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Il ruolo di San Michele nella storia degli uvaggi trentin

Nel documento Annuario 2017/2018 (pagine 108-111)

(che compiono 60 anni)

FRANCESCO SPAGNOLLI già Dirigente scolastico

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CANTUCCIO CORSO ENOTECNICO (EX 6S)

mondiale), fino a concretizzarla nel riconoscimento delle D.O.C. (1971) “Teroldego Rotaliano” e “Trentino” che riportavano in etichetta espliciti riferimenti varietali.

Torniamo un po’ indietro nel tempo: nel 1946, gli ex allievi di S. Michele si costituirono in un sodalizio (UDIAS) che si dimostrò ben presto in grado di influenzare (ed a volte anche di in- dirizzare) le scelte politiche e strate- giche che andava a fare l’agricoltura trentina, in particolar modo nel set- tore vitivinicolo, ivi comprese quelle inerenti agli accadimenti che coinvol- gevano la “casa madre”.

Per S. Michele, il 1958 fu un vero e proprio “anno di rivoluzione”, più o meno della stessa portata di quella che, in altri tempi ed un po’ in tutta Europa, si era realizzata ben cento- dieci anni prima. Infatti, già nel 1957, Bruno Kessler, allora assessore alle fi- nanze ed in seguito presidente della giunta provinciale, era stato nomina- to alla presidenza dell’Istituto Agrario; fu proprio lui, quindi, ad accogliere la richiesta proveniente da più parti (compresa l’UDIAS) di “innalzare” il li- vello dell’offerta formativa proposta da S. Michele, chiedendo al Ministero della pubblica istruzione la possibili- tà di attivare un Istituto Tecnico Agra- rio legalmente riconosciuto (poi con specializzazione in viticoltura ed eno- logia) in sostituzione dell’ormai supe- rata Scuola Tecnica Agraria: pur con qualche difficoltà (il Ministero, infatti, aveva già nel cassetto il progetto di un ITAS), la richiesta venne accolta ed il percorso di studi poté essere atti- vato già a partire dall’anno scolastico 1958-59. Fu così che nell’ottobre del 1958 a dirigere il nuovo plesso sco- lastico ed in qualità di Preside, venne chiamato il prof. Giovanni Manzoni, ordinario di viticoltura ed enologia presso l’ITAS di Conegliano (di cui, tra l’altro, il padre Luigi era Preside). A Franco De Francesco, invece, re- sponsabile della sezione chimica del Laboratorio provinciale di igiene e profilassi, venne affidato (sempre dal- lo stesso Kessler) l’incarico di dirigere (e ristrutturare) il Laboratorio chimico di analisi e ricerca, appena staccato

dalla Stazione sperimentale agraria e forestale che rimaneva invece di com- petenza regionale.

Per completare il quadro della rivo- luzione, e nel “salotto” dell’Istituto, cioè la cantina, come scherzosamen- te amava definirla l’allora neo-presi- dente Kessler, al pensionando Onorio Dalpiaz venne preposto come eno- logo (ma allora il titolo non esisteva ancora) quel Riccardo Zanetti (Bru- no per gli amici) che, oltre ad essere ex allievo, poteva vantare anche le credenziali di recenti ed importanti esperienze vitivinicole in quel di Gei- senheim (Germania).

A questa “ventata” di cambiamenti e soprattutto ai fini della nostra storia, bisogna aggiungere ancora un parti- colare: nel 1957 l’UDIAS organizzò un viaggio di aggiornamento nella zona di Bordeaux (sud-ovest della Francia) ed allo stesso partecipò anche Zanetti che, come del resto successe ad al- tri tecnici vitivinicoli trentini, si lasciò ammaliare dal fascino, poi non tanto recondito, degli uvaggi bordolesi. Fu così che il “cantiniere” (nel senso più elogiativo del termine) Zanetti, il “filosofo” (per via delle conoscenze enoiche proprie e paterne), Manzo- ni, ed il grande chimico-scienziato De Francesco, non poterono fare a meno di incontrarsi proprio nel “salotto”

Un importante uvaggio di impronta bordolese: il Castel S. Michele

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(dove il Presidente si esercitava, di tanto in tanto e sul suo tavolo perso- nale, in qualche partitella alla “morra”) per buttar lì l’idea di far nascere quel- lo che poi sarebbe diventato il famoso uvaggio “Castel S .Michele”.

Per la verità, la storia, poi dettaglia- tamente raccontata dallo stesso De Francesco in una dotta relazione dal titolo Dieci anni di esperienze dell’u-

vaggio Cabernet-Merlot presentata in

occasione degli incontri-dibattito sui vini trentini organizzati dalla Camera di Commercio di Trento nel 1974, pre- cisava che il primo esperimento non fu proprio un uvaggio, bensì un taglio (quindi un assemblaggio di vini già fat- ti) tra un Cabernet della vendemmia 1954 (già imbottigliato) ed un Merlot (ancora in botte) del 1957; l’indagine sperimentale venne così impostata:

CABERNET ’54 MERLOT ’57 10% 90% 20% 80% 30% 70% 40% 60% 50% 50%

Lo stesso De Francesco ricorda che “il taglio non era così facile perché aprire bottiglie di una certa anziani- tà, poteva significare alterare il vino più vecchio per ossidazione…”. Tut- tavia gli “esperti” concordarono sul fatto che la prova 30% Cabernet e 70% Merlot presentava “eccezionali caratteri di profumo, morbidità e ro- bustezza”.

Nella vendemmia del 1958, non certo ottima per l’aspetto qualitativo, non si tentò nemmeno di preparare un uvaggio; però scegliendo una piccola quantità del miglior Cabernet e del meglio Merlot, fu fatto un taglio a fine fermentazione con il quale vennero preparati 200 litri di vino posti ad in- vecchiare in due botti di rovere della capacità di 100 litri ciascuna.

I risultati compositivi (De Francesco badava soprattutto a quelli) e degu- stativi (se ne occupavano invece Man- zoni e Zanetti) si dimostrarono ben presto più che incoraggianti, per cui già con la successiva vendemmia del 1959 si decise di partire con dimen-

sioni volumiche decisamente superio- ri, affidando, qualche anno dopo al- lorché il prestigioso vino si dimostrò pronto per la commercializzazione, la predisposizione di un’originale eti- chetta al neo-assunto prof. Franco Giupponi il quale con quell’immagine seppe perfettamente coniugare uno “chateau” bordolese con un antico monastero da secoli esistente in quel di S. Michele.

Il successo fu a dir poco “esplosivo” e sulla scia del “Castel” apparvero ben presto il “Trento” di Bonvecchio, il Fojaneghe dei Fedrigotti (ma fatto dal quel Leonello Letrari che da ex allievo aveva partecipato al già citato viaggio UDIAS nel Bordolese), poi il S. Leonar- do (complice oltre al Marchese anche l’enologo Cavagna) e tanti altri che rappresentarono (e per certi aspetti sono ancora tali) il “fiore all’occhiello della vitienologia trentina”.

Ma se da un lato gli uvaggi erano esaltati ed omaggiati, dall’altro ave- vano i loro quanto mai accaniti op- positori, tant’è vero che furono com- pletamente ignorati dal disciplinare di produzione della DOC Trentino (1971) e ci volle del tempo perché potessero fregiarsi del pregiato ri- conoscimento legislativo in sostitu- zione della poco esaltante dicitura “vino da tavola”.

Concludo con un aneddoto persona- le: di sicuro pochi lo ricordano oltre al sottoscritto, ma uno “zampino” nella storia tecnologica del Castel S. Michele ce l’ho messo anch’io: era l’autunno del 1976 ed insegnavo Vi- ticoltura al Professionale, quando il preside Manzoni mi chiamò nel suo studio-ufficio (che, tra l’altro, dopo diversi anni sarebbe diventato il mio) per affidarmi l’incarico di effettuare una prova di “governo” sul prestigio- so uvaggio bordolese dell’Istituto. Ero molto in sintonia con Zanetti e quindi fu semplice concordare il programma delle diverse prove. I risultati tuttavia, (forse anche per l’annata tutt’altro che favorevole) non furono entu- siasmanti per cui si decise di lasciar perdere e di proseguire invece sulla ormai consolidata strada dell’uvaggio tradizionale.

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CANTUCCIO CORSO ENOTECNICO (EX 6S) Visita dei vigneti nello Chablis (Francia)

Le dissetanti avventure attraverso

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