CAPITOLO 2 – LA SELVA NELLA LETTERATURA ANTICA
2.2 IL RITRATTO DEL SELVAGGIO
Ma come vengono rappresentati nella letteratura antica gli abitanti delle selve, gli esseri umani pre-civilizzati che trovano rifugio negli ambienti più impervi? Nell'Epopea Classica, Enkidu viene così introdotto:
Essa (la dea Aruru, ndr.) creò un uomo primordiale, Enkidu, il guerriero, seme del silenzio, la potenza di Ninurte. Tutto il suo corpo era coperto di peli, la chioma era fluente come quella di una donna, i ciuffi dei capelli crescevano lussureggianti come il grano. Egli non conosceva né la gente né il Paese; egli indossava una pelle d'animale come Sumuqan. Con le gazzelle egli bruca l'erba, con i bovini sazia la sua sete nelle pozze d'acqua. Con le bestie selvagge, presso le pozze d'acqua, egli si soddisfa.129
La descrizione di Enkidu, prima del processo di civilizzazione che lo porterà a divenire amico fraterno di Gilgamesh, mette in forte evidenza il suo aspetto ferino e le sue abitudini animalesche. I ripetuti riferimenti ad elementi naturali quali il grano, le gazzelle e i bovini lo integrano perfettamente nell'ambiente naturale nel quale viene inserito: fino all'incontro con la prostituta sacra Shamkat, risulta difficile riconoscere in lui qualsiasi elemento di umanità.
Una celebre descrizione dei “selvaggi” è contenuta nel De Origine et Situ Germanorum (più noto come Germania) di Tacito: l'autore latino, verso la fine del I secolo d.C., compose un'opera etnografica sulle popolazioni abitanti l'area dell'odierna Germania; tali popolazioni, considerate selvagge e primitive dai Romani, riuscirono ad opporsi all'avanzata dell'Impero nell'Europa continentale. Il tentativo descrittivo di Tacito non ha tuttavia validità storiografica o antropologica, come rileva Thomas:
Tacitus, particularly in the first half of the Germania, is guided as much by ethnographical commonplaces and generalisations as by any individual or empirically derived autopsy... The Germania is far from reliable as a historical, anthropological or sociological work.130
La descrizione delle popolazioni germaniche fatta da Tacito ci interessa proprio per questo suo limite: nel descrivere le abitudini e l'aspetto di questi “barbari”, Tacito si rifà a fonti a lui precedenti131, le quali avevano indubbiamente contribuito a creare uno stereotipo culturale relativo a quei popoli esterni all'Impero, che i Romani percepivano come “altri” rispetto alla civiltà. Alcuni
129Pettinato, La Saga di Gilgamesh, p. 127.
130Thomas, Richard F., "The Germania as Literary Text", in A.J. Woodman (a cura di), The Cambridge Companion to
Tacitus, Cambridge: University Press, 2009, p. 59.
131Thomas riporta, come possibili fonti per il lavoro di Tacito: Posidonio, Cesare, il Bella Germanicum e la Naturalis
passaggi dell'opera tacitiana sono particolarmente significativi:
Ipse eorum opinionibus accedo, qui Germaniae populos nullis aliis aliarum nationum conubiis infectos propriam et sinceram et tantum sui similem gentem exstitisse arbitrantur. Unde habitus quoque corporum, tamquam in tanto hominum numero, idem omnibus: truces et caerulei oculi, rutilae comae, magna corpora et tantum ad impetum valida: laboris atque operum non eadem patientia, minimeque sitim aestumque tolerare, frigora atque inediam caelo solove adsueverunt. 132
Quotiens bella non ineunt, non multum venatibus, plus per otium transigunt, dediti somno ciboque, fortissimus quisque ac bellicosissimus nihil agens, delegata domus et penatium et agrorum cura feminis senibusque et infirmissimo cuique ex familia; ipsi hebent, mira diversitate naturae, cum idem homines sic ament inertiam et oderint quietem.133
Nullas Germanorum populis urbes habitari satis notum est, ne pati quidem inter se iunctas sedes. Colunt discreti ac diversi, ut fons, ut campus, ut nemus placuit.134
Nel complesso dell'opera, Tacito fa emergere il ritratto di uomini quasi primordiali, con alcuni tratti che apparivano bestiali ai suoi contemporanei Romani. L'ambiente selvatico nel quale i Germani si collocano li rende, agli occhi di Tacito, esseri animaleschi, come emerge dalla descrizione collettiva che ne viene fatta, la quale tende ad annullare le differenze somatiche tra gli individui, attribuendo a tutti occhi azzurri, chiome rosse e stature alte. Va tuttavia detto che, nell'opera, Tacito dedica grande attenzione alle abitudini sociali dei Germani, riconoscendo loro una purezza d'animo che dovrebbe essere d'esempio per i Romani: alcuni critici, come rileva Martin, riconoscono in tale tentativo di fornire un esempio di purezza alla decadente società romana lo scopo principale dell'opera tacitiana135. Nella sua opera The Invention of Racism in Classical Antiquity, Isaac fornisce ulteriori esempi di rappresentazioni dei selvaggi nella letteratura classica greca e latina, partendo dalla definizione di una "teoria ambientale" che avrebbe contribuito alla stereotipizzazione delle popolazioni straniere, da Erodoto in poi136: le caratteristiche fisiche e culturali attribuite ai popoli
132Tacito, Germania, 4, p. 829. "Faccio mia l'opinione di coloro che tengono le popolazioni germaniche immuni da ogni incrocio con le altre, come razza pura e schietta e a sè soltanto eguale. Di qui, l'aspetto fisico in tutti conforme, per quanti essi siano: truce negli occhi azzurri lo sguardo, rosse le chiome, alti di statura; solo nell'impeto vigorosi, ma non del pari resistenti alla fatica e pazienti all'opera, mal sopportano la sete e il caldo; al freddo e alla fame induriti invece dal clima e dal suolo".
133Tacito, Germania, 15, p. 835. "Quando non guerreggiano, poco tempo danno alla caccia, più assai all'ozio, abbandonandosi al sonno e al cibo. Anche i più forti e bellicosi, lasciando la cura della casa e della famiglia e dei campi alle donne, ai vecchi, ai più deboli membri della comunità domestica, si immergono inerti nel più assoluto torpore: singolarissimo contrasto in codesti uomini, che amano l'ozio quanto avversano la pace."
134Tacito, Germania, 16, p. 835. "È noto che i Germani non abitano in vere e proprie città, né tollerano contiguità di case. Stanno divisi e sparsi, là dove li abbia fissati una sorgente, un campo, un bosco."
135Martin, Ronald, Tacitus, Londra: Batsford Academic and Educational, 1981, p. 49.
stranieri dai Greci137 e dai Romani sarebbero determinate dal clima e dall'ambiente nel quale tali popoli erano stanziati. Isaac spiega così anche l'animalizzazione dei "popoli della foresta", come i Germani, nella stereotipizzazione fatta dagli autori dell'antichità: l'ambiente boscoso nel quale essi trovano rifugio li rende "the ultimate northwesterners of the environmental theory"138.
Negli esempi riportati, la descrizione delle popolazioni selvagge e degli abitanti della foresta si lega ad alcune caratteristiche fisiche e comportamentali che sembrano delineare lo stereotipo di uomini "scimmieschi", avvezzi ad abitudini animalesche: in generale, lo stereotipo del selvaggio si pone a metà strada tra l'animale e l'uomo. Gli uomini che vivono nelle selve, e più in generale nella natura, fungono, per i civilizzati, da paradigma di confronto per misurare la superiorità culturale degli uomini che vivono nelle città, i quali sono fuoriusciti dalle selve per permettere lo sviluppo della civiltà umana. Volgendosi agli uomini della foresta, gli uomini civilizzati vi riconoscono i propri antenati: Enkidu rappresenta l'evoluzione verso la civiltà compiuta dagli esseri umani, e Tacito stesso indica i Germani come un esempio di umanità originaria e non corrotta. Tuttavia questa incontaminatezza riconosciuta agli uomini della foresta conserva caratteri di negatività e bestialità: basti pensare ad un altro episodio della mitologia classica, quello della follia di Aiace Telamonio; brevemente citata da Omero139, la follia di Aiace Telamonio si manifesta in seguito all'assegnazione delle armi del defunto Achille ad Ulisse140. In un testo risalente al III-IV secolo d.C., i Posthomerica di Quinto Smirneo, l'episodio viene narrato in maniera esaustiva, approfondendo il conflitto fra Ulisse ed Aiace nel reclamare le armi dell'eroe mirmidone; la rabbia per il mancato riconoscimento delle sue abilità guerriere, e la conseguente mancata assegnazione delle armi, porta Aiace alla follia, con conseguente regressione allo stato di selvaggio: l'autore fa
137Per un approfondimento sulla visione del selvaggio nella Grecia classica, in particolare per quanto riguarda le due opposte visioni del selvaggio ferinizzato e del selvaggio idealizzato: Farioli, Marcella, Mundus Alter – Utopie e
Distopie nella Commedia Greca Antica, Milano: Vita e Pensiero, 2001, pp. 174-186.
138Isaac, p. 436.
139Omero, Odissea, XI, 541-562, a cura di F. Ferrari, Torino: UTET, 2001.
140Per un'analisi approfondita della follia di Aiace, e più in generale per un confronto tra l'archetipo del selvaggio e il cavaliere folle: Beatrice Mameli, "Wylde and Wode – Wild Madness in Middle English Literature", tesi di dottorato, Università degli Studi di Padova, a.a. 2013/2014, pp. 145-190.
emergere i tratti animaleschi dell'eroe greco, pur mantenendone la dignità di grande guerriero141. Come nella descrizione di Enkidu, la selvatichezza di Aiace è resa attraverso similitudine con animali selvatici:
Dappertutto continuava ad aggirarsi come una crudele fiera che balza attraverso le forre di una gola dalle alte rocce col muso schiumante e molte ferite bramando sia per i cani sia per i cacciatori che a lei i piccoli abbiano ucciso dopo averli strappati dalla tana.142
E si slanciò su un gregge, come un possente leone dal feroce petto in preda a terribile fame.143
Come quando all'arrivo di un'aquila rapida si rannicchiano le lepri in folti cespugli, quando da presso acutamente stridendo vola or qua or là spiegando le ali; così quelli chi qua, chi là si ritirano davanti al possente uomo.144
La regressione di Aiace allo stato animalesco rappresenta un processo inverso rispetto a quello di Enkidu: l'eroe diviene selvaggio, dimentica la civiltà e si comporta come una bestia. Il ritorno allo stato selvaggio, così come il dualismo tra uomo selvatico e uomo civilizzato, suggeriscono una consapevolezza delle proprie origini da parte dell'uomo antico: non sarebbe corretto parlare di coscienza evolutiva, ma il confronto con i popoli più primitivi (come il confronto con i Germani per i Romani) permetteva alle civiltà antiche una riflessione sulle proprie origini. I Babilonesi, i Greci e i Romani vedevano nelle popolazioni più primitive i propri antenati, e il caso della follia di Aiace ci suggerisce come la ragione e l'intelletto fossero considerate le caratteristiche che permisero ai primi uomini civilizzati di differenziarsi dalle bestie, uscendo dal loro ambiente naturale, la selva, e rifugiandosi in nuove costruzioni, quelle che diverranno le prime città.
141James, Alan, e Lee, Kevin, A Commentary on Quintus of Smyrna, Posthomerica V, Leida-Boston-Colonia: Brill, 2000, pp. 13-15.
142Quinto di Smirne, Posthomerica, V, 371-378, a cura di E. Lelli, Milano: Bompiani, 2013, p. 247. 143Quinto di Smirne, Posthomerica, V, 406-407, p. 249.