CAPITOLO 2 – LA SELVA NELLA LETTERATURA ANTICA
2.4 LA SELVA COME LOCUS AMOENUS E LOCUS HORRIDUS: VIRGILIO E LUCANO
Solitamente i loci amoeni della letteratura greca e latina vengono caratterizzati dalla presenza, tra gli altri elementi, di un boschetto, come rileva Quintiliano nel condannare il locus amoenus in quanto nemico dell'attività intellettuale:
Quare silvarum amoenitas et praeterlabentia flumina et inspirantes ramis arborum aurae volucrumque cantus et ipsa late circumspiciendi libertas ad se trahunt, ut mihi remittere potius voluptas ista videatur cogitationem quam intendere.175
Nella gran parte delle attestazioni di loci amoeni nella letteratura classica il bosco compare dunque come uno degli elementi caratterizzanti176, mentre meno frequenti sono i casi in cui è il bosco stesso a caratterizzarsi in sè e per sè come locus amoenus. In alcuni casi la selva combina le caratteristiche del locus amoenus con quelle del locus horridus: apparentemente antitetici, questi due loci si fondono spesso nelle rappresentazioni di ambienti soprannaturali o legati al divino.
Ritengo interessante sviluppare una breve analisi dell'utilizzo della selva come locus
amoenus o locus horridus nelle opere di Virgilio, l'autore latino che più di tutti influenzerà la cultura
e la letteratura medievali; nella sua prima opera in ordine cronologico, ossia le Bucoliche, la selva appare con connotazioni prevalentemente amene, come nella terza Egloga:
Dicite, quandoquidem in molli consedimus herba, et nunc omnis ager, nunc omnis parturit arbos, nunc frondent silvae, nunc formosissimus annus.177
La selva in questa occorrenza è uno scenario idealizzato, facente parte di un mondo irreale e perfetto, dove la natura funge da sfondo alle vicende dei protagonisti, i quali a loro volta incarnano un irreale mito di serenità e perfezione, secondo i canoni della tradizione bucolica. Tuttavia, come nota Von Humboldt, non sempre nelle Bucoliche il paesaggio è conciliante e idilliaco:
Il paesaggio nelle Bucoliche prende parte attiva all'azione; come portatore di sentimenti umani condivide 175Marco Fabio Quintiliano, Institutio Oratoria, X, 3-24, a cura di R. Faranda e P. Pecchiura, Torino: UTET, 1979, p. 463. "Quindi l'amenità delle selve e lo scorrere dei fiumi e i mormorii del vento tra i rami degli alberi e il canto degli uccelli e la libertà stessa di guardare intorno per ampi tratti affascinano a tal punto, che codesto godimento mi pare che attenui più che aumentare la concentrazione del pensiero."
176Sull'evoluzione del locus amoenus dalla letteratura greca a quella romana: Newlands, Carole Elizabeth, The
Transformation of the 'Locus Amoenus' in Roman Poetry, Berkeley: University of California, 1984.
177Publio Virgilio Marone, Bucolica, III, 55-57, in Opere di Publio Virgilio Marone, a cura di C. Carena, Torino: UTET, 1971, p. 91. "Cantate, poi che siamo su soffice erba seduti e ora ogni campo, ogni albero produce. Ora si coprono di foglie le selve, ora è al suo momento più bello l'annata."
esultanza e dolore. Monti, foreste e piante e animali ogni volta menzionati per nome ci mettono davanti agli occhi un ambiente compassionevole, o anche spietato.178
Virgilio compie un passo in più rispetto alla tradizione bucolica derivante da Teocrito: il paesaggio comincia ad assumere un ruolo ambivalente, non configurandosi più come esclusivamente ameno, bensì seguendo le vicende e adattandosi agli alterchi dei protagonisti.
Così come nelle Bucoliche, anche nell'Eneide, opera ultima di Virgilio, nonché capolavoro epico che gli regalò fama eterna, sono presenti varie selve, sia come componenti di uno scenario complessivamente ameno o orrido, sia come luoghi autonomamente tali; il primo esempio è nel libro I, quando Enea e i suoi compagni, in fuga da Troia, approdano sulle rive libiche:
Est in secessu longo locus: insula portum efficit obiectu laterum, quibus omnis ab alto frangitur inque sinus scindit sese unda reductos. Hinc atque hinc vastae rupes geminique minantur in caelum scopuli, quorum sub vertice late aequora tuta silent; tum silvis scaena coruscis desuper horrentique atrum nemus imminet umbra. Fronte sub adversa scopulis pendentibus antrum: intus aquae dulces vivoque sedilia saxo.179
Qui le foreste che coprono le rupi delle sponde libiche contribuiscono a connotare il paesaggio come locus horridus: Virgilio le inserisce come implicito specchio del tormentato viaggio dei troiani, come scrive anche Saunders:
The darkness and mistery of this description of the Lybian forests echo the clouded nature of the Trojans' voyage; struck by storm, they have made for the nearest land.180
Spesso nell'Eneide le selve hanno la funzione di rispecchiare lo stato d'animo dei protagonisti, come nel caso di Didone paragonata ad una cerva che vaga tra i boschi:
Uritur infelix Dido totaque vagatur urbe furens, qualis coniecta cerva sagitta, quam procul incautam nemora inter Cresia fixit pastor agens telis liquitque volatile ferrum nescius: illa fuga silvas saltusque peragrat
178Von Albrecht, Michael, Virgilio – Un'Introduzione, traduzione a cura di A. Setaioli, Milano: Vita e Pensiero, 2012, p. 51.
179Virgilio, Eneide, I, 159-165, p. 77. "V'è un luogo in un profondo golfo, dove un'isola difende un porto con la barriera dei suoi fianchi: qui le onde che giungono dal largo s'infrangono e si perdono rifluendo in remote insenature. Da un lato e l'altro s'innalzano minacciosi verso il cielo due scogli uguali e grandi rupi: sotto questi picchi placido per lungo tratto riposa il mare; in alto traluce uno scenario di piante, in basso domina con ombre paurose un bosco oscuro; di fronte fra spuntoni s'apre una grotta: dentro acque dolci e sedili scavati nella roccia, dimora delle Ninfe."
Dictaeos; haeret lateri letalis harundo.181
All'interno della similitudine viene abbozzato un ritratto di selva amena, in cui il cacciatore e la cerva si muovono nell'atto della caccia senza influenze da parte del divino: il focus è sulla cerva, la vittima della caccia, la quale gioca comunque un ruolo scevro da ogni accezione negativa. La similitudine assume pieno senso quando, pochi versi dopo, viene prefigurata dalla dea Giunone l'unione tra la regina di Cartagine ed Enea:
Tum sic excepit regia Iuno:
"Mecum erit iste labor. Nunc qua ratione quod instat confieri possit, paucis (adverte) docebo.
Venatum Aeneas unaque miserrima Dido in nemus ire parant, ubi primos crastinus ortus extulerit Titan radiisque retexerit orbem. His ego nigrantem commixta grandine nimbum, dum trepidant alae saltusque indagine cingunt, desuper infundam et tonitru caelum omne ciebo. Diffugient comites et nocte tangientur opaca: speluncam Dido dux et Troianus eandem devenient. Adero et, tua si mihi certa voluntas, conubio iungam stabili propriamque dicabo; hic hymenaeus erit".182
Il matrimonio tra Enea e Didone, per il suo esito nefasto (la fuga di Enea e il conseguente suicidio della regina di Cartagine), rappresenta uno degli episodi più tragici dell'opera virgiliana, e Virgilio prefigura quel che avverrà alla fine del quarto libro disegnando la selva in cui i due si ritroveranno soli e consumeranno la loro unione come uno scenario a tinte fosche. È la dea Giunone a narrare quanto sta per avvenire, e il bosco in cui si svolgerà il fattaccio assume connotati sia amoeni che
horridi: inizialmente è teatro di caccia, illuminato dai raggi dell'alba, ma la dea vi scatena una
tempesta che fa fuggire gli uomini e costringe Enea e Didone a cercare riparo in una grotta, nell'oscurità. Attraverso la manipolazione delle condizioni atmosferiche, Giunone trasforma un
181Virgilio, Eneide, IV, 68-73, p. 217. "Arde la misera Didone e delirando vaga per tutta la città, come, colta da una freccia, una cerva incauta, che di lontano nei boschi di Creta un pastore trafisse inseguendola coi dardi e lasciandole in corpo quella saetta senza saperlo: lei fuggendo corre tra i boschi e le balze del Ditte, ma infissa, ahimè, le rimane nel fianco l'asta mortale."
182Virgilio, Eneide, IV, 114-127, pp. 219-221. "E la regale Giunone così riprese: "Questo sarà compito mio. Ascolta, ora in breve ti chiarirò in che modo si possa realizzare ciò che preme. Enea e la sventurata Didone si preparano a partire per la caccia nel bosco, non appena il sole domattina avrà diffuso l'alba e illuminato il mondo coi suoi raggi. Io rovescerò su loro uno scroscio di pioggia e grandine, mentre i battitori affannandosi recingono di reti le balze, e scuoterò tutta la volta del cielo col tuono. Si disperderanno, avvolti da una notte oscura, i loro compagni; nella medesima grotta si rifugeranno Didone e il duce troiano. Io sarò lì e, se tu m'assicuri l'assenso, unendoli in matrimonio, la farò sua per sempre. Queste le loro nozze."."
locus amoenus in horridus, forzando i due amanti alla ricerca di un luogo dove rifugiarsi. La
continua ambiguità della selva nell'Eneide, sempre sospesa tra amenità e orridezza, viene esaurientemente spiegata da Pöschl:
Vergil's landscape does not exist for its own sake. Nor is it all setting and background. Above all, it is symbolic of mood. It is a part and a reflection of the inner action. We are almost always watching a two-fold event, an inner and an outer drama. Vergil's main purpose is to express the inner event, not only directly, but through the use of symbolism as well.183
La selva si presta quindi a riflettere la situazione interiore dei personaggi che agiscono al suo interno: è così anche nell'episodio che porta alla morte dei due giovani guerrieri Eurialo e Niso; in questo caso abbiamo un locus horridus, un luogo nel quale i due rimangono imprigionati e sono costretti a combattere sino alla morte:
Silva fuit late dumis atque ilice nigra
horrida, quam densi complerant undique sentes; rara per occultos lucebat semita calles.184
Il bosco diviene per i due giovani guerrieri un labirinto inestricabile, dal quale non riescono ad emergere, e nel quale vengono intercettati dai soldati Rutuli: lo scontro che ne consegue è mortale per entrambi. Saunders analizza così l'episodio:
The two have been betrayed by their desire for vengeance. Here, as with Dido and Aeneas, the forest offers a refuge from reality, in this case the reality of war, but such refuge ultimately proves impossible and treacherous... The darkness of the forest seems to reflect the prescient world of the Aeneid, in which events are unavoidably but misteriously orchestrated by the gods and in which mortals may be reduced to fear and flight. The forest shadows themselves seem occasionally to take on a prescient quality.185
La selva agisce quindi non come scenario passivo, ma come riflesso quasi cosciente di ciò che accade sulla scena; le diverse accezioni che essa assume mutano continuamente, seguendo l'emotività delle azioni rappresentate.
Nel sesto libro dell'Eneide viene descritta un'altra selva, caratterizzata da un'influenza sovrannaturale: si tratta del bosco in cui Enea scova il ramo d'oro, alle porte dell'Averno. Nel consultare la Sibilla, Enea chiede come accedere alle porte dell'Averno, per poter salutare un'ultima
183Pöschl, Viktor, The Art of Vergil: Image and Symbol in the Aeneid, traduzione di Gerda Seligson, Ann Arbor: University of Michigan, 1962, p. 143.
184Virgilio, Eneide, IX, 381-383, pp. 489-491. "Era la selva vasta, irta di cespugli e d'elci nere e d'ogni parte assiepata di densi rovi; solo qualche sentiero biancheggiava fra l'intrico dei passaggi."
volta il padre Anchise, e la veggente lo indirizza alla ricerca del ramo d'oro186:
Latet arbore opaca
aureus et foliis et lento vimine ramus, Iunoni infernae dictus sacer; hunc tegit omnis lucus et obscuris claudunt convallibus umbrae. Sed non ate datur telluris operta subire
auricomos quam quis decerpserit arbore fetus.187
La catabasi di Enea quindi deve passare necessariamente attraverso la ricerca del ramo d'oro, nonché attraverso la sepoltura del compagno d'avventura Miseno, scomparso tra i flutti marini, il cui cadavere viene ritrovato da Enea e dai suoi compagni dopo l'incontro con la Sibilla. Raccogliendo il legname per la pira funebre di Miseno, Enea trova l'agognato ramo d'oro:
Itur in antiquam silvam, stabula alta ferarum; procumbunt piceae, sonat icta securibus ilex fraxinaeque trabes, cuneis et fissile robur scinditur, advolvont ingentis montibus ornos... Vix ea fatus erat, geminae cum forte columbae ipsa sub ora viri caelo venere volantes et viridi sedere solo; tum maximus heros maternas agnovit avis laetusque precatur:
"Este duces, o, si qua via est, cursumque per auras derigite in lucos, ubi pinguem dives opacat ramus humum; tuque, o, dubiis ne defice rebus, diva parens"...
Inde ubi venere ad fauces grave olentis Averni, tollunt se celeres liquidumque per aera lapsae sedibus optatis gemina super arbore sidunt, discolor unde auri per ramos aura refulsit.188
L'atmosfera soprannaturale che circonda il ritrovamento del ramo d'oro si collega alla supernaturalità della selva in cui si trova Enea: egli è alle porte dell'oltretomba, in un luogo oscuro e potenzialmente horridus; l'intervento della madre di Enea, la dea Venere, attraverso il suo animale simbolo, la colomba, permette ad Enea di compiere la missione che gli apre l'accesso all'Averno. Il
186Oltre a permettere ad Enea la catabasi nell'Averno, il ramo d'oro sarebbe collegabile al culto di Diana Nemorensis. L'episodio fornisce lo spunto per la monumentale opera antropologica di James Frazer, Il Ramo d'Oro, traduzione di Lauro De Bosis, Torino: Boringhieri, 1973.
187Virgilio, Eneide, VI, 136-141, p. 321. "In un albero ombroso si cela un ramo, che ha d'oro le foglie e il flessibile stelo, consacrato alla Giunone d'Averno; tutto il bosco lo nasconde, chiuso com'è dall'ombra in valli oscure. Ma non si può scendere nei segreti della terra, prima d'aver colto dall'albero il virgulto dalle fronde d'oro."
188Virgilio, Eneide, VI, 179-205, p. 323-325. "Vanno in una selva annosa, profondo rifugio di fiere; crollano i pini, sotto i colpi della scure rimbombano i lecci, con cunei nelle fessure si spaccano tronchi di frassino e querce, dai monti fan rotolare orni giganteschi... Aveva appena parlato, quando per avventura due colombe proprio davanti ai suoi occhi discesero in volo dal cielo e si posarono sul verde suolo. Allora il magnanimo eroe riconosce gli uccelli di sua madre ed esultando prega: "Guidatemi voi, se esiste una via, dirigendo sul'aria il vostro volo nel bosco, là dove il ramo d'oro ombreggia la fertile terra. E tu, dea madre, non mancarmi in queste difficoltà"... Quindi, come arrivarono alla bocca del fetido Averno, si alzarono veloci e, planando sull'aria limpida, nel luogo bramato si posarono sul duplice albero, di dove tra i rami distinto rifulse lo splendore dell'oro."
passaggio dalla selva in cui Enea trova il ramo d'oro all'oltretomba non è netto, come segnala anche Putnam:
It is never quite clear, and was probably never meant by Virgil to be clear, where woods end and underworld begins. The actual jaws of the entrance way form little division.189
La selva e l'oltretomba non sono staccate, ma formano un unicum senza soluzione di continuità nella discesa di Enea agli Inferi; il bosco dovrebbe quindi caratterizzarsi come locus horridus, anche per la descrizione tetra che ne viene fatta da Virgilio, ma il lettore non ha mai questa sensazione. L'intervento di Venere, e la miracolosità del ritrovamento del ramo d'oro rendono la selva un luogo del divino, sospeso tra amenità e orridezza e difficile da classificare.
Se l'Eneide è da sempre considerata il capolavoro epico della letteratura latina, la Pharsalia di Lucano, nota anche come Bellum Civile190, è il poema anti-epico per eccellenza: quest'opera, giuntaci incompleta, in cui si narra della guerra civile che vide protagonisti da una parte Giulio Cesare, e dall'altra le forze del Senato (condotte da Pompeo), contiene una celebre descrizione di un bosco sacro, quello di Massilia (l'attuale Marsiglia). Il bosco sacro di Marsiglia viene distrutto su iniziativa di Giulio Cesare, per provare la non esistenza degli dei pagani alle truppe romane e agli abitanti della città di Marsiglia, la quale era posta sotto assedio dal suo esercito (nonostante si fosse dichiarata neutrale). Lucano descrive così il bosco:
Lucus erat longo numquam violatus ab aevo, obscurum cingens conexis aera ramis et gelidas alte summotis solibus umbras. Hunc non ruricolae Panes nemorumque potentes Silvani Nymphaeque tenent, sed barbara ritu sacra deum: structae diris altaribus arae omnisque humanis lustrata cruoribus arbor. Si qua fidem meruit superos mirata vetustas, illis et volucres metuunt insistere ramis et lustris recubare ferae; nec ventus in illas incubuit silvas excussaque nubibus atris fulgura: non ullis frondem praebentibus auris arboribus suus horror inest. Tum plurima nigris fontibus unda cadit simulacraque maesta deorum arte carent caesisque exstant informia truncis.
189Putnam, Michael C.J., The Poetry of the Aeneid: Four Studies in Imaginative Unity and Design, Londra: Oxford University, 1965, p. 53.
190Il dibattito sul titolo dell'opera è tuttora aperto: nei manoscritti viene sempre citata come Bellum Civile, ma all'interno dell'opera lo stesso Lucano la cita come Pharsalia, al verso 985 del IX libro. Nelle note al testo verrà qui citata come Pharsalia.
Ipse situs putrique facit iam robore pallor attonitos; non volgatis sacrata figuris numina sic metuunt: tantum terroribus addit, quos timeant, non nosse deos. Iam fama ferebat saepe cavas motu terrae mugire cavernas et procumbentis iterum consurgere taxos et non ardentis fulgere incendia silvae roboraque amplexos circumfluxisse dracones. Non illum cultu populi propiore frequentant, sed cessere deis: medio cum Phoebus in axe est aut caelum nox atra tenet, pavet ipse sacrdos accessus dominumque timet deprendere luci.191
La descrizione di questa selva la connota immediatamente come locus horridus192: teatro di riti pagani, temuto dalle stesse bestie selvagge, nel bosco di Marsiglia i canoni del locus amoenus vengono rovesciati uno ad uno (le fonti sono tetre, le statue degli dei sinistre, le ombre gelide). Lucano è molto abile nella descrizione del luogo, disegnando agli occhi del lettore uno scenario fosco e poco rassicurante, che ben si sposa con la supernaturalità attribuita al bosco dagli abitanti della zona. Scrive Leigh:
The longer the trees remain uncut, the more absolute is the darkness of the area which they shroud, and the darker the place itself; the more reluctant is anyone to test its terrors or set himself up against the powers attributed to it.193
L'intento dell'autore è soprattutto quello di mostrare la tracotanza del futuro dittatore, Giulio Cesare, il quale, dopo aver posto sotto assedio una città neutrale, in barba alle credenze popolari dei locali
191Lucano, Pharsalia, III, 399-426, traduzione a cura di R. Badali, Torino: UTET, 1988, p. 167. "Si trovava da quelle parti un bosco sacro, in cui nessuno aveva messo piede da lunghissimo tempo, e che cingeva con i suoi rami intrecciati l'aria oscura ed ombre gelide, dal momento che la luce del sole risultava incredibilmente lontana. Lì non avevano sede i Pani abitatori dei campi o i Silvani sovrani delle selve o le Ninfe, bensì i barbari riti sacri alle divinità: lì erano innalzati altari sinistri ed ogni albero era purificato con sangue umano. Se dobbiamo dare un qualche credito all'antichità, che si è sempre inchinata con meraviglia di fronte al divino, perfino gli uccelli avevano timore di fermarsi su quei rami e le belve di riposarsi in quelle tane; né il vento o i fulmini, sprigionatisi dalle fosche nubi, si abbattevano su quella selva: un brivido pervadeva ogni albero senza che soffiasse alcuna brezza tra le foglie. Inoltre una gran quantità di acqua cadeva da tetre fonti e sinistre statue di dei erano ricavate, con un procedimento rozzo e approssimativo, dai tronchi intagliati. La stessa muffa e il pallore del legno putrescente provocavano terrore negli uomini sbigottiti, che non hanno paura delle divinità rappresentate in raffigurazioni fissate dalla consuetudine: tanto lo spavento è ingigantito dal fatto di non conoscere gli dei, di cui si deve aver timore. Ed ormai correva voce che sovente profonde caverne mugghiavano a causa di movimenti tellurici, che i tassi piombavano a terra e subito dopo si drizzavano nuovamente, che incendi sembravano appiccarsi ai boschi, i quali però non bruciavano, e che mostruosi serpenti si avvinghiavano ai tronchi e strisciavano tutto intorno. Gli uomini non affollavano quel luogo