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a drammatica diffusione del coronavirus nel nostro paese ha avuto un forte

impatto all’interno del mondo penitenziario andando a toccare profondamente sia la qualità della vita delle persone ristrette sia l’esperienza lavorativa del personale che quotidianamente vi opera. A inizio maggio fra i circa 38mila poliziotti penitenziari in servizio presso i 190 istituti della penisola si contano 2 operatori deceduti a causa del coronavirus e circa 215 positivi al tampone, la maggior parte dei quali sta trascorrendo la quarantena in isolamento fiduciario (sono poco meno di una ventina gli agenti ricoverati in ospedale).

Ma cosa significa indossare una divisa in carcere al tempo dell’emergenza covid-19? A partire dai primi giorni di marzo 2020 il lavoro dei poliziotti penitenziari ha visto acutizzarsi alcuni aspetti problematici caratteristici di questa professione. In questa particolare fase la diffusa sensazione di lavorare in un ambiente pericoloso e fortemente imprevedibile ha teso ad amplificarsi, contribuendo a rendere il clima all’interno delle carceri particolarmente pesante poiché attraversato da forti tensioni. La gestione della popolazione detenuta – aspetto assolutamente centrale del lavoro dei poliziotti penitenziari – ha dovuto misurarsi con la permanenza obbligata dei ristretti nelle sezioni detentive a causa della sospensione di quasi tutte le attività che precedentemente si svolgevano negli istituti. La forzata promiscuità in queste aree del carcere in un momento storico dove il tempo viene scandito dal susseguirsi dei bollettini giornalieri sul contagio ha diffuso, tra le altre cose, preoccupazione, paura, frustrazione e rabbia tra i detenuti. Questi sentimenti sono stati solamente in parte mitigati dalla possibilità di comunicare con il mondo esterno attraverso l’ampliamento delle telefonate a disposizione e l’utilizzo delle videochiamate. 

Il lavoro del personale di polizia penitenziaria si è inserito, dunque, all’interno di questo ambiente saturo di tensioni, paure e preoccupazioni percepite non solo dai detenuti ma anche dagli operatori stessi. Da un lato, infatti, la possibilità che si diffondano nuove rimostranze, proteste o rivolte come quello dello scorso marzo non è impensabile. Ciò obbliga gli agenti a dover stare “sempre all’erta” per non farsi trovare impreparati nel dovere affrontare eventuali episodi critici. Dall’altro, lo stato di sovraffollamento delle carceri che limita drammaticamente la possibilità di mantenere le necessarie “distanze”, assieme alla purtroppo nota insalubrità degli istituti di pena, espone anche il personale in divisa al rischio contagio. Rischio che si estende, inevitabilmente, anche a i loro familiari. 

Successivamente alle rivolte cominciate il 7 marzo scorso - che hanno avuto come drammatico epilogo la morte di 13 detenuti oltre a diverse decine di feriti anche tra il personale - una circolare DAP datata 13 marzo ha imposto agli operatori di polizia penitenziaria di continuare a prestare servizio anche nel caso in cui avessero avuto contatti con persone contagiate. Questa controversa decisione, mossa probabilmente dal timore di assistere ad un calo repentino del personale in servizio in una situazione già affetta da strutturale carenza, ha dovuto scontrarsi con le critiche molto pesanti provenienti dalla maggior parte dei sindacati di polizia penitenziaria. Pochi giorni dopo, tuttavia, la situazione è mutata. A seguito del D.L. n.18 del 17 marzo 2020, una nuova circolare del DAP ha previsto la possibilità che per gli agenti di polizia penitenziaria che ritenessero di aver avuto contatti diretti o indiretti con casi di COVID-19, il direttore dell’istituto possa provvedere alla loro dispensa dal servizio. È stata, così, prevista la possibilità trascorrere l’isolamento domiciliare fiduciario anche all’interno delle caserme degli istituti (a fine aprile se ne contavano circa una ventina), esonerando tali operatori dagli oneri alloggiativi e permettendo l’accesso gratuito al servizio mensa. In segno di “vicinanza e sostegno del personale” il DAP ha autorizzato le direzioni delle carceri all’acquisto di televisori da posizionare nelle camere dei dipendenti in isolamento così come l’attivazione della connessione Wi-Fi nelle caserme. Ai casi positivi, inoltre, è stata garantita protezione e sostegno economico attraverso un sussidio erogato dall’Ente d’assistenza per il personale dell’Amministrazione penitenziaria.

Queste misure, tuttavia, non hanno mitigato il giudizio fortemente critico della totalità delle organizzazioni sindacali di polizia penitenziaria nei confronti del capo del DAP e del Ministro della Giustizia, entrambi ritenuti inadeguati per fronteggiare questa particolare emergenza, Giudizio che ha contribuito alla presentazione delle dimissioni del capo DAP, il 2 maggio. Nel frattempo i contagi in carcere sia fra i detenuti che tra il personale sono, infatti, in crescita, i tamponi necessari per individuare casi asintomatici fra tutti coloro che vivono e frequentano il carcere tardano ad essere effettuati, i dispositivi di protezione individuale (DPI) sono giudicati carenti e inefficienti.

Questa fase di emergenza, insomma, ha amplificato ulteriormente la già diffusa percezione degli operatori penitenziari di essere considerati un corpo di polizia di serie B, un corpo dimenticato, criticato, bistrattato e spesso stigmatizzato. È anche da qui che, sicuramente, muovono gli atteggiamenti fortemente difensivi e talvolta aggressivi che hanno assunto alcune organizzazioni sindacali.  Esaltando, da un lato, l’eroismo delle donne e degli uomini del corpo di polizia penitenziaria che hanno continuato a lavorare con dedizione ed abnegazione nonostante le condizioni drammatiche nelle quali sono immersi e scagliandosi, dall’altro, contro tutti coloro che sembrano attaccarli o che, semplicemente, non ne prendono apertamente le difese. Si vedano a tal proposito i recenti attacchi rivolti al Garante nazionale dei diritti delle persone detenute, così come quelli indirizzati alle diverse persone e associazioni che si sono mobilitate per la tutela dei diritti dei reclusi: accusate di profonda ipocrisia e buonismo, ma anche

colpevolizzate per dedicarsi esclusivamente ai diritti dei detenuti, dimenticandosi del personale penitenziario o delle vittime dei reati. 

È importante sottolineare, però, che questi atteggiamenti non hanno caratterizzato tutte le realtà rappresentative del mondo della polizia penitenziaria. Pur trattandosi di una minoranza, c’è stato anche chi ha raccontato questa fase emergenziale descrivendo le problematiche che vivono gli operatori penitenziari seguendo una prospettiva, invece, inclusiva. Una prospettiva che coinvolge tutti coloro che abitano e vivono l’universo penitenziario, senza effettuare una distinzione netta fra detenuti e personale, o fra “criminali” e “rappresentanti della giustizia”. Una prospettiva sicuramente condivisibile, che guarda ad una “comunità carceraria” la cui tutela, soprattutto in questa fase emergenziale, non può non passare attraverso l’inclusione e il riconoscimento dei diritti, della salute e del benessere di tutti coloro che il carcere lo vivono.

Una leura psicologica delle rivolte di