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La nozione di comunicazione racchiude una molteplicità di significati che hanno contri- buito a renderla un elemento emblematico della società del terzo millennio. Fin dall’inizio del Novecento le ricerche sulla comunicazione sono state condotte all’interno di quadri di riferimento teorici e disciplinari differenti: la semiotica, che analizza le stra- tegie di costruzione del discorso e i meccanismi di significazione, al fine di distinguere la manifestazione superficiale dalla struttura profonda del testo, al cui livello operano i dispositivi di significazione1; la sociolinguistica, che studia i fatti e i fenomeni linguisti- ci che hanno rilevanza o significato sociale2 e i cambiamenti dell’uso della lingua a se- conda delle situazioni e del contesto; la psicologia, che focalizza i suoi studi sull’importanza della comunicazione per la costruzione di reti di relazione e sulla for- mazione dell’identità individuale3

; la sociologia, che considera la comunicazione un modo per riprodurre e trasferire i significati sociali attorno ai quali un gruppo si ricono- sce4; l’antropologia, che sottolinea lo stretto legame tra comunicazione e cultura5. Gra- zie ai contributi delle discipline citate, sono state coniate varie definizioni ed elaborate diverse teorie della comunicazione.

2.1.1 Approccio antropologico: il lavoro di Edward Twitchell Hall

Agli inizi degli anni Trenta, l’antropologo statunitense Edward Twitchell Hall iniziò i suoi studi sulla comunicazione, con l’obiettivo di sviluppare una teoria della cultura.

1

U.Eco, Trattato di semiotica generale, Bompiani, Milano 1975; G. Bettetini, Tempo del senso, Bom- piani, Milano 1979.

2 G. Berruto, Fondamenti di sociolinguistica, Laterza, Bari 2003, p. 9. 3L. Anolli, Psicologia della comunicazione, Il Mulino, Bologna 2002.

4 L. Sciolla, Sociologia dei processi culturali, Il Mulino, Bologna 2002; L. Paccagnella, Sociologia della

comunicazione, Il Mulino, Bologna 2004.

5

M. Douglas, B. C. Isherwood, Il mondo delle cose, Il Mulino, Bologna 1984. [Tit. or. The world of

goods. Towards an anthropology of consumption, Routledge, London 1979]; C. Geertz, Interpretazione di culture, op. cit.; A. Duranti, Antropologia del linguaggio, Meltemi, Roma 2000.

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Convinto che il modo di pensare delle persone fosse influenzato dalla lingua (a sua vol- ta indissolubile dalla cultura), Hall consacrò buona parte della sua vita allo studio dell’organizzazione sociale dello spazio e del tempo tra gli esseri umani6

. Secondo l’autore i sistemi di misurazione del tempo e dello spazio influenzano il modo di perce- pire la realtà; in relazione a ciò, Hall mette in evidenza la dimensione culturale (nasco- sta) dei comportamenti nelle diverse comunità da lui studiate. È attingendo alla “dimen- sione nascosta” che ogni persona misura e ritaglia la propria immagine del mondo, di se stessa e degli altri; i modelli culturali, quindi, influenzano i rapporti interpersonali, i comportamenti verbali e non verbali e gli intenti comunicativi. Questa lettura della real- tà è alla base della teoria secondo la quale «persone di culture diverse non solo parlano lingue diverse, ma abitano differenti mondi sensoriali»7.

In questo modo si spiega come mai nelle relazioni umane internazionali e multicultu- rali, negli incontri quotidiani nei vari servizi rivolti ai cittadini, possono insorgere diffi- coltà dovute alla mancanza di una corretta interpretazione dei significati adombrati dalla comunicazione. Esistono ostacoli che si frappongono alla “buona comunicazione” e che derivano soprattutto dalla mancata consapevolezza del fatto che ciascuna parte coinvolta vive in un diverso mondo percettivo. Quando persone appartenenti a differenti culture si incontrano ed entrano in “contatto” comunicativo, spesso sono convinte che la sola pa- dronanza di una lingua comune assicuri la reciproca comprensione; in realtà, subentrano altri fattori che possono dare origine a veri e propri conflitti e “shock culturali”.

Un altro elemento introdotto da Hall, alla fine degli anni Sessanta, è il concetto di prossemica8, che si riferisce all’uso dello spazio nelle relazioni sociali. Secondo l’antropologo, ogni cultura elabora un modo peculiare di considerare e utilizzare lo spa- zio. Ad esempio, c’è una precisa regola non scritta sulla distanza da mantenere nelle in- terazioni con l’altro (la “bolla virtuale”), che varia notevolmente in base alla cultura, al- la situazione specifica e alla relazione fra gli interlocutori9. Nel caso in cui uno degli in- terlocutori infranga la grammatica che regola la distanza interpersonale, l’altro può sen-

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Nel 1959 pubblicò il suo primo lavoro, The Silent Language (Doubleday, New York). Il testo fu realiz- zato grazie alla sua esperienza come ufficiale durante la Seconda guerra mondiale in un reggimento com- posto da afroamericani e al suo lavoro di insegnante per diplomatici americani.

7 E. T. Hall, La dimensione nascosta. Vicino e lontano: il significato delle distanze tra persone, (trad. it.)

Bompiani, Milano 2001, p. 13. [Tit. or. The hidden dimension, Doubleday & Co. Inc., New York 1966].

8 L’autore sostiene che lo studio dell’uso dello spazio dell’uomo è nato al fine «di aumentare la coscienza

della nostra identità personale, di rendere più intense le nostre esperienze e di ridurre i fenomeni alienanti: insomma di aiutare l’uomo a conoscersi meglio». E. T. Hall, La dimensione nascosta, op. cit., p. 3.

9 E. T. Hall, The Silent Language, op. cit.; I

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tirsi minacciato e invaso nei propri spazi e essere portato a mettere in atto comporta- menti difensivi.

La prossemica non permette solo di studiare le relazioni di vicinanza e distanza nella comunicazione interpersonale, ma anche di allargare l’analisi agli aspetti non intenzio- nali che influenzano la comunicazione.

Muovendosi attraverso lo spazio, l’uomo organizza e consolida il suo mondo visivo, avvalendosi dei messaggi che egli riceve da tutto il corpo10.

L’uomo è condizionato dall’esperienza dello spazio praticamente in ogni suo tratto culturale e in ogni sua azione. Il senso dello spazio è una sintesi di molti apporti sensoriali: visivi, uditivi […]. Ognuno di questi sensi, a sua volta, costituisce in realtà un sistema di comunicazioni assai compli- cato, che si articola in una quantità di modalità, organi specifici, usi e funzioni11.

Gli occhi, ad esempio, oltre a essere strumenti di ricezione delle informazioni, svol- gono una vera e propria funzione “trasmittente”, punendo, incoraggiando o stabilendo un rapporto di dominio; le ricerche di Hall hanno dimostrato che «la maggiore o minore dilatazione delle pupille può indicare interesse o antipatia»12.

Grazie agli studi di Hall, è maturata la consapevolezza che l’organizzazione dello spazio (ad esempio l’arredamento di una stanza o la scelta dell’abbigliamento) è un si- stema di comunicazione non verbale condizionato dalla cultura di appartenenza e costi- tuisce una lente attraverso cui guardare e valutare il comportamento altrui. Di conse- guenza, una mancata conoscenza di simili aspetti può suscitare, nell’ambito degli incon- tri multiculturali, sentimenti di disagio e atteggiamenti di chiusura fra gli interlocutori. 2.1.2 Approcci sociologici: modello drammaturgico e modello economico

Negli anni Cinquanta, Erving Goffman presenta il “gioco delle interazioni” utilizzando il modello drammaturgico della rappresentazione, secondo il quale l’interazione “faccia a faccia” si svolge tra gli attori e un pubblico13

: gli attori sviluppano uno o più “ruoli” dinanzi a un auditorio che, inevitabilmente, influisce sull’interazione.

10 E. T. Hall, La dimensione nascosta, op. cit., p. 94. 11 Ivi, p. 240.

12 Ivi, p. 93. 13

E. Goffman, Modelli di interazione, (trad. it.) Il Mulino, Bologna 1971. [Tit. or. Interaction Ritual: Es- says on Face-to-Face Behavior, Anchor Books, 1967]; ID., Forme del parlare, (trad. it.) Il Mulino, Bolo- gna 1981. [Tit. or. Forms of Talk, University of Pennsylvania Press, Philadelphia 1981].

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Goffman introduce l’idea secondo la quale alla base delle interazioni v’è un ordine rituale, che conferisce coerenza e attendibilità ai ruoli agiti14. Proseguendo con la meta- fora del teatro, l’ordine rituale corrisponde al percorso della “messa in scena dell’attore” e alle sue convenzioni. La conversazione, secondo Goffman, rappresenta il caso più semplice e al tempo stesso più esplicativo, di questi processi di ritualizzazione (i saluti e la cortesia ne sono l’esempio più calzante).

Mentre Goffman adopera il modello drammaturgico, Pierre Bourdieu utilizza il mo- dello economico per spiegare la predominanza degli schemi culturali nelle interazioni15. A partire dagli anni Sessanta, Bourdieu (con i collaboratori del Centro di Sociologia Eu- ropea) elabora l’idea di habitus. L’habitus corrisponde alle strutture mentali attraverso le quali le persone leggono il mondo sociale; esse sono essenzialmente il prodotto dell’interiorizzazione delle strutture che organizzano lo spazio sociale16

. Sono quindi legate al contesto culturale. Per Bourdieu, è la scuola a produrre questo sistema di schemi non coscienti che costituiscono l’habitus17, mentre, nelle società sprovviste di istituzione scolastica, tale funzione di radicazione è assicurata dai miti e dai riti. L’habitus, secondo il sociologo, funziona come grammatica generatrice di condotta18

. 2.1.3 Approcci psicologici: Scuola di Palo Alto e psicologia umanistica

Nel 1967, Paul Watzlawick, Janet Helmick Beavin e Don Donald Jackson pubblicano “Pragmatics of Human Communication. A Study of Interactional Patterns, Pathologies, and Paradoxes”19. Il testo riporta gli studi, effettuati all’interno del Mental Research In- stitute di Palo Alto, sugli effetti pragmatici della comunicazione umana sui modelli inte-

14 J.P. Durand, R. Weil (a cura di), La sociologie contemporaine, Coll. Essentiel, Vigot, Paris 1989, p.

250.

15 Bourdieu presenta l’insieme dello spazio sociale come un sistema di mercati dove si scambiano beni

specifici attraverso degli interessi precisi e definisce il mercato linguistico come la rappresentazione e l’apprezzamento di un discorso da parte di un interlocutore che gli può attribuire un prezzo. La conoscen- za della sola competenza linguistica non permette di prevedere quale sarà il valore di una performance linguistica in un mercato, il quale dipende dai valori insiti del mercato specifico. Prendendo in considera- zione il “mercato degli affetti”, il valore di una produzione linguistica non è uguale a quella del “mercato professionale”. É a partire da queste due nozioni chiave che Bourdieu definisce nel seguente modo l’espressione linguistica (discorso): le discours = l’habitus linguistique + le marché linguistique. In P. Bourdieu, Questions de sociologie, éd. De Minuit, Paris 1980.

16

Ivi, p. 264.

17 Ivi, p. 266. 18 Idem.

19 P. Watzlawick, J. H. Beavin, D. D. Jackson, Pragmatics of Human Communication. A Study of Interac-

tional Patterns, Pathologies, and Paradoxes, W.W. Norton and Co., NewYork 1967. [Trad. it. Pragmati- ca della comunicazione umana. Studio dei modelli interattivi, delle patologie e dei paradossi, Astrolabio,

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rattivi e sulle patologie della psiche, con una disamina del ruolo dei paradossi comuni- cativi.

Due sono le tesi centrali del testo:

1) il comportamento patologico (nevrosi, psicosi e psicopatologie in genere) non esi- ste nell’individuo isolato ma è un tipo di interazione patologica tra individui;

2) studiando la comunicazione, è possibile individuare delle “distorsioni” della co- municazione e dimostrare che sono esse a produrre le interazioni patologiche.

Studiando il processo comunicativo, gli studiosi pongono le basi per definire quelli che ancora oggi sono riconosciuti come i fondamentali assiomi della comunicazione umana:

I. Impossibilità di non comunicare. Il primo assioma afferma che qualsiasi inte-