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A questo punto è arrivato il momento di rispondere alla nostra domanda iniziale, ossia se i Parlamenti oggi possano ancora assolvere la loro funzione di rappresentanza generale. Prima di addentraci nella risposta, dobbiamo però precisare l’ambito di applicazione di tale domanda: alla luce dei dati raccolti sinora emerge, infatti, come il dibattito istituzionale sulla rappresentanza politica della Camera bassa si sia sviluppato all’interno del Regno Unito e dell’Unione europea non casualmente, ma in quanto tali ordinamenti sono caratterizzati da peculiarità non estendibili a qualsiasi altro ordinamento.

Pur non volendo azzardare alcun improprio paragone tra Unione Europea e Regno Unito, ordinamenti profondamenti diversi per origine, evoluzione, storia e caratteri istituzionali, quello che si è cercato di fare è rintracciare caratteri comuni all’interno dei due ordinamenti che possano spiegare l’emersione del medesimo problema in seno alla rappresentanza. Non è infatti la tensione tra unità e diversità, tipica di ogni ordinamento federale, a rendere i nostri casi atipici, ma il modo in cui questa tensione viene affrontata alla luce di determinate caratteristiche.

Innanzitutto in entrambi i casi ci troviamo di fronte a Unioni “volontarie” di stati dove viene riconosciuto, anche se in maniera formalmente diversa, il diritto di recesso/secessione. Questo in entrambi i casi conferisce una certa flessibilità ai due ordinamenti, che seppur in modo diverso, non può che ripercuotersi sulle assemblee rappresentative.

Possiamo inoltre osservare la presenza pressoché costante di asimmetrie: gli stati membri, in entrambi i casi, si contraddistinguono per diversi gradi di commitment rispetto alle politiche decise dai rispettivi Parlamenti “centrali”. Abbiamo visto poi come tale peculiarità nei due casi si atteggi in maniera distinta per evidenti ragioni storiche: da un lato abbiamo un’Unione volontaria di stati che mantengono la loro sovranità; dall’altra un’Unione di stati in cui l’unica istituzione formalmente riconosciuta come sovrana è Westminster.

Abbiamo evidenziato infine come tali soluzioni asimmetriche, sin dalle origini, siano state adottate per far fronte a momenti di particolare crisi: sia la devolution che le forme di cooperazione flessibile sono state di fatto adottate per superare particolari situazioni di

impasse istituzionale e di crisi della rispettiva Unione.

Chiarito il contesto istituzionale nel quale il dibattito si è sviluppato, passiamo ora alle soluzioni adottate dai due ordinamenti per rispondere alla sfida della rappresentanza.

Per quanto riguarda il Regno Unito, la soluzione EVEL risulta certamente essere una scelta molto forte in quanto restringe il diritto di voto dei parlamentari all’interno della House of

Commons, dove in teoria ogni cittadino dovrebbe essere rappresentato in maniera eguale, a

prescindere da qualsiasi appartenenza territoriale. Come illustrato ampiamente nei precedenti capitoli, tale riforma è stata duramente criticata, in particolar modo dall’opposizione che ne sottolinea i possibili risvolti in termine di stabilità istituzionale, visto l’intrinseco rischio di

impasse istituzionale sotteso a tale procedura.

Alla luce delle evidenze empiriche sinora registrate, tali conseguenze non sembrano però essersi verificate: in entrambi i casi in cui l’EVEL è stato applicato il processo di approvazione sembra non aver riscontrato infatti particolari difficoltà. riproponendosi invece le ormai ricorrenti problematiche relative alle riforme costituzionali ad hoc.

L’EVEL, di fatto, sia nella teoria che nella pratica, è esemplificativo dell’approccio adottato nel Regno Unito in merito alle riforme costituzionali negli ultimi decenni. In tali occasioni si è riscontrata una costante tendenza da parte dei governi a guardare a queste riforme in maniera frammentata ed isolata, non considerando il quadro all’interno del quale queste si andavano inserendo. Relativamente all’EVEL, ci riferiamo in particolare al fatto che allo

Speaker siano stati affidati compiti e funzioni che probabilmente avrebbero richiesto un

ripensamento del suo ruolo e delle qualifiche per questo richieste, venendo negata la tradizionale neutralità della sua figura. Ulteriore esempio di tale mancanza di visione lo troviamo per quanto riguarda il regime finanziario, il cui cambiamento sarebbe dovuto essere considerato un pre-requisito necessario all’adozione di ogni sistema di EVEL, in quanto la cd Barnett formula implica che le decisioni di spesa in Inghilterra in parte determinino l’ammontare complessivo di finanziamenti anche verso le nazioni devolute.

Nella valutazione di tale procedura non possiamo poi non considerare il reale impatto che la

English Question ha avuto nel corso della storia sugli equilibri di Westminster. La questione

inglese, infatti, alla luce dei dati sembrerebbe configurarsi più come problema politico che reale: dal 1945 - di 19 governi - 16 si sono retti su una maggioranza costituita da parlamentari Inglesi e i casi in cui i voti scozzesi hanno annullato una maggioranza inglese su una questione esclusivamente relativa all’Inghilterra sono prossimi allo zero545.

Più precisamente per quanto riguarda l’applicazione dell’EVEL, nella sessione 2014-15 solo due disegni di legge sarebbero stati oggetto della nuova procedura e dal 22 Ottobre 2015, momento in cui la procedura è stata adottata, sino ad oggi solo due provvedimenti sono stati approvati con il ricorso ad essa.

Per quanto riguarda il Regno Unito - alla luce della restrizione del diritto al voto per i parlamentari di Westminster in talune circostanze e sulla base del criterio di rappresentanza territoriale - possiamo concludere che il Parlamento, in linea teorica, non si atteggi più come un organo di rappresentanza generale, in quanto ogni cittadino non rileva più come soggetto indistinto ma in quanto membro di una certa entità territoriale. Nella pratica però, visto l’impatto marginale delle legislazioni adottate con tale procedura e alla luce delle evidenze empiriche sin qui rilevate, una simile affermazione non sembra essere molto realistica. Certo è che il potenziale affinché si creino due classi di parlamentari all’interno della stessa camera esiste, bisognerà vedere poi se si verificheranno le condizioni necessarie affinché questo si realizzi nella pratica.

Per quanto riguarda l’Unione Europea abbiamo invece visto come ad oggi ancora non sia stata adottata formalmente alcuna soluzione nel merito. Come evidenziato nei precedenti capitoli, l’ipotesi di una differenziazione in seno all’assemblea di Strasburgo sembra comunque molto poco probabile. Innanzitutto storicamente, come rilevato nel primo capitolo, l’Europa continentale per molto tempo ha rifiutato qualsiasi tipo di rappresentanza settoriale, compresa quella territoriale; dunque, adattare la camera bassa, dove si esprime il principio democratico, alle geometrie variabili dell’Unione sembra una via difficilmente percorribile, in primis al livello culturale. Abbiamo visto inoltre che un adattamento in tal senso per un organismo come il Parlamento europeo, al livello pratico, sia pressoché impossibile: le variabili di cui tener conto sono molteplici e si articolano in maniera complessa, non considerando poi che la governance economica europea è soggetta a numerose variazioni nel tempo. La concomitanza di questi fattori renderebbe il compito del Presidente - di scegliere di volta in volta il collegio dei votanti - soggetto a numerose difficoltà e a lunghi tempi di attesa; il procedimento legislativo poi risulterebbe ancor meno comprensibile agli occhi dei cittadini, aggravando il problema di legittimazione democratica.

Oltre a problemi pratici e questioni culturali, un adattamento del PE in tal senso andrebbe incontro anche a problemi di legittimità istituzionale alla luce del principio di uguaglianza sancito dall’art 14 TUE, la cui modifica richiederebbe una revisione dei trattati, dunque il raggiungimento dell’unanimità dei consensi tra gli stati membri.

Un Parlamento europeo differenziato al suo interno in base all’appartenenza o meno all’Eurozona, infine, recherebbe problemi al livello di equilibri istituzionale, in quanto vi sarebbe una sovra-rappresentazione delle istituzioni territoriali a discapito dell’equilibrio tra unità e diversità, che invece sappiamo essere essenziale alla sopravvivenza di qualsiasi Unione.

Esclusa dunque tale ipotesi, rimane quella della cooperazione interparlamentare che sembra meglio adattarsi sia alla esigenza di coordinare efficienza e rappresentanza sia a quella di risolvere i problemi di disconnessione democratica in seno all’Unione. Questi ultimi, infatti, come visto in precedenza, vanno oltre il mero problema di input legitimacy, inserendosi all’interno di una cd multilevel democracy, dove necessarie sono soluzioni originali che consentano a entrambi i canali di rappresentanza all’interno dell’Unione di collaborare affinché il circuito democratico funzioni in maniera efficiente.