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CSR E SRI: I VANTAGGI DELLA SOSTENIBILITA’ PER LE IMPRESE (E IL PROBLEMA DEL COD)

3.1 Share Value Theory: nuova frontiera della CSR?

Al fine di garantire quell’esposizione sistematica e unitaria testé affermata – sebbene col rischio di risultare ridondante – è necessario iniziare il discorso riprendendo quanto affermato nel Ca- pitolo 1 sul concetto di azienda.

In tale sede è emerso che Zappa la qualifica come istituto economico destinato a perdurare, cioè un organismo teoricamente privo di una precisa durata che nel corso del suo ciclo di vita persegue un preciso fine qual è – nel caso delle imprese e almeno nella sua accezione general- mente accettata244 – la produzione e/o scambio di beni e/o servizi per ottenere un profitto. Ciò significa che lo scopo dell’attività d’impresa è generare valore per ripartirlo poi tra chi ha contribuito alla sua creazione, siano essi fornitori di capitale di rischio, debito, umano o materie prime (nella sua accezione comune); tuttavia, questo è possibile solamente in presenza di un’adeguata organizzazione diretta in modo strategico da parte del management. Perché? Perché le imprese operano all’interno di un c.d. scenario competitivo che è basato sul concetto di “cambiamento”; pertanto se un’impresa vuole “reggere” alle pressioni competitive a cui è esposta, allora il suo management deve predisporre un’azione organizzata (rispetto al contesto ambientale) per il perseguimento degli obiettivi istituzionali, specifici o strumentali. Che cosa significa tutto ciò?

Che è necessaria la predisposizione di una strategia, concetto chiave nel rapporto tra attività d’impresa e Corporate Social Responsibility.

Lo scopo primario di una strategia è la conservazione, nonché lo sviluppo della capacità com- petitiva d’impresa, poiché sebbene gli obiettivi possano cambiare nel corso del tempo (sia in termini assoluti che di gerarchia), la competitività resta comunque la condizione di base per il perseguimento della finalità di lungo termine qual è la generazione di valore (Mottura, 2011).245

244 Si ricorda che l’attività d’impresa ex art. 2082 c.c. non sancisce la finalità lucrativa, ma bensì si limita a richie-

derne l’esercizio secondo economicità (quindi anche le associazioni possono essere imprese); tale finalità (c.d. lucro oggettivo al quale può poi aggiungersi il soggettivo) è invece prevista le società, le quali altresì possono avere finalità mutualistica o consortile.

Inoltre, ciò ha un contestuale significato implicito: le strategie – data la necessaria interazione con altri soggetti per lo svolgimento dell’attività d’impresa – devono essere concepite in modo da risultare sostenibili non solo in termini economico-finanziari, ma anche ESG, poiché i sog- getti con i quali l’impresa entra in contatto vanno in realtà oltre il c.d. scenario competitivo rappresentato dal modello delle cinque forze di Porter; ciò poi non è riconosciuto solamente a livello di teoria manageriale, ma anche istituzionale visto che la stessa Commissione Europea ha riconosciuto la significatività d’impatto dell’attività delle imprese sulla vita dei cittadini eu- ropei – e nel mondo – non solo in termini di lavoro, prodotti e servizi, ma bensì anche ambien- tali, sociali (condizioni di lavoro, educazione diritti umani, salute) e di innovazione, ove tutto ciò è interpretabile in termini di esternalità.

Invero tale riconoscimento riconduce proprio alla CSR visto che la definizione del 2011 (Capi- tolo 1) la qualifica come la responsabilità di un’impresa per il suo impatto sulla società, di cui essa ha coscienza solamente con l’adozione di un processo di integrazione delle tematiche ESG a livello strategico, dando così valenza normativa a un legame tra i temi246 che è stato poi suc- cessivamente confermato anche dalle indagini di KPMG.247

Sulla base di ciò è ora possibile concludere tale discorso “teorico-concettuale” riportando il fatto che questo approccio strategico alla Corporate Social Responsibility fu chiaramente esa- minato da Porter e Kramer nell’articolo “Strategy & Society: The Link between Competitive Advantage and Corporate Social Responsibility” (2006),248 in cui gli autori – pur riconoscendo l’impegno profuso dalle imprese per migliorare il loro impatto ambientale e sociale – hanno evidenziato come si sia comunque rivelato meno produttivo rispetto alle previsioni poiché:  contrappongono business e società, quando esse sono in realtà chiaramente interconnesse;  l’approccio adottato è figlio di una visione distante da quella necessariamente strategica; con l’estrema conseguenza di vedere la CSR come una sorta di costo, costrizione249 o gesto

caritatevole inserito all’interno di un gioco a somma zero.

Tale concezione troverebbe poi ulteriore sostegno nelle stesse motivazioni presentate dai suoi stessi sostenitori, visto che loro affermano come ragioni per le quali un’impresa dottare politi- che di Corporate Social Responsibility per:

246 Ivi inclusa la relazione tra SRI e CSR, cioè l’impatto del sistema finanziario su quello produttivo nel condizio-

nare le sue scelte strategico-operative attraverso le decisioni degli investitori, le quali sono a loro volta dipendenti dalla loro scala valoriale.

247 Col The KPMG Survey of Corporate Responsibility Reporting 2013 (indagine condotta tra le c.d. N100, cioè le

prime 100 grandi imprese di un Paese che in tal caso erano quelle di 41 Stati) è emerso come le imprese qualifichino l’oggetto in esame utilizzando una non irrilevante varietà di espressioni e sigle che vanno da “rapporto di sosteni- bilità”, a “CSR”, “corporate responsibility” e “sviluppo sostenibile”.

Fonte: KPMG International (2013), The KPMG Survey of Corporate Responsibility Reporting 2013, , p. 5.

248 La fonte di riferimento è: Porter, M.E. e M.R. Kramer (2007), “Strategia e società – Il punto di incontro tra il

vantaggio competitivo e la Corporate Social Responsibility”, Harvard Business Review Italia, speciale luglio 2007, 5-22; l’articolo supra citato è la versione originaria in inglese che si può trovare nel numero di dicembre 2006 dell’Harvard Business Review.

249 Porter e Kramer affermano che molte imprese hanno iniziato ad attivarsi in termini di CSR solo a seguito della

reazione dell’opinione pubblica per questioni che mai in precedenza avevano immaginato rientrare nelle loro

 obbligo morale: le imprese devono essere dei buoni cittadini e “fare le cose giuste”;  licenza a operare: lo svolgimento dell’attività d’impresa è condizionata all’ottenimento di

un permesso (implicito o meno) dal governo, dalla comunità locale e/o altri stakeholders. Ciò è più pragmatico perché consente di individuare le questioni sociali più rilevanti, ma al contempo cede il controllo sulle iniziative in materia di CSR ad attori esterni, cioè a soggetti che non hanno un’esatta e precisa comprensione delle caratteristiche della stessa;

 reputazione;

 sostenibilità: la cui definizione però spazia dalla TBL, a temi che si traducono in una va- ghezza tale da far perdere qualunque senso allo stesso.

Tuttavia una tale serie di motivazioni non solo rischiano di essere tautologiche, ma altresì si focalizzano sulla tensione business-società, invece che sull’interdipendenza, con il risultato fi- nale di avere delle giustificazioni teoriche non connesse con la strategia e che quindi non danno un aiuto concreto ad identificare e classificare le priorità sociali, generando così un’accozzaglia di attività scoordinate che non hanno alcun impatto significativo sulla società, né rafforzano la competitività di lungo termine dell’impresa (pp. 10-11).

Una siffatta conclusione è alquanto rilevante a mio avviso, poiché se la si cala nel contesto della ricerca empirica sugli effetti della CSR, allora è logico affermare che una tale distorta conce- zione della teoria in esame possa spiegare perché molti degli studi effettuati in quegli anni (al di là delle eventuali questioni metodologiche) abbia dato esiti negativi, quando la CSR è invece fonte potenziale non solo di progresso sociale, ma anche di opportunità, di innovazione e di vantaggio competitivo.

Tale affermazione trova poi supporto a livello empirico (vedasi infra) e gli autori, giungono ad affermare la necessità di diffondere – per il progresso della CSR – una corretta conoscenza del rapporto tra impresa e società, con una contestuale integrazione di ciò nell’attività strategico- operative delle imprese, dichiarando infine che le decisioni di business e le politiche sociali debbano seguire entrambe il principio del shared value, il quale sarà però formalizzato da Por- ter e Kramer solamente 5 anni più tardi nell’articolo Creating Shared Value – How to reinvent capitalism—and unleash a wave of innovation and growth.

3.1.1L

A

S

HARE

V

ALUE

T

HEORY

Porter e Kramer qualificano il shared value come l’insieme delle politiche e delle pratiche operative che rafforzano la competitività di un’azienda migliorando nello stesso tempo le con- dizioni economiche e sociali delle comunità in cui opera.250

Esso rappresenta dunque il fondamento sia del progresso economico che sociale, poiché a detta degli autori noi siamo attualmente in un contesto ove il valore è visto come:

250 Porter, M.E. e M.R. Kramer (2011), “Creare valore condiviso – Come reinventare il capitalismo – e scatenare

 il mero profitto (imprese);

 il successo ottenuto in termini di benefici o denaro speso (ONG e Stato);

ergo una visione distorta ed esclusivamente incentrata sui benefici, quando in realtà il valore trova definizione su quest’ultimi in relazione ai costi sostenuti.

Ma su cosa si fonda lo shared value? Come lo si genera? Qual è il rapporto con la CSR?