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Lo stato di crisi.

CARATTERISTICHE E FINALITA’ DEGLI ACCORDI DI RISTRUTTURAZIONE

2.6. Lo stato di crisi.

La composizione negoziale dell’insolvenza, già nota alla prassi attraverso l’utilizzo dei concordati stragiudiziali, ha trovato dunque il suo punto di emersione e di autonoma disciplina normativa all’art. 182 bis. l. fall. rubricato “Accordi di ristrutturazione dei debiti”. Con questo nuovo istituto si consente ai privati di intervenire nella gestione della crisi, modificando i rapporti obbligatori con un atto di autonomia contrattuale, al quale possono partecipare anche soggetti terzi (non creditori) ad esempio erogando nuova finanza o effettuando operazioni di acquisto collegate all’accordo e funzionali alla sua esecuzione.

E’ stato efficacemente evidenziato che la circostanza per cui l’impresa insolvente e non tutti i suoi creditori, ma una parte di essi vengono autorizzati e quasi incoraggiati dall’ordinamento a porre in essere delle attività negoziali con l’imprenditore insolvente, pare smentire un dogma che sembrava cristallizzato nella legislazione anteriore: quello della indisponibilità dell’insolvenza67.

In tale prospettiva dunque, l’accordo di ristrutturazione è in grado di trasformare una situazione finanziaria che sarebbe da qualificare come insolvenza, ripristinando la solvibilità dell’impresa.

L’istituto degli accordi di ristrutturazione è riservato infatti all’imprenditore in stato di crisi e per tale si intende, ai sensi dell’ultimo comma del novellato articolo 160 l. fall. anche lo stato di insolvenza. Anche per tale ragione l’espressione”Diritto della crisi d’impresa” riflette un diverso modo di concepire l’impianto della legge fallimentare riformata.

La disciplina positiva non offre nessuna definizione normativa dello stato di crisi, sarebbe stata invece auspicabile una individuazione normativa della soglia minima di crisi, al fine superare una situazione di inevitabile incertezza, che potrebbe spesso non consentire all’imprenditore di cogliere la reale situazione in cui versa l’impresa, e soprattutto non rendere percepibile quella linea di confine che separa lo stato di crisi reversibile dall’insolvenza vera e propria.

67 Cfr. L. ROVELLI, Il ruolo del trust, nella composizione negoziale dell’insolvenza di cui all’art. 182 bis. l. fall., in, Il Fall., n. 5/2007, p. 595: <<Quest’ultima acquisterebbe così il carattere della <<relatività>>, diventando un concetto “relazionale”, da rapportarsi al comportamento dei creditori, sottraendo così l’insolvenza ad un <<rigoroso statuto di indisponibilità per riconsegnarla, in larga misura alla sfera dell’autonomia privata>>

La nozione di stato di crisi è ancor più difficilmente definibile e verificabile dall’esterno, proprio perchè suscettibile di valutazioni discrezionali da parte dell’imprenditore68.

In mancanza di una definizione normativa dello stato di crisi occorre far riferimento ai criteri elaborati dalla scienza aziendalistica, la quale nell’individuare le ragioni della crisi d’impresa, 69 distingue tra fattori interni i e fattori esterni della stessa.

Tra i primi si possono annoverare la scarsa efficienza del controllo finanziario interno, l’inadeguatezza del management, una organizzazione amministrativa carente, l’acquisizione di partecipazioni in altre imprese non sufficientemente redditizie, ecc. si tratterebbe comunque di fattori in buona parte controllabili e dunque modificabili da parte dell’imprenditore.

Vengono invece ricompresi tra i fattori esterni gli eccessivi e improvvisi aumenti dei prezzi delle materie prime o semilavorate, le invenzioni tecnologiche , la localizzazione di imprese concorrenti in paesi con un minor costo del lavoro, l’insufficienza delle infrastrutture del paese ospitante, il cambiamento della domanda ecc., cioè di fattori che almeno in parte sfuggono al dominio dell’imprenditore.

La distinzione appena evidenziata è rilevante perché dimostra come in taluni casi per giungere alla ristrutturazione di una impresa in crisi, potrebbe non essere sufficiente un cambiamento dell’assetto organizzativo interno alla stessa, rendendosi al contempo necessario un cambiamento di elementi esterni.

Con riferimento alle cause della crisi d’impresa si suole distinguere invece tra: “crisi da inefficienza”, conseguente ad un minor rendimento di uno o più settori produttivi rispetto alla media dei concorrenti; “crisi da rigidità” derivante dalla mancanza di flessibilità nell’organizzazione aziendale e nell’azione imprenditoriale; “crisi da decadimento dei prodotti” ; “crisi da carenza di programmazione e innovazione”.

Sotto il profilo invece degli effetti prodotti dalla crisi, si suole distinguere tra: “crisi finanziaria”, che si traduce in uno squilibrio finanziario, ovvero nell’incapacità dell’imprenditore di procurarsi mezzi finanziari idonei a soddisfare le esigenze dell’impresa anche nell’ambito di una gestione economicamente equilibrata; “crisi economica”, che determina invece uno squilibrio economico, dovuto all’incapacità di mantenere un adeguato livello reddituale, a causa degli alti costi di produzione o alla diminuzione della domanda; “crisi economico finanziaria”, quando gli oneri finanziari e dunque l’indebitamento complessivo condizionano in maniera incisiva la capacità dell’impresa di generare reddito.

La dottrina aziendalistica70 distingue inoltre la nozione di “declino” da quella di”crisi”. Il declino consegue a risultati imprenditoriali negativi e si traduce nella distruzione di parte del patrimonio, con conseguente perdita di valore nel tempo.

68

Cfr. G. PRESTI, Rigore è quando arbitro fischia?, in, Il Fall. n. 1/2009, (Allegato), p. 25 e segg. 69 Cfr. BNP- PARIBAS- PRICE WATER HOUSE COOPERS, Finanza d’impresa, Milano, 2002, 87 e segg.

La crisi vera e propria rappresenta invece uno stato degenerativo ulteriore, rispetto al declino che si traduce in una instabilità nella redditività con conseguenti perdite economiche che incidono in maniera rovinosa sul capitale sociale, sui flussi finanziari, sulla capacità di accedere al credito bancario, ed in una generale perdita di fiducia da parte della comunità finanziaria e nei fornitori.

Una definizione normativa delle diverse fasi della crisi d’impresa sarebbe estremamente utile, non solo per individuare in maniera netta, il presupposto oggettivo minimo per poter accedere alla procedura ristrutturativa (art. 182 bis), ma anche per predisporre un accordo di ristrutturazione, che tenga conto, nel suo complesso, delle specificità e del livello di gravità in cui la crisi è giunta.

Sotto questo profilo la dottrina71individua quattro fasi del processo patologico costituito dalla crisi d’impresa.

La prima fase è definita “incubazione del declino” ed è caratterizzata dai primi segnali di squilibrio o di decadimento spesso non facilmente percepibili.

La seconda fase è quella della “maturazione del declino” che si manifesta con perdite di valore del capitale e con la diminuzione dei flussi reddituali. Si tratta di una situazione rimediabile agendo tempestivamente, prima che venga compromessa più seriamente la situazione patrimoniale e finanziaria.

La terza fase, cui può addivenirsi rapidamente in mancanza di contromisure tempestive è quella delle “ripercussioni delle perdite” sui flussi finanziari, sull’immagine e la fiducia dell’impresa sul mercato. Si tratta del primo segnale esterno della crisi e si manifesta con un forte squilibrio economico, implicando una carenza di liquidità che si riflette sull’equilibrio finanziario e patrimoniale dell’impresa. Si cominciano ad assottigliare le riserve e il capitale sociale viene progressivamente eroso; tutto ciò deteriora l’immagine finanziaria dell’impresa condizionando in maniera significativa le possibilità di accesso al credito. In questa situazione la crisi è da considerarsi ancora reversibile, in quanto esiste ancora un potenziale aziendale che potrebbe essere recuperato o riconvertito.

La quarta fase è quella in cui la crisi è ormai conclamata e si manifesta all’esterno in tutta la sua gravità, manifestandosi nelle due forme dell’insolvenza o del dissesto. Lo stato d’insolvenza si manifesta con inadempimenti o altri fatti esteriori, i quali dimostrino che il debitore non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni (art. 5 comma 2 l. fall). L’intera struttura aziendale viene sconvolta sotto i tutti gli aspetti: le banche cessano di concedere affidamenti e possono imporre rientri immediati con riferimento a quelli già concessi in precedenza; tra i fornitori si diffondono notizie circa il rischio di mancato pagamento e ciò potrebbe condizionare la regolarità degli approvvigionamenti; anche i dipendenti, i clienti ed i terzi in genere cominciano a perdere la fiducia nell’impresa.

71

M. ROMANO – C. FAVINO, Individuazione della crisi d’impresa e profili di informativa economica nel nuovo concordato preventivo, (I parte), in, Fall., 2006, 8, pag. 985; L. GUATRI, Turnround: declino, crisi e ritorno al valore, Egea, 1995, p. 110 e segg.; L. GUATRI, All’origine delle crisi aziendali: cause reali e cause apparenti, in, Finanza, Marketing e Produzione, 1985, 3, p. 11 e segg.

Lo stadio dell’insolvenza viene considerato una fase in cui la ristrutturazione dell’impresa appare ancora possibile, anche se problematica e con scarse possibilità di successo.

Con il “dissesto” invece l’impresa attraversa la fase terminale della sua crisi caratterizzata da un permanente squilibrio economico, finanziario e patrimoniale, per cui la disgregazione del complesso aziendale diviene una conseguenza inevitabile e nessun intervento di ristrutturazione può essere intrapreso.

Sarebbe pertanto opportuno oltre al riconoscimento normativo, delle varie fasi della crisi d’impresa, anche la diffusione di una cultura della crisi d’impresa, al fine di accrescere la sensibilità dell’imprenditore nella percezione dei segnali iniziali della stessa72.

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