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L

’emergenza sanitaria legata alla pandemia di COVID-19 ha senz’altro contribuito

ad esasperare alcune criticità che da decenni caratterizzano la vita degli istituti penitenziari italiani. Il mai risolto problema del sovraffollamento, l’incidenza di patologie sulla popolazione detenuta con tassi molto più alti se paragonati alla

popolazione libera , la difficoltà nel reperire dispositivi di protezione individuale sono 16

tra i fattori che hanno condotto, fin da subito, a temere una incontrollabile diffusione dell’epidemia nelle carceri italiane.

Per questo si era auspicato che il Governo adottasse urgentemente misure volte a tutelare il diritto alla salute dei detenuti, così come garantito dalla Costituzione, non solo attraverso interventi finalizzati a potenziare l’efficienza dell’assistenza medica in carcere ma, soprattutto, incentivando il ricorso alle misure alternative in modo da ridurre il numero dei ristretti, proteggendo i più vulnerabili.

Purtroppo le novità introdotte in questa fase sono state di portata marginale e la magistratura, non solo quella di sorveglianza, ha dovuto far fronte all’emergenza ricorrendo soprattutto agli strumenti già presenti nel nostro ordinamento.

L’unica vera nuova norma in materia di detenzione domiciliare è l’art. 123 del D.L. 17 marzo 2020, n. 18 (c.d. “Decreto cura Italia) che, in deroga ai commi 1, 2 e 4 dell’art. 1 L. 199/2010, permette, fino al 30 giugno 2020, ai detenuti condannati con pena residua non superiore a diciotto mesi, di presentare istanza al Magistrato di Sorveglianza per chiedere che la pena sia eseguita presso l’abitazione del condannato (o in altro luogo pubblico o privato di cura). Tuttavia, tale misura è preclusa ai detenuti che siano stati condannati per alcune categorie di reati o che abbiano promosso o partecipato a disordini e sommosse ed è applicata la procedura di controllo mediante mezzi elettronici (c.d. “braccialetto elettronico”) per i detenuti con pena residua superiore ai 6 mesi. La recente legge di conversione n. 27 del 24 aprile 2020 non ha apportato sostanziali modifiche a tale disposizione, tantomeno nella direzione di ampliarne

Secondo uno studio dell’ARS della Toscana, una percentuale compresa tra il 60 e l’80% della popolazione detenuta è affetta da

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almeno una patologia (anche non grave). Cfr. https://medium.com/@AntigoneOnlus/la-salute-in-carcere-le-malattie-infettive-b2cda014a81 e http://www.quotidianosanita.it/allegati/allegato9702590.pdf.

significativamente l’ambito di applicazione . 17

Proprio la previsione di queste preclusioni e l’annoso problema della scarsità di braccialetti elettronici disponibili, hanno minato sin da subito la concreta efficacia di tale misura. Il 24 marzo 2020 lo stesso Ministro della Giustizia, nell’informare che la popolazione carceraria era diminuita di circa 2.500 unità, specificava che di queste sono solo 200 circa le uscite dovute agli articoli 123 e 124 del Decreto 18/2020 . Al 31 18 marzo i detenuti presenti in carcere erano 57.846, 3.384 in meno rispetto alla fine di febbraio, ma analizzando attentamente i dati si nota che il calo dei ristretti in custodia cautelare (-7,6%) è in proporzione maggiore di quello dei detenuti con una condanna definitiva (-4,5%) . 19

Allo stesso modo, non sembra dotato di particolare incisività l’ultimo Decreto del Presidente del Consiglio del 26 aprile 2020, laddove all’art. 1 lettera y si limita a “raccomandare” ai giudici “di limitare i permessi e la semilibertà o di modificare i relativi regimi in modo da evitare l'uscita e il rientro dalle carceri, valutando la possibilità di misure alternative di detenzione domiciliare”.

La Procura Generale della Corte di Cassazione, già il 1° aprile 2020, aveva diffuso una nota avente ad oggetto “indicazioni per i Pubblici Ministeri per la riduzione della presenza carceraria durante l'emergenza di coronavirus”, dove si invitava ad incentivare la decisione di misure alternative idonee ad alleggerire la pressione delle presenze non necessarie in carcere, arginando la richiesta e l’applicazione delle misure a rischio e procrastinando l’esecuzione delle misure già emesse dal G.I.P.

Tuttavia, come si è detto, la maggior parte dei provvedimenti della magistratura che hanno permesso la scarcerazione di detenuti, le cui condizioni di salute rischiavano di essere ulteriormente compromesse dalla diffusione del virus, sono stati adottati applicando norme già esistenti nel nostro diritto penale e penitenziario e possono essere ricondotti a tre istituti: l’affidamento in prova ex art. 47 OP; la detenzione domiciliare ex art. 47 ter OP e il differimento della pena ex art. 147 c.p.; la sostituzione della misura cautelare della custodia in carcere con altra misura.

L’affidamento in prova consiste nella possibilità, a determinate condizioni (es. nei casi in cui si può ritenere che il provvedimento contribuisca alla rieducazione del reo e assicuri la prevenzione del pericolo che egli commetta altri reati), di espiare la pena definitiva, che sia contenuta entro un limite edittale (3 o 4 anni), fuori dall’istituto penitenziario,

Nel nuovo testo coordinato dell’art. 123, infatti, oltre ad alcune mere integrazioni o correzioni formali, è aggiunto un passaggio

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che si limita a specificare che “L'esecuzione dei provvedimenti nei confronti dei condannati per i quali è necessario attivare gli strumenti di controllo indicati avviene progressivamente a partire dai detenuti che devono scontare la pena residua inferiore. Nel caso in cui la pena residua non superi di trenta giorni la pena per la quale è imposta l'applicazione delle procedure di controllo mediante mezzi elettronici o altri strumenti tecnici, questi non sono attivati”.

https://www.antigone.it/news/antigone-news/3288-carceri-e-covid-19-i-dati-forniti-dal-ministro-bonafede-ci-dicono-che-si-deve-18 fare-di-piu-e-presto http://www.antigone.it/news/antigone-news/3297-i-numeri-scendono-meno-di-quanto-dovrebbero-anche-regioni-focolaio-19 della-pandemia-di-coronavirus

affrontando un periodo di prova il cui esito positivo estinguerà la pena stessa. Tuttavia, fin dalle prime settimane dell’emergenza sanitaria da Coronavirus, soprattutto il comma 4 dell’art. 47 OP è stato oggetto di alcune interessanti pronunce della magistratura di sorveglianza. Questa norma, infatti, prevede che quando sussiste un grave pregiudizio derivante dalla protrazione dello stato di detenzione, l’istanza può essere proposta al magistrato di sorveglianza in quale, se ritiene sussistenti i presupposti per l'ammissione e il grave pregiudizio derivante dalla protrazione dello stato di detenzione, dispone la liberazione del condannato e l’applicazione provvisoria dell’affidamento in prova.

È il caso, ad esempio, dell’ordinanza del 20/03/2020 emessa dall’Ufficio di Sorveglianza di Milano, con cui si concede l’ammissione provvisoria all’affidamento in prova al servizio sociale ex art 47 comma 4 OP. Il magistrato, «quanto all’esistenza del grave pregiudizio legittimante una pronuncia in via provvisoria» considera che «l’ammissione alla misura alternativa consentirebbe al condannato di riprendere l’attività lavorativa, attualmente interrotta a causa della sospensione dell’esecutività degli art. 21 OP in ragione della attuale emergenza sanitaria da Covid-19, al fine di limitare il rischio di contagio all’interno delle carceri» . 20

L’art. 47 ter OP prevede la possibilità, per il detenuto, di scontare la pena della reclusione presso la propria abitazione qualora sussistano alcune condizioni. In particolare, il comma 1, lettera c, prevede che la pena della reclusione non superiore a quattro anni, o dell’arresto, possono essere espiate nella propria abitazione quando si tratta di persona in condizioni di salute particolarmente gravi, che richiedano costanti contatti con i presidi sanitari territoriali. Il comma 1-ter, inoltre, stabilisce che il tribunale di sorveglianza, anche se la pena supera il limite dei quattro anni, può disporre l’applicazione della detenzione domiciliare, quando potrebbe essere disposto il rinvio obbligatorio o facoltativo della esecuzione della pena ai sensi degli articoli 146 e 147 c.p., ovvero per gravi motivi di salute. Nei casi in cui vi sia un grave pregiudizio derivante dalla protrazione dello stato di detenzione, l’istanza può essere rivolta direttamente al magistrato di sorveglianza che può disporre l’applicazione provvisoria della misura. È proprio a quest’ultima previsione normativa che fanno riferimento numerosi provvedimenti adottati dalla magistratura di sorveglianza in relazione alla attuale emergenza sanitaria.

Un esempio di applicazione di questo istituto è fornito dalla ordinanza del 16 marzo 2020 dell’Ufficio di Sorveglianza di Milano, con cui viene concesso il differimento pena ex artt. 47 ter co. 1 ter e co. 1 quater OP e 147 c.p. Viene «considerata l’incidenza, sul rischio di una evoluzione negativa della grave patologia, il fattore di stress costituito dallo stato detentivo e dai rischi connessi all’emergenza sanitaria in atto, che in una

In una pagina ad hoc del sito dell’Associazione Antigone è in corso la raccolta di alcuni dei provvedimenti in materia di

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detenzione domiciliare e sostituzione della misura della custodia cautelare in carcere, emessi recentemente da alcuni tribunali penali e uffici di sorveglianza alla luce della attuale epidemia di covid-19, tra i quali si trovano anche tutti i provvedimenti citati nel presente articolo: https://www.antigone.it/news/antigone-news/3293-carceri-e-covid-19-i-provvedimenti-assunti-dai-tribunali.

situazione di salute così compromessa e a fronte della possibilità di evoluzione in senso peggiorativo può comprensibilmente costituire esso stesso causa di aggravamento». Più controverso, invece, è stato il giudizio dell’Ufficio di Sorveglianza di Pavia, che, con decreto del 20 marzo 2020, ha negato il beneficio penitenziario richiesto (ammissione provvisoria alla detenzione domiciliare), «ritenuto che il paventato pericolo cui il soggetto sarebbe esposto in ragione delle descritte condizioni di salute rispetto al possibile contagio da COVID-19, non costituisce un elemento di incompatibilità con la detenzione carceraria, non essendovi indicazioni in merito a frequenza di contagio da Covid-19 maggiore in carcere rispetto che all’ambiente esterno». Il provvedimento è stato impugnato e a decisione di segno opposto è giunto il Tribunale di Sorveglianza di Milano che, con ordinanza del 31 marzo 2020, ha disposto il differimento pena nelle forme della detenzione domiciliare, ritenendo che le patologie di cui soffre il detenuto «possano considerarsi gravi, ai sensi dell’art. 147 co.1 n. 2 c.p., con specifico riguardo al correlato rischio di contagio attualmente in corso per COVID 19, che appare – contrariamente a quanto ritenuto dal MdS – più elevato in ambiente carcerario, che non consente l’isolamento preventivo».

Poiché tale misura può essere applicata, in ragione delle superiori esigenze di tutela della salute, anche a detenuti autori di reati di cui all’art. 4 bis OP (quindi gravi reati c.d. “ostativi”), ha suscitato polemiche la recente ordinanza del 20 aprile 2020 con cui l’Ufficio di Sorveglianza di Milano ha deciso di disporre il differimento della pena in favore di persona condannata per associazione a delinquere di stampo mafioso, «tenuto conto dell’attuale emergenza sanitaria e del correlato rischio di contagio […] che espone a conseguenze particolarmente gravi i soggetti anziani ed affetti da serie patologie pregresse».

Per quanto riguarda la terza categoria, rammentiamo che il combinato disposto degli artt. 299 e 275 c.p.p. consente la sostituzione della misura cautelare della custodia in carcere con altra meno grave, tra cui gli arresti domiciliari, quando l’imputato è affetto da una malattia particolarmente seria, per effetto della quale le sue condizioni di salute risultano incompatibili con lo stato di detenzione e comunque tali da non consentire adeguate cure in caso di detenzione in carcere. È proprio all’interno di questo ambito che si collocano numerosi provvedimenti adottati dai giudici penali che hanno senz’altro contribuito in modo incisivo a deflazionare la popolazione penitenziaria. Tra questi, ad esempio, si possono citare quello emesso dal Tribunale Penale di Roma il 18 marzo 2020, con cui è stata disposta la sostituzione della misura cautelare della custodia in carcere con quella degli arresti domiciliari in favore di un detenuto malato che necessitava di indagini strumentali già programmate, tenendo conto delle «attuali restrizioni degli spostamenti dei detenuti dal carcere verso strutture sanitarie esterne, a motivo della diffusione del COVID 19»; l’ordinanza del 23 marzo 2020 emessa dal G.I.P. del Tribunale di Milano che ha sostituito all’imputato la misura della custodia cautelare in carcere con gli arresti domiciliari anche «in considerazione della attuale situazione di

emergenza sanitaria evidenziata nella nota prot. N. 347/2020» del Procuratore Aggiunto e del Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Milano; l’ordinanza del 10 aprile 2020 con cui il Tribunale penale di Palmi ha deciso la sostituzione della misura ritenendo che, «stante l’emergenza del momento appare del tutto inopportuno il ricovero dell’imputato in una struttura ospedaliera impegnata in questo momento a fronteggiare l’epidemia di COVID 19».

La magistratura, non solo di sorveglianza, si è dunque trovata a dover affrontare una emergenza senza precedenti e dalle conseguenze potenzialmente dirompenti sul piano della stessa tenuta del sistema carcerario. Lo ha dovuto fare ricorrendo quasi esclusivamente alle norme già presenti nel nostro ordinamento, che ha saputo dimostrare, se utilizzato con elasticità, apertura mentale e uno sguardo costituzionalmente orientato, di possedere potenzialmente tutti gli strumenti necessari a garantire una detenzione rispettosa della salute dei detenuti e della umanità del trattamento.