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LA SELVA E LA CITTÀ ANTICA: GILGAMESH E ROMOLO

CAPITOLO 2 – LA SELVA NELLA LETTERATURA ANTICA

2.1 LA SELVA E LA CITTÀ ANTICA: GILGAMESH E ROMOLO

Spesso nei miti dell'antichità la selva si connota come luogo antitetico alla città: in quanto luogo delle origini dell'uomo, la selva funge da prototipo di ciò che va combattuto e civilizzato, poiché selvaggio. Molti dei miti fondativi delle civiltà sorte agli albori della storia presentano, in forme diverse, questa contrapposizione tra città e selva: spesso l'eroe, o il fondatore della città, deve recarsi nel luogo del selvaggio per provare il proprio valore o legittimare il proprio potere, o dalla selva stessa deve emergere per affermare la propria superiorità e porre le basi della civiltà.

Il primo poema epico della storia dell'umanità a noi pervenuto è quello sumero-babilonese denominato Epopea di Gilgamesh; ritengo importante iniziare l'analisi del topos della selva da quest'opera, in quanto essa assume il ruolo di archetipo mitologico99 per la classicità greco-romana e non solo, come rileva Pettinato:

La saga di Gilgamesh non coinvolge soltanto i cultori della civiltà mesopotamica o del mondo antico in generale, ma tutti coloro che hanno a cuore la nascita e lo sviluppo della civiltà. Se a tutto ciò si aggiunge che gli scrittori classici ci hanno tramandato una propria tradizione relativa al personaggio di Gilgamesh, allora si comprende che le gesta di Gilgamesh non sono soltanto avventure di un mitico re dei Sumeri, ma sono patrimonio culturale di tutto il mondo antico.100

In quanto prima poema epico della storia dell'uomo (le prime versioni a noi giunte sono databili tra terzo e secondo millennio avanti Cristo101), l'Epopea di Gilgamesh contiene molti dei nuclei tematici che tornano nella cultura e nella letteratura successiva: il rapporto uomo-divino, la ricerca dell'immortalità, l'amicizia, il viaggio, il rapporto con la natura e la contrapposizione tra essa e la città. La riscoperta di tale mitologia è piuttosto tarda, e solo nel XIX secolo si è cominciato a considerarne l'importanza: indubbiamente Malory e i suoi contemporanei non conoscevano

99 Per una preliminare comprensione del concetto di archetipo in ambito psicologico, e non solo, può essere utile la lettura di: Jung, Carl Gustav, Gli Archetipi e l'Inconscio Collettivo, traduzione a cura di L. Baruffi, Torino: Bollati Boringhieri, 1997.

100La saga di Gilgamesh, a cura di G. Pettinato, Milano: Rusconi, 1992. p.11. Sono a noi pervenute diverse composizioni epiche su Gilgamesh, con significative differenze narrative tra le fonti; in questa tesi farò riferimento principalmente all'Epopea Classica, nota soprattutto dalla Biblioteca di Ninive e composta attorno al XII secolo a.C. Per informazioni sulle altre composizioni, e sulle differenze tra di esse, fare riferimento al capitolo introduttivo di Pettinato.

l'Epopea, ma l'influenza da essa esercitata sulla nascita della mitologia greca (e conseguentemente su quella romana, alla quale invece la cultura medievale ebbe ampio accesso) non può non meritare considerazione. La contrapposizione tra la città di Uruk, di cui l'eroe è sovrano, e la selva (rappresentata dalla Foresta dei Cedri, localizzabile nell'odierno Libano102) rappresenta il motivo di base sul quale si sviluppa la prima parte dell'epopea. Gilgamesh, sovrano la cui storicità è tuttora dibattuta103, viene celebrato nell'epopea per aver costruito le mura della città di Uruk:

Fu lui a costruire le mura di Uruk, l'ovile del santo Eanna, il luogo splendente. Guarda le sue mura: i suoi merli sono come il rame! Osserva la sua alzata, nessuna opera le eguaglia.104

Le mura hanno la funzione di separare ciò che è interno ad esse da ciò che ne rimane al di fuori: i terreni coltivabili, le popolazioni nemiche e, soprattutto, la natura selvaggia e i boschi; le mura di Uruk non aumentano solamente il prestigio della città, ma anche quello del loro costruttore, che attraverso di esse offre una protezione agli abitanti della città105.

Ogniqualvolta Gilgamesh si ritrova a dover affrontare una prova, egli deve avventurarsi al di là delle mura, al di fuori della città, nei luoghi selvaggi dove la civiltà non è ancora stata portata. Nel costruire le mura della città di Uruk, Gilgamesh pone un confine monumentalizzato tra ciò che è civilizzato e ciò che non lo è: questo si riflette nell'evoluzione del personaggio di Enkidu, uomo selvaggio inviato sulla terra dagli dei per mettere alla prova Gilgamesh. Scrive Wolff:

Enkidu... is born on the steppe and is something of a genius of the animals... Enkidu has no family, no ancestry or background of any kind, no home. Gilgamesh is his opposite: he is a king, son of the goddess Ninsun and a priest of his city... Here, therefore, we have a parallel case of animal-man and man-god existing side by side.106 Enkidu vive inizialmente con le bestie selvagge, comportandosi come uno di loro107, ma man mano che si avvicina alla città, egli assume un comportamento sempre più civilizzato: iniziato alla civiltà

102Pettinato, Giovanni, Dal Mare alla Montagna dei Cedri – Il poema sumerico di Enmerkar ed Ensuhgiranna, Torino: UTET, 2006, p. 62.

103Considerato uno dei sovrani di Sumer, avrebbe regnato per 126 anni sulla città di Uruk, secondo le informazioni ricavabili dalla Lista Reale Sumerica. Cfr. Jacobsen, Thorkild, (a cura di), The Sumerian King List, Chicago: University of Chicago, 1939.

104Pettinato, La Saga di Gilgamesh, p. 123.

105Per questi motivi, le mura sono un elemento molto importante nelle città antiche, e la loro importanza si riflette in alcuni celebri episodi letterari. Sul ruolo delle mura in alcuni episodi dell'Iliade e della mitologia norrena: Fontenrose, Joseph, "The Building of the City Walls: Troy and Asgard", The Journal of American Folklore, 96 (1983), pp. 53-63.

106Wolff, Hope Nash, "Gilgamesh, Enkidu and the Heroic Life", Journal of the American Oriental Society, 89 (1962), p. 394.

attraverso il rito del sesso consumato con la prostituta sacra Shamkat, inviatagli da Gilgamesh (rito in seguito al quale egli viene rifiutato dalle bestie con le quali aveva condiviso la prima parte della sua esistenza)108, Enkidu viene convinto proprio da Shamkat a recarsi ad Uruk, per sfidare il sovrano. Attraverso questo escamotage, Enkidu viene portato all'interno della sfera civilizzata: allontanato dalla selva, egli perde la propria selvatichezza e, dopo lo scontro con Gilgamesh, diviene il suo più fedele amico109. Gilgamesh compie quindi la prima delle sue missioni civilizzatrici, portando alla civiltà il suo antagonista: le mura, confine tra il civile e il selvatico, fungono da vero e proprio limite da valicare per dare compimento a tale trasformazione; come sintetizza perfettamente Harrison:

Le mura, non meno della scrittura, delimitano la civiltà. Esse sono la testimonianza concreta della resistenza contro il tempo... Le mura proteggono, dividono, separano; soprattutto, isolano.110

Una volta ottenuto l'appoggio di Enkidu, Gilgamesh decide di partire per un'altra avventura, verso la Foresta dei Cedri: questa sua decisione è legata soprattutto alla volontà di rendersi immortale nella memoria dei suoi discendenti. La missione che Gilgamesh si prefigge di portare a termine non è altro che un'opera di disboscamento, come scrive Harrison:

È possibile comprendere la “grandezza” di questa impresa soltanto in un contesto storico. Sappiamo dai documenti scritti che alcuni Sumeri raggiunsero notevole fama intraprendendo viaggi alla volta delle foreste di cedri e raccogliendo ingenti quantità di legname. Questo era un bene prezioso per i Sumeri, perché le pianure alluvionali della Mesopotamia erano a quell'epoca spoglie di foreste... Erano imprese precarie e gravide di pericoli... ma un capo poteva conquistare una notevole fama se la spedizione riusciva.111

Il viaggio di Gilgamesh verso la Foresta dei Cedri è dunque la trasposizione letteraria di una spedizione per la raccolta di legname: la grandezza del sovrano è data anche dalla capacità di fornire i materiali costruttivi alla propria città. Per portare a termine la propria missione, l'eroe e l'amico Enkidu devono avventurarsi al di là delle mura, in luoghi selvaggi ed irti di pericoli in quanto non ancora civilizzati. Il viaggio dei due protagonisti è scandito da una serie di sogni premonitori, che sono riportati seguendo un formulario fisso; come nota Pettinato:

Che i sogni del re di Uruk facciano parte di un rituale propiziatorio si può evincere facilmente dalle cerimonie 108Pettinato, La Saga di Gilgamesh, p. 133.

109Pettinato, La Saga di Gilgamesh, p. 140. 110Harrison, p. 30.

eseguite dai due eroi... Solo dopo aver eseguito questi riti, Gilgamesh può darsi al sonno.112

La missione di raccolta del legname diventa quasi una cerimonia sacra: per cinque volte Gilgamesh riporta i propri sogni ad Enkidu, che li interpreta rovesciandone l'apparente negatività; in seguito al quinto sogno, Gilgamesh riesce ad ottenere il favore del dio-sole Shamash, il quale gli rivela come sconfiggere Khubaba, il mostro posto a custodia della foresta:

Fai presto! Affrontalo, in modo che non entri nella Foresta, non lo far nascondere tra gli alberi, non concedergli tregua, Khubaba non ha indosso i sette vestiti; egli ne indossa soltanto uno, gli altri sei sono stati strappati, questi gli sono stati tolti.113

Shamash legittima l'impresa di Gilgamesh, riconoscendone il valore e indicandogli come portarla a termine; dall'altra parte, il mostro Khubaba è la personificazione della natura selvaggia, in maniera ancor più netta dell'Enkidu pre-civilizzato: posto a tutela della Foresta dei Cedri, egli è dotato di poteri sovrannaturali che lo pongono al livello di una divinità114. Quando Gilgamesh ed Enkidu giungono alla foresta, essa viene descritta con magnificenza:

Essi stavano ai margini della Foresta, osservavano meravigliati l'altezza dei cedri; erano come estasiati all'entrata del bosco, dove Khubaba andando e venendo provoca terremoti... essi guardarono la montagna dei cedri, il luogo dove dimorano gli dei, il santuario di Irnini; i cedri si alzavano maestosi e lussureggianti sulla montagna, la loro ombra era gradevole, dava felicità a chi vi entrava.115

La Foresta dei Cedri viene descritta come paesaggio paradisiaco: lo stesso Khubaba è libero di provocare terremoti apparentemente senza causare danni a un ambiente che è caro agli dei, dove addirittura sorge un santuario. Quella che Gilgamesh si accinge ad abbattere è una foresta sovrannaturale, ma la legittimazione datagli da Shamash è sufficiente a garantire la riuscita della sua impresa. Così i due eroi cominciano ad abbattere gli alberi di cedro che popolano la foresta, al punto da indispettire Khubaba: la modalità con la quale Gilgamesh ed Enkidu abbattono i tronchi suggerisce un vero e proprio scontro in battaglia, con l'utilizzo di spade e pugnali116. L'abbattimento della Foresta dei Cedri diviene quasi una metafora di guerra, come evidenziato da Harrison

112Pettinato, La Saga di Gilgamesh, p. 25. 113Pettinato, La Saga di Gilgamesh, pp. 159-160.

114"Nella tradizione posteriore è una divinità malefica contro cui vengono recitati scongiuri": Silvia Maria Chiodi, "Indice dei nomi", in Pettinato, La Saga di Gilgamesh, p.424.

115Pettinato, La Saga di Gilgamesh, p. 162.

116Pettinato, La Saga di Gilgamesh, p. 163. La versione Ninivita, che contiene gran parte dell'Epopea Classica, è fortemente lacunosa in questo passaggio, ma un'integrazione con la versione da Uruk ne permette una completa comprensione.

nell'analisi comparativa tra il passaggio che vede Gilgamesh scrutare oltre le mura della città (riportato nella versione del Poema Sumerico117), e quello in cui la Foresta comincia ad essere disboscata (riportato, seppur con alcune differenze, in entrambe le versioni):

Gilgamesh guarda, dunque, e vede lugubri parate di corpi umani trasportati dalla corrente; questo gli ispira l'idea della spedizione nella foresta... Disgustato dallo spettacolo della finitudine, Gilgamesh ha una visione: andrà nelle foreste, farà sì che gli alberi condividano il destino di quelli che vivono all'interno delle mura. I tronchi diventeranno i cadaveri.118

La spedizione nella Foresta dei Cedri ha come ultimo atto l'uccisione di Khubaba: messi in atto i consigli di Shamash, e dopo aver resistito alle lusinghiere suppliche del mostro, egli viene sconfitto e decapitato da Enkidu (nel Poema Sumerico119, mentre nell'Epopea Classica il passaggio è andato perduto). La decapitazione di Khubaba, quasi un deicidio, diventa metafora dell'abbattimento dei cedri: il custode della natura selvaggia viene ucciso dai portatori di civiltà, e le ricchezze della Foresta dei Cedri vengono depredate per aumentare il prestigio della città di Uruk; è lo stesso Enkidu, ormai completamente dimentico della sua natura selvaggia, a dichiarare il proprio intento, in qualche maniera sacrilego:

Enkidu fece sentire la sua voce, e così parlò a Gilgamesh: “Amico mio, è stato abbattuto il meraviglioso cedro, la cui corona bucava il cielo. Io voglio fare con esso una porta la cui altezza sia sei volte dodici spanne, la cui larghezza due volte dodici spanne.”120

Enkidu ha quindi interiorizzato integralmente l'intento civilizzatore di Gilgamesh: le risorse della foresta verranno utilizzate per aumentare il prestigio della città, nonché per rendere immortale il nome di Gilgamesh e di Enkidu. Ma questo gesto porterà esiti funesti per i due eroi:

L'uccisione di Humbaba (variante di Khubaba, ndr.) irrita gli dei... In alcune versioni della storia, l'amico prediletto di Gilgamesh, Enkidu, deve pagare con la vita il crimine dell'uccisione di Humbaba. Alla morte dell'amico, Gilgamesh cade in uno stato di profonda malinconia, tormentato da pensieri funesti. La fama e i monumenti commemorativi non lo consolano più del fatto che dovrà morire. Questo è il motivo per cui Gilgamesh compie un altro viaggio, questa volta alla ricerca della vita eterna. Ma la lunga e disperata ricerca della propria immortalità lo conduce solo a rendersi conto che la morte è condizione ineluttabile e non negoziabile della vita121.

L'esito finale della missione civilizzatrice appare ad una prima analisi negativo: se attraverso il viaggio nella Foresta dei Cedri Gilgamesh voleva rendersi immortale, portando la civiltà nel regno

117Pettinato, La Saga di Gilgamesh, p. 312. 118Harrison, p. 33.

119Pettinato, La Saga di Gilgamesh, p. 322. 120Pettinato, La Saga di Gilgamesh, p. 169. 121Harrison, p. 34.

del selvaggio, egli deve infine fare i conti con la propria ineluttabile mortalità, che lo rende impotente e lo riporta al proprio stato primario di essere vivente, quindi molto più vicino alla legge della natura che a quella degli dei. Ma è proprio questa sua sconfitta a renderlo immortale, grazie alla scrittura: le sue gesta, trasposte nell'epica sumero-babilonese, renderanno eterno il suo nome. L'epica si basa sugli eroi sconfitti, molto più che sugli eroi vincitori: il mancato raggiungimento dello stato divino di immortalità da parte di Gilgamesh lo rende archetipo umano, modello sul quale costruire l'identità di un intero popolo, quello babilonese.

L'Epopea di Gilgamesh, come detto precedentemente, costituisce un archetipo culturale dal quale necessariamente partire per l'analisi dell'evoluzione di un topos nella letteratura classica. Altrettanto fondamentale ritengo possa essere l'analisi del mito di Romolo e Remo: la cultura romana, grazie all'espansione geografica dell'Impero, si pone alla base dello sviluppo di tutte le letterature europee (e non solo, se consideriamo il dominio romano nel nord dell'Africa e nell'Asia Minore). L'eccezionale diffusione della cultura romana pone il suo mito principe, quello della fondazione, come modello da studiare, e in taluni casi da imitare: la sua influenza e le sue reinterpretazioni sono riscontrabili in molti nuclei letterari e culturali europei, anche nel ciclo arturiano. Nel mito fondativo di Roma, tramandato in molte versioni nella letteratura latina, la città eterna pone le sue radici nelle selve che circondano il luogo nel quale Romolo traccia il pomerium, selve dalle quali provengono i primi abitanti della città. Abbiamo già analizzato nel capitolo precedente l'origine dei gemelli Romolo e Remo, e la loro discendenza da Silvio: qui è opportuno concentrarci sull'atto di fondazione di Roma, città che sorge tra i boschi del colle Palatino. Secondo la versione del mito riportata da Tito Livio, dopo aver ucciso Amulio ed aver affidato il governo di Alba a Numitore, Romolo e Remo decidono di fondare una nuova città nei luoghi in cui sono cresciuti:

Ita Numitori Albana re permissa Romulum Remumque cupido cepit in iis locis ubi exposti ubique educati erans ubique condendae.122

122Tito Livio, Ab Urbe Condita, I, 6, 3, p. 129. "Affidato così a Numitore il governo di Alba, Romolo e Remo furono presi dal desiderio di fondare una città in quei luoghi dove erano stati esposti e cresciuti.

Tra i due gemelli nasce però un contenzioso sul nome da dare alla città: Romolo occupa quindi il colle Palatino, mentre Remo occupa l'Aventino. Entrambi ricevono auspici favorevoli e vengono proclamati re dai propri seguaci, ma questo scatena una rissa tra le due fazioni:

Inde cum altercatione congressi certamine irarum ad caedem vertuntur; ibi in turba ictus Remus cecidit. Vulgatior fama est ludibrio fratris Remum novos transiluisse muros; inde ab irato Romulo, cum verbis quoque increpitans adiecisset “Sic deinde, quicumque alius transiliet moenia mea”, interfectum.123

Il confine tra la neonata città e i territori al di là dei suoi limiti viene subito segnato col sangue del fratello del fondatore Romolo: il luogo in cui la città viene fondata è la selva in cui i due sono cresciuti, ma la nascita della città di Roma ha come snodo fondamentale l'uccisione di Remo, cioè la negazione della naturale condizione di armonia fraterna124. La violazione del confine, del

pomerium segnato da Romolo, è una minaccia all'integrità della città di Roma, la quale si configura

da subito come un rifugio; Harrison scrive:

La concezione di Roma come rifugio è pervasa da un'ironia paradossale. Durante la loro infanzia, Romolo e Remo avevano trovato rifugio nelle foreste del Lazio, ma quando Romolo fonda la sua città “dove egli stesso era stato allevato”, egli crea un rifugio in una radura. Coloro che vi entravano, trovavano in esso un'alternativa alla foresta, che divenne una frontiera, o un limite, rispetto al quale veniva definito lo spazio civile, strettamente istituzionale.125

All'interno della selva in cui è cresciuto, e nella quale ha trovato rifugio dal re di Alba Longa, Amulio, che ne aveva ordinato la morte ancora in fasce126, Romolo si sente quindi in dovere di creare un ulteriore rifugio, piantando un seme di civilizzazione all'interno della selvatichezza. La città di Roma nasce in contrapposizione alla natura, e rispetto alla naturalità quasi bestiale nella quale sono cresciuti i figli di Rea Silvia: la civiltà richiede un sacrificio fratricida a Romolo, il quale non esita a versare il sangue del fratello per far rispettare i confini della città. E non a caso Harrison nota che:

Il dio dei sacri confini nella religione romana era Silvano, la divinità della natura selvaggia al di fuori delle città... Storicamente i confini naturali della res publica romana erano costituiti dai margini delle foreste

123Tito Livio, Ab Urbe Condita, I, 7, 2-3, p. 131. "Scoppiata quindi una rissa, nel calore dell'ira si volsero al sangue, e colpito in mezzo alla folla Remo cadde. È versione più diffusa che in segno di scherno verso il fratello Remo abbia varcato d'un salto le recenti mura, e sia poi stato ucciso da Romolo irato, il quale avrebbe aggiunto queste parole di monito: "Questa sorte avrà chiunque altro oltrepasserà le mie mura".

124Per una trattazione più estesa e particolareggiata del cosiddetto "mito di Remo": Wiseman, Timothy Peter, Remus: A

Roman Myth, Cambridge: Cambridge University Press, 1995.

125Harrison, p. 65.

selvagge, che nell'antico diritto romano avevano lo status di res nullius.127

Remo che scavalca le neonate mura di Roma prova quindi ad entrare nella città provenendo dall'esterno, dalla selva, e pur essendo consanguineo di Romolo, quest'ultimo non esita ad ucciderlo per proteggere l'integrità della città. Con il progressivo accrescimento della potenza di Roma, Romolo estende il confine della città, inglobando ulteriori porzioni di territorio selvaggio:

Deinde, ne vana urbis magnitudo esset, adiciendae multitudinis causa vetere consilio condentium urbes, qui obscuram atque humilem conciendo ad se multitudinem natam e terra sibi prolem ementiebantur, locum, qui nunc saeptus escendentibus inter duos lucos est, asylum aperit. Eo ex finitimis populis turba omnis, sine discrimine liber an servus esset, avida novarum rerum perfugit, idque primum ad coeptam magnitudinem