190 bis. b. 1431, 1339 «…braida in Stalis…». APG, Sezione X, Istrumenti e legati, perg. n. 62, anno 1364, «…braida con casa…».
14 Il 19 agosto del 1360 tal Jacobo Iusti di Gemona acquistò 2 braide situate oltre la roggia. ASU, ANA, b. 2234/5, 19 agosto 1360.
15 E’ noto che in tutte le comunità regionali la parte dei terreni comunali coltivata con continuità era detta tavella.. PICCINI, Lessico, p. 465.
16 ACG, Massari, b. 412, f. 18r, 8 giugno 1383.
17 Il termine braida indica delle unità culturali caratterizzate dalla chiusura: il vocabolo è di tradizione Longobarda. Di norma si trovavano in prossimità delle case, ma nelle aree fortemente urbanizzate potevano essere situate anche in zone periferiche della tavella. Le braide erano di solito di modeste dimensioni ma in alcune occasioni vi sono riscontri che segnalano l’esistenza di strutture imponenti (per i fondi di un campo, un campo e mezzo interviene il diminutivo
baiarzo era una struttura simile, di solito di dimensioni più contenute, dedicato nella maggior parte dei casi a una produzione vinicola di immediato autoconsumo.18 Il broili era invece un radicamento fondiario numericamente più raro nella tavella del distretto gemonese e costituiva, a differenza delle prime due strutture, un’unità culturale più articolata e complessa. Nonostante avesse caratteristiche simili alle braide (campi chiusi a cultura promiscua finalizzata in gran parte all’autosufficienza alimentare), il broili oltre ad avere delle dimensioni maggiori si configurava come un’azienda agraria dotata di una vera e propria identità. L’ospedale gemonese di San Michele possedava, ad esempio, un broili che gestiva direttamente e che era situato a meridione della città, poco fuori le mura.19 All’interno del podere era stato costruito un edificio, la casa del broili, che doveva avere l’aspetto e la funzione di una piccola casa colonica. Al pianterreno della costruzione una parte della struttura era adibita a stalla e al primo piano alcuni locali servivano da fienile. Il tetto era in paglia e accanto alla casa le fonti attestano la presenza di un modesto rustico e di un porcile.20
Di norma la dimensione di braide e baiarzi era nel distretto modesta, ma non abbiamo dati a disposizione per indicare la grandezza dei radicamenti fondiari. Tra questi appezzamenti recintati scorreva di solito un reticolo di strade interpoderali.
Accanto alle strutture agrarie sopra descritte, che caratterizzavano tutta la tavella gemonese, le fonti segnalano la presenza anche di prati, orti, parcelle agrarie a monocultura vinicola (vigne), singoli campi e generici terreni, ma la loro diffusione era numericamente contenuta e di solito concentrata, come vedremo, in specifiche zone del distretto.21 Scarsa era la presenza di ronchi, radicamenti fondiari in genere molto diffusi nella pedemontana. I ronchi erano terreni disboscati, di solito piantati a frutteto o a vigneto e situati sopra i pendii di un colle o di un rilievo. La quasi assenza di queste tipologie fondiarie indica che i declivi montuosi, di solito boscosi, erano scarsamente sfruttati.22
braiduza, mentre attorno ai sei campi la braida è “granda”). Nel territorio gemonese rari sono i riscontri di braide di dimensioni notevoli. Di norma, come vedremo, le strutture agrarie recintate e di grande ampiezza erano indicate nei documenti come broili. CAMMAROSANO, Il paesaggio, p. 131. ZACCHIGNA, Il rotulus, pp. 137-140. A Gemona il campo misurava mq. 3272,1125 e si divideva in 576 tavole di 49 piedi quadrati ciascuna. Era lungo 24 tavole e largo altrettanto. PERUSINI, Vita, p. 247.
18 Il baiarzo era un appezzamento recintato riservato principalmente alle coltivazioni orticole e vinicole. Proprio perché queste strutture erano protette, la produzione di derrate alimentari che veniva praticata era indirizzata verso le colture di maggior pregio e vendibilità. ZACCHIGNA, Il rotulus dei Savorgnano, p. 139. Nel territorio gemonese la sua diffusione non era tanto estesa come quella delle braide.
19 A sud della città, nei pressi della strada che dalla porta Udine conduceva ad Artegna, era situato anche il broylum di tal Pauli Mede. Nel settembre del 1405, Domenico Orlandini, riparò la strada pubblica dal radicamento fondiario fino alla porta della città. ACG, Massari, b. 425, f. 11v, spese di settembre 1405,
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LONDERO, Per l’amor, p. 86.
21 Le fonti in alcuni casi identificano le unità culturali con ulteriori termini. E’attestata la presenza di un campucio sito in Abelton, di alcuni generici pecia terre, di una meitat dun prat, di prati fossalati, di un sedimen e di una quarta terre aratorie.
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Alla metà del quattrocento è attestata la presenza di un roncho nei pressi della villa di Hospitale. Con molta probabilità una volta messo a coltura tutto il terreno disponibile attorno all’insediamento, vennero sfruttati anche i
Nell’area più prossima all’abitato il paesaggio agrario era caratterizzato da un elevato numero di orti e vigne, situate tra il fossato e le mura cittadine e le zone dove il territorio era parcellizzato soprattutto in braide e baiarzi. Intorno e all’interno degli abitati situati appena fuori le mura (Godo, Stalis, Piovega) e anche nei pressi delle porte cittadine, il paesaggio era frastagliato da una realtà di piccolissime unità agrarie con le quali si cercava di valorizzare il terreno agricolo disponibile. La vicinanza degli orti e delle vigne alla città era determinata dalla maggior quantità di lavoro che richiedevano queste unità culturali rispetto alle altre. Negli orti veniva infatti praticato un elevato numero di colture che avevano bisogno di concime, acqua quotidiana, oltre a particolari interventi che dovevano essere eseguiti con una certa frequenza (zappare, estirpare le erbacce). Per la corretta produttività di queste unità culturali era richiesta la presenza più che quotidiana di qualcuno. Di norma negli orti si potevano coltivare insalate, zucchine, rape, cipolle, agli e zucche, oltre agli altri comuni prodotti orticoli. In alcune piccole porzioni di terreno comprese all’interno degli orti era possibile piantare anche qualche legume.23 L’orto doveva garantire un rifornimento di verdure distribuito in tutto l’arco dell’anno. Di solito i prodotti che provenivano dagli orti avevano una scarsa commercializzazione ed erano consumati direttamente dalla famiglia del proprietario.
Un’altra coltura che occupava una discreta quantità di ore di lavoro era la vigna: accanto agli orti, nell’area adiacente alla cinta muraria, è infatti attestata la presenza di vari vigneti. La diffusione delle piante della vite interessava tutto il paesaggio gemonese, ma radicamenti fondiari dedicati in maniera esclusiva alla produzione di uva erano situati prevalentemente nei pressi dell’abitato. Le coltivazioni che richiedevano una maggior intensità di lavoro erano dunque quelle più vicine alla città. Man mano che ci si allontanava dal centro abitato gli orti e le vigne diventavano sempre più rari per essere sostituiti, come abbiamo visto, da braide, baiarzi e broili, dove le colture erano generalmente varie.
Nel distretto gemonese era contenuto il numero di terre arative aperte. All’interno della iurisdictio cittadina non è attestata la presenza di nessun manso. Come è noto queste aziende agrarie costituivano la base dell’assetto produttivo delle campagne friulane. I mansi erano composti da un aggregato di campi (di solito più di dieci) e altre unità colturali, erano retti da una famiglia di coltivatori ed erano situati in uno spazio agricolo dominato dai “campi aperti”. Di norma i mansi vengono segnalati negli insediamenti a meridione di Gemona, ma mai all’interno del distretto della
pendii. In un atto notarile stipulato per la vendita di una abitazione nei pressi dell’ospedale di Santo Spirito è segnalto un ronchum situm in pertinencis hospitali. ASU, ANA, b. 2242/32, 15 marzo 1449.
23 All’interno delle fonti sono scarsi i riferimenti ai prodotti orticoli che venivano coltivati. Tuttavia in alcuni casi emergono delle interessanti segnalazioni in merito alle tradizioni culinarie che utilizzavano i prodotti dell’orto. Ianzilus di Hospitale aveva infatti la consuetudine di conservare le rape, coltivate nel suo orto, mediante acidificazione. Questa tecnica di conservazione, che ha origini antichissime, utilizzava probabilmente le vinacce acide, con le quali si ricoprivano le rape. Mobilia, p. 82.
città.24 In regione le classi urbane più agiate e le istituzioni economicamente più solide di solito espandevano la loro proprietà acquistando mansi. Anche nell’abitato di Gemona, piuttosto deficitario sul versante dell’entroterra agricolo di pertinenza, l’investimento fondiario di un certo peso prendeva sempre la via dell’alta pianura, alla ricerca di un apporto significativo sotto il profilo della rendita. La stessa istituzione ospedaliera di Santo Spirito, la pieve di Santa Maria e il convento francescano di Sant’Antonio disponevano di una base fondiaria esterna all’ambito gemonese.25 È noto che nel Friuli patriarchino la proiezione territoriale delle grandi proprietà, che facevano capo alle terre di maggior peso demico, corrispondeva di norma a un disegno molto articolato e disperso. Nel territorio gemonese la dispersione del patrimonio di istituzioni e famiglie eminenti era amplificata della scarsa potenzialità agricola del distretto, legata alle già descritte condizione pedologiche del territorio. La gestione degli interessi fondiari lontani e frammentati poneva però diversi problemi: il controllo dei raccolti nel caso di partitanze, il trasporto della rendita e la sorveglianza del lavoro contadino. La proprietà poteva tuttavia adottare soluzioni in grado di ridurre sensibilmente il peso delle diseconomie imposte dalla distanza, soprattutto in ambiente gemonese, nel quale era maturata una tradizionale esperienza in fatto di trasporti su carro e una sicura conoscenza degli itinerari che attraversavano la Patria.26
Anche le classi sociali gemonesi di profilo più modesto attuavano un processo di espansione fondiaria necessariamente orientato verso contesti territoriali esterni, ma tendenzialmente più prossimi al distretto. Tra i villaggi dove sono attestate le maggiori proprietà di cittadini gemonesi risaltano gli abitati di Artegna, Buja e Montenârs.27 Il paesaggio agrario gemonese – vista l’assenza di mansi – si articolava quindi quasi esclusivamente in “chiusure”, soluzione che è attestata quando esiste la presenza di un nucleo insediativo a carattere decisamente urbano.
24 La struttura portante dell’agricoltura friulana nel medioevo fu il maso (manso, mas, maso, huba nei testi di lingua tedesca dell’ambito isontino e sloveno). In declino sino dal secolo XII in altre regioni italiane, questo tipo di azienda agraria persistette in Friuli e nell’Isontino fino all’età moderna. CAMMAROSANO, Il paesaggio, p. 128. Idem, Le campagne, pp. 31-50.
25 Le più importanti istituzioni cittadine e anche alcune ricche famiglie appartenenti al notabilato locale possedevano mansi in vari villaggi della collina e dell’alta pianura friulana. La pieve di Santa Maria possedeva mansi a Treppo, a Buja, a Magnano, a Vendoglio, ad Artegna, a Forgaria e anche in altre località. Quaderni gemonesi, I, pp. 225-231. Il convento francescano di Sant’Antonio possedeva mansi a Ara, Cisterna, Madrisio, Maiano, S. Maria di Sclaunicco, Silvella, Vendoglio, Vito d’Asio, Artegna, Lauzana, Magnano, Martignacco, San Daniele, Treppo e Zeglianutto. MINIATI, Il registro, pp. 18-19.
26 Gli investimenti fondiari delle istituzioni e delle famiglie eminenti superavano ad ogni modo solo di rado il limite dell’alta pianura.
27 Il 16 gennaio del 1425 il Consiglio di Udine aveva deliberato di inviare propri ambasciatori a Venezia per appellarsi contro una delibera del Parlamento friulano che prevedeva una riorganizzazione dell’esercizio del potere della nobiltà castellana sul territorio regionale. Era emersa nella seduta parlamentare la conflittualità di interessi relativa ai beni dei cittadini situati nelle giurisdizioni castellane. I nobili avrebbero potuto infatti imporre con estrema facilità obblighi e gravami anche se non erano i proprietari dei terreni. Le città di Udine, Aquileia e Cividale avevano protestato contro questo provvedimento che limitava l’autorità dei cittadini proprietari di terre situate nelle giurisdizioni nobiliari. Il consiglio di Gemona, interpellato dalle autorità Udinesi, respinse però la proposta di inviare un proprio messaggero a Venezia per sostenere l’appello contro i castellani. Evidentemente le proprietà agrarie dei cittadini gemonesi comprese all’interno dei distretti castellani erano scarse. DEGRASSI, Il Friuli, p. 152.
Le tipologie di radicamenti fondiari diffusi nel distretto non necessitavano dunque dell’intenso utilizzo dell’aratro durante i normali lavori agricoli. Negli inventaria bonorum redatti in città, sono infatti rarissimi i riferimenti a questo attrezzo agricolo (solcedorum, ferra ad arandum) a fronte invece di un’ampia diffusione di zappe, le quali sono descritte dalle fonti come di vari tipi e forme (ligo, sappa, saponus e sarculus).28
La maggior parte dei prodotti che venivano coltivati nella tavella gemonese era, molto probabilmente, destinato all’autoconsumo. A Gemona ogni famiglia non indigente disponeva quasi sicuramente di una braida, di un baiarzo o di un orto. Di norma solo le modeste eccedenze venivano immesse sul mercato locale. L’elemento di “chiusura” delle proprietà, che caratterizzava la tavella gemonese, rispondeva a varie necessità: difendeva dai furti, impediva l’ingresso di animali selvatici e di quelli vaganti – era molto praticato il pascolo brado –, ma serviva anche a segnare con precisione i confini nelle aree intensamente coltivate.29 Le recinzioni erano costituite il più delle volte da muretti a secco o da un aroveit, cioè da una siepe spinosa. Il prestare cura alle recinzioni era un dovere civico contemplato anche dagli statuti comunali.30 La proprietà fondiaria era, in linea generale, rigorosamente tutelata dalle autorità pubbliche. Due boni viri erano eletti ogni anno, secondo un antico costume, per decidere sulle controversie in merito alle proprietà. Contro la sentenza emanata da questi due uomini, espressa dopo un sopralluogo nell’area che era oggetto della lite, era consentito appellarsi al Consiglio Maggiore o a quello Minore solo se il valore del bene oggetto di controversia era di almeno una marca di denari.31
Ogni anno venivano inoltre eletti segretamente dal massaro e dai provveditori otto saltarii, cioè delle guardie campestri, che avevano il compito di denunciare al capitano oppure al massaro le persone che invadevano o danneggiavano le proprietà altrui (in particolare quelle recintate).32 Alla loro parola si dava piena fiducia. La violazione della proprietà da parte di una persona comportava un’ammenda di 20 denari oltre al risarcimento dei danni causati. Le stesse modalità avvenivano se la violazione era compiuta da animali: 8 denari per un capo grosso, 4 per un capo minuto.33
Nel lungo periodo la recinzione dei terreni finiva con il costituire un obbligo, infatti i radicamenti fondiari non recintati non godevano delle stesse norme di tutela previste per le terre chiuse. Particolarmente gravose risultavano le sanzioni comminate se gli animali invadevano la proprietà sotto la guida di un pastore o di un mandriano: in questo caso si incorreva nel cumulo
28 Mobilia, p. 99.
29 La chiusura sottraeva anche il terreno al sistema delle rotazioni delle culture praticate comunitariamente sui campi aperti, consentendo ai proprietari di seguire le proprie intenzionalità.
30 Ogni anno le autorità comunali eleggevano due probiviri per ogni quartiere con il compito, tra le altre cose, di controllare lo stato delle siepi che delimitavano i radicamenti fondiari. ACG, Statuti, b. 1, cap. 74.
31 ACG, Statuti, b. 1, cap. 69.
32
ACG, Statuti, b. 1, cap. 98.
delle ammende previste per le persone e per gli animali. La pena era raddoppiata se l’azione avveniva di notte. Il divieto, il controllo e le ammende valevano anche per il taglio di pertiche in un saliceto e per chi rubava i grappoli d’uva dall’esterno delle recinzioni utilizzando un particolare strumento detto phurya, che con molta probabilità era una lunga canna terminante con una lama e un cestello.34
Nonostante le norme redatte a tutela delle proprietà e malgrado la presenza di figure istituzionali delegate a controllare specificatamente il territorio, i furti e i danneggiamenti all’interno dei radicamenti fondiari erano frequenti. In alcune occasioni, probabilmente per dare un segnale forte, interveniva personalmente il capitano. Nel 1349, il capitano Ugonoto con altri uomini, steterunt una nocte in braydis ad custodiam pro aliquibus malhominibus che avevano rubato. Probabilmente l’intenzione era di sorprendere i ladri che da tempo defraudavano vari prodotti della terra. 35
L’assoluta predominanza di braide accuratamente recintate segnala inoltre come, al di là dell’aspetto legato alla difesa dai furti, le esigenze agricole e i bisogni del pascolo si presentavano in modo tendenzialmente polarizzato. Come si vedrà in seguito, tutt’attorno alla tavella gemonese, il paesaggio era caratterizzato da zone incolte soggette a uso comunitario e adibite, dove era consentito, quasi esclusivamente a pascolo. La fascia agraria che occupava la mezzacosta montuosa tagliava infatti il distretto in due aree, le quali erano entrambe utilizzate come zone pascolative, anche se in tempi e in modi diversi una dall’altra. Anche se lo spostamento degli animali avveniva, come si è detto, sulle vie armentaresse, era necessario attraversare la fascia adibita a coltura anche solo per ricoverare le bestie per la notte. In alcune occasioni, durante il trasferimento degli animali, accadeva che alcuni di questi penetrassero oltre le recinzioni. Gli statuti cittadini, come abbiamo visto, prevedevano un’ammenda per il conduttore oltre che un risarcimento del danno al proprietario del terreno. Nei registri dei massari sono infatti annotate numerose riscossioni di multe pagate alle autorità comunali dai proprietari di animali che erano penetrati all’interno di braide, orti o baiarzi. La discreta frequenza delle registrazioni segnala la reale portata del problema.36
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Furia o phurya: canna spaccata in cima per rubare frutta o uva. PICCINI, Lessico, p. 247. ACG, Statuti, b. 1, cap. 101.
35 ACG, Massari, b. 401, f. 43v, 14 settembre 1349. In alcuni casi i ladri venivano scoperti e oltre al risarcimento del danno al proprietario del terreno, veniva comminata la multa prevista dagli statuti. Alcuni di questi furti erano però molto probabilmente mossi da uno stato di indigenza e da una fame diffusa. Recepi a Johanne piscatore quia filia intravit in orto Venuti Egidj pro parte Comunis denari 20. ACG, Massari, b. 404, f. 57v, sezione Receptum condepnatorum. Non tutti i massari suddividevano i registri della contabilità cittadina in specifici capitoli, uno dei quali era riservato alle multe comminate dalle autorità comunali.
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Item recepi a Johanne Gambirut quia equus intravit braydam Nicolai Missij et ipse pro parte Comunis, denarios XX.. Item recepi a Nicolo Ghilinin quia cum capra fecit dampnum in orto Lupe pro parte comunis denarios duos. ACG, Massari, b. 404, f. 55v, sezione Receptum condempnatiorum. Gli importi delle multe riscosse dal comune per l’ingresso degli animali su proprietà private erano solo una parte della somma sborsata da chi aveva commesso il danno. Questo importo andava infatti a sommarsi alla cifra pagata come risarcimento al proprietario del fondo, la quale non compare mai nei registri dell’amministrazione. Gli importi delle multe sono, nei casi indicati, diverse da quelle riportate negli
Per un proprietario, al di là del dovere civico imposto dagli statuti, era dunque particolarmente importante che le recinzioni che cingevano il suo appezzamento di terreno fossero efficienti, soprattutto se il podere si trovava in prossimità di una strada percorsa abitualmente da animali. Tra le specie che più spesso sfuggivano al controllo dei loro conduttori vengono segnalati i cavalli, gli ovini e i caprini. Forse questi animali erano quelli che con più frequenza percorrevano la tavella: di giorno pascolavano nel Campo o sulle alture e la notte venivano ricoverati in alcune stalle o recinti situati nei pressi o all’interno del centro urbano.
Nel distretto gemonese è probabile che gli sviluppi della piantata della vite o degli alberi da frutta si siano manifestati nel corso dei secoli XI e XII sotto la veste di uno strisciante progresso delle recinzioni, talvolta a spese di terre un tempo incluse nel regime dei campi aperti. Nei secoli XIV e XV, come abbiamo visto, il paesaggio agrario era sostanzialmente caratterizzato da un