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a complessa concatenazione di eventi verificatasi con lo scoppiare della pandemia

da Covid-19 e con le relative strategie di gestione messe in atto a livello nazionale per contrastarne la diffusione, ha evidenziato in maniera netta la pregnanza dell’elemento di continuità che sussiste tra il “mondo fuori dal carcere” e “il mondo di dentro”, rendendo evidente l’equilibrio precario che segna la quotidianità penitenziaria. La giornata dell’8 marzo in particolare rappresenta, pur nella sua straordinarietà, un esempio paradigmatico in questo senso. Come evidente, infatti, le misure di prevenzione adottate dal governo in tale data sono andate ad impattare in maniera decisa sull’universo penitenziario e, in particolare, sulla popolazione detenuta. Misure simili erano peraltro già state indicate dal DAP, che, con una circolare del 26 febbraio indirizzata alle sedi penitenziarie di alcune regioni, tra cui l’Emilia-Romagna, suggeriva di adottare provvedimenti volti alla sospensione di tutte le attività trattamentali, oltre che al contenimento delle attività lavorative esterne e interne che comportassero l’ingresso di personale da fuori. Queste precauzioni, per quanto comprensibili, hanno inciso drasticamente sulla vita quotidiana all’interno degli istituti, determinando la sensibile crescita di un clima di tensione già di per sé elevato nei giorni precedenti, riconducibile sia alle preoccupazioni dei reclusi relativamente ad un rischio di contagio particolarmente consistente in virtù della promiscuità spaziale, sia alla difficoltà esperita dagli stessi nell’ottenere una percezione affidabile della reale entità del fenomeno in essere.

È poi nel pomeriggio di quello stesso 8 marzo che si cominciano a diffondere le prime notizie relative a degli intensi episodi di rivolta che si sarebbero verificati in alcuni istituti penitenziari. Il caotico susseguirsi degli eventi - inseguito da aggiornamenti preoccupanti, spesso confusi e incerti, ai quali fanno eco i silenzi del Ministero della Giustizia e del DAP – ha infine portato al tragico epilogo che ben conosciamo: 13 morti tra la popolazione detenuta (9 soltanto nel carcere di Modena, di cui 4 deceduti durante il trasferimento presso altri istituti). Per diversi giorni si saprà poco o nulla di queste morti, se non qualche approssimativo dettaglio espresso (tra gli altri) dal ministro Bonafede attraverso una serie di stigmatizzanti “perlopiù” : i reclusi deceduti, si dice, 7 erano perlopiù stranieri, perlopiù tossicodipendenti, perlopiù morti a causa di un’assunzione eccessiva di metadone o di psicofarmaci a seguito di quello che è stato definito come un “assalto” all’infermeria dell’istituto. Di queste persone non si viene a

Si veda a questo proposito l’articolo di Sergio Segio sul Manifesto

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sapere nient’altro per diversi giorni, fino a quando il Corriere pubblica i loro nomi e

alcune briciole delle loro storie nell’edizione del 18 marzo. 

Pur nella loro portata eccezionale, i fatti dell’8 marzo sollevano una serie di problematiche importanti, che a Modena come altrove segnano da sempre l’universo penitenziario: la cronica insufficienza di risorse, la separazione dagli affetti, il massiccio consumo di farmaci, per citarne alcune. Sarebbe certamente illusorio andare a cercare nel passato recente di un singolo istituto le tracce che hanno portato ai ben noti eventi, ma ci sembra possa essere utile volgere uno sguardo a quella che era la situazione del carcere di Modena prima che avvenissero le rivolte, se non altro per fornire delle chiavi di lettura che possano risultare utili a situarle all’interno di un contesto che si presenta come tutt’altro che eccezionale, pur nelle sue numerose criticità.

Il carcere di Modena è una Casa circondariale divisa in due padiglioni: il “vecchio”, inaugurato nei primi anni ’90, all’interno del quale si trova la maggior parte delle sezioni detentive, molte delle quali in cattive condizioni; e il “nuovo”, aperto nel 2013, che, seppur caratterizzato da spazi più ampi e luminosi, ha presentato sin dall’apertura diverse criticità strutturali. Nel suo complesso l’istituto ospitava, fino a poco prima delle rivolte, all’incirca 550 persone (di cui poco più di 30 donne), una popolazione cresciuta notevolmente nel corso degli ultimi 5 anni (a novembre 2015 le persone detenute erano infatti 360, in linea con la capienza regolamentare dell’istituto). Risulta essere decisamente alta la percentuale di detenuti stranieri, vicina al 70%, mentre poco superiore alla media nazionale è quella di detenuti con problemi di tossicodipendenza (circa al 30%). Negli ultimi anni sembra essere progressivamente aumentato anche il numero di persone condannate in via definitiva (a maggio 2019 erano il 61,3%) con conseguenti difficoltà nella gestione dei percorsi trattamentali a causa di una cronica carenza di educatori. 

Alle numerose e consistenti difficoltà che hanno interessato il personale negli ultimi anni – avvicendamento di tre diverse direzioni in pochi anni, area educativa in forte sotto-organico, proteste tra il personale di polizia penitenziaria che hanno portato al trasferimento del precedente comandante, difficilissimi rapporti con la magistratura di sorveglianza – si sommano le difficoltà operative legate sia ad uno stato di rilevante sovraffollamento, sia alla presenza di una popolazione reclusa in condizioni di estrema marginalità sociale ed economica. La direttrice, già nel 2017, ci comunicava infatti come fossero circa 200 i detenuti “senza un soldo”, e gli avvenimenti nel corso delle visite hanno in qualche modo permesso di confermare le condizioni critiche che interessano una parte significativa della popolazione detenuta, spesso priva di riferimenti sul territorio. Un appunto tratto dai nostri diari a seguito di una visita del 2018 è in questo senso particolarmente esemplificativo:

“Siamo al nuovo padiglione. Usciamo da una cella e veniamo letteralmente sommersi da richieste di ogni tipo da parte dei detenuti: c’è chi chiede di poter lavorare, chi chiede che vengano attivati dei corsi per poter passare il tempo, chi cerca un colloquio con il medico del SerD che non gli risponde. C’è addirittura un detenuto sulla sessantina che, avvicinandosi a me reggendosi alle sue stampelle, mi chiede se riesco a fargli avere una calza elastica per la gamba. Poco dopo, un ragazzo chiede al comandante se gli può almeno essere concesso di andare in palestra nel carcere nuovo, ma questi gli risponde un po’ imbarazzato che si trova già nel carcere nuovo, e che quello vecchio è l’altro. Forse si è trattato di un banale lapsus, ma vedendo le condizioni generali del nuovo edificio (crepe e umidità ovunque nonostante sia aperto da soli 5 anni) non posso fare a meno di pensare che si fosse confuso veramente”. 

Questa situazione di marginalità estrema è ulteriormente aggravata dalle dinamiche di circuitazione che interessano il carcere di Modena. Questo infatti non è certamente un istituto di poco rilievo nel panorama complessivo dei penitenziari emiliano-romagnoli: la sua posizione è al contrario al centro di numerosi processi di trasferimento di detenuti provenienti da altri istituti, in particolare da quelli della riviera, tanto da portare un’educatrice a definirlo un vero e proprio “porto di mare”. In aggiunta, l’attraversamento degli spazi detentivi consente facilmente di notare come l’allocazione dei detenuti nelle sezioni, rispondente in parte a dei criteri facenti esplicito riferimento a delle dimensioni di premialità, abbia determinato la concentrazione spaziale delle fasce più marginali in alcune aree del penitenziario, determinando come diretta conseguenza una maggior problematicità delle stesse. Al di là di una sezione a vocazione spiccatamente “premiale” caratterizzata da una notevole concentrazione di attività – la “Ulisse”, destinata a detenuti con pene definitive e ritenuti “meritevoli” – il resto dell’istituto è caratterizzato da un clima di generale piattezza, dovuta alla scarsità di corsi formativi e culturali, oltre che all'assenza di spazi adeguati ove svolgere le attività in comune. Mancano inoltre corsi di formazione professionale, e l'unica possibilità lavorativa significativa sembra essere quella di lavorare alle dipendenze dell'Amministrazione penitenziaria. La necessaria centralità che le attività dovrebbero assumere nell’economia complessiva della quotidianità detentiva ci era stata evidenziata alcuni anni fa dalla stessa direttrice, la quale auspicava che le celle non tornassero a chiudersi perché – e questo oggi suona drammaticamente premonitore – “allora sì che partiranno le rivolte”. 

Senza dover necessariamente far riferimento ad episodi eclatanti come quelli dell’8 marzo, gli atti di protesta individuale da parte della popolazione detenuta segnalati negli anni risultano essere decisamente numerosi: tagli alle braccia, scioperi della fame, ingestione di pile o lamette, bocche cucite, sono a tutti gli effetti considerabili come atti dimostrativi che vedono nell’utilizzo del corpo uno dei pochi modi rimasti per

autodeterminarsi ed opporsi – per quanto in maniera ambivalente – all’afflittività della detenzione . Allo stesso modo, anche la gestione di tali eventi è racchiusa in una 8 irriducibile ambivalenza, che vede nell’allocazione dei soggetti autolesionisti in sezioni “speciali” (nel caso di Modena la sezione ex art 32 RE 230/2000 o il reparto I Care, entrambe a celle chiuse) il mescolarsi di istanze di protezione a meccanismi pedagogici o vagamente puntivi. 

Il lettore che abbia familiarità con il contesto penitenziario non si stupirà particolarmente di quanto letto finora. Per quanto gli eventi abbiano assunto sicuramente una portata eccezionale in virtù della drammaticità che li ha caratterizzati, crediamo si possa parlare di un “caso Modena” soltanto in riferimento al loro tragico epilogo, non certo in virtù di una supposta unicità degli episodi di rivolta che vi hanno avuto luogo – invero verificatisi anche in diversi altri istituti – né tantomeno di una sorta di eccezionalità delle condizioni in cui versava l’istituto, troppo simili a quelle di molti altri penitenziari italiani.

 Si veda L. Manconi, Così si muore in galera. Suicidi e atti di autolesionismo nei luoghi di pena, in Politica del Diritto, XXXIII, n. 2, 8

2002