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L

’impatto delle misure di prevenzione del rischio epidemiologico da Covid 19 ha

investito anche quella parte della società civile organizzata che in carcere contribuisce a dare concretezza al mandato costituzionale delle pene.

L’assenza del terzo settore in carcere è marginale rispetto ai temi macroscopici del rischio di contagio per una popolazione detenuta in spazi ristretti e senza alcuna possibilità di agire quelle misure di prevenzione legate al distanziamento sociale, alla limitatezza dell’impatto delle misure normative per ridurre i numeri delle presenze in carcere e dell’interruzione dei colloqui con i familiari. Ma in questo tempo sospeso dal lavoro in carcere come operatrici di Arci Solidarietà Viterbo Onlus e osservatrici dall’associazione Antigone abbiamo indagato e ricostruito il vissuto soggettivo di questa fase, la fatica della distanza e dell’assenza e la necessità di immaginare nuove forme per non lasciare il carcere chiuso in se stesso.

All’inizio si entrava di meno, alternati. All’inizio si compilavano moduli e autocertificazioni, comparivano dispenser con igienizzante ma tutto sembrava lontano. All’inizio si parlava con le educatrici, con le psicologhe, con la Polizia Penitenziaria, ci si confrontava e si progettavano i laboratori perché tutto sembrava lontano. All’inizio si parlava con le persone detenute, ci si stringeva la mano, si davano informazioni, si raccoglievano le domandine, si portavano le risposte e si raccoglievano altre richieste perché tutto sembrava lontano. All’improvviso è diventato importante tradurre in più lingue le indicazioni per la prevenzione dal virus adattandole al contesto penitenziario. Nessuno forse capiva quanto da lì a poco tutto sarebbe cambiato. Non si comprendeva ancora quello di cui si parlava. Esagerati, ansiosi, cauti, eccessivi.

All’improvviso, senza quasi rendercene conto, le risposte non le abbiamo più portate. Si vociferava di una sospensione dei colloqui con i parenti. Nel fine settimana iniziano le rivolte. Impossibile per chi conosce, affronta e attraversa quei luoghi allontanarsi dai telefoni in cerca di aggiornamenti e notizie riguardanti gli istituti di ogni parte di Italia. Il primo pensiero, forse, era speriamo che “da noi” non succeda nulla; e subito dopo la preoccupazione per tutti gli altri solo apparentemente lontani. Perché scatta questa sensazione di vicinanza e preoccupazione come se davvero fossimo tutti strettamente collegati. Perché sai che ci saranno conseguenze a breve e a lungo termine, per i rivoltosi e per tutti gli altri. Perché sai che non è quello il modo con cui l’Amministrazione

e la Politica tutta potrà concedere uno spazio di attenzione.

Perché sai che l’uso della violenza è sempre e comunque sbagliato.

Arrivano le prime notizie di decessi, escono le immagini delle sezioni devastate, arrivano le notizie delle evasioni, arrivano le immagini dei parenti e delle associazioni fuori dagli istituti. Aumenta la consapevolezza che le misure deflattive non saranno coraggiose. Aumenta la paura e la preoccupazione, perché sai con la certezza matematica data dai tanti trasferimenti che si sono susseguiti nel tempo che tra quelle rivolte sono state coinvolte persone che hai incontrato, seguito, supportato.

Con l’inizio della settimana e l’estensione del lockdown diventa lampante il fatto che per tempo, non si sa quanto, gli istituti si blinderanno e diventeranno ancora più isolati dalla società esterna. E il ruolo del terzo settore inizia a trasformarsi. Cerchi di capire come poter essere utile, alle persone detenute e all’Amministrazione.

Affidi alla comunicazione scritta quel poco di supporto che riesci ancora a dare. Si mandano mail ai pochi detenuti che possono permettersi di pagare questo servizio. Scrivi lettere agli altri, aspettando pazientemente i tempi delle poste. Chiedi pazienza e responsabilità, provi ad aprire un canale comunicativo inesplorato. Spesso si ricevono lettere e mail di persone trasferite in altri istituti, ma scrivere a chi si trova nella tua città è un esperimento nuovo. Tieni un contatto costante con le educatrici, per preoccupazione, per avere informazioni, ma anche per vicinanza e solidarietà e per capire se le norme introdotte hanno un effetto sul sovraffollamento. Basta poco tempo per capire che le uscite sono poche e lente.

Non sapendo per quanto la società esterna sarà espulsa dagli istituti, il rapporto con il volontariato inizia a mutare e la corrispondenza diventa costante. Rispondi alle richieste lasciate in sospeso, affronti nuove richieste e nei limiti provi a dare risposte. Si apre un canale di sfogo per le pesantezze e le frustrazioni. Il tutto nello spazio di un foglio. Non basta, non è incisivo come un colloquio, ci si adatta. Da operatore senti in maniera sempre più forte la separazione e l’impermeabilità dell’istituzione totale. Aumentano i contatti con altre associazioni per avere notizie dei trasferimenti successive alle rivolte, arrivano richieste di informazioni da parte di parenti che non hanno notizie dei propri familiari. Ma non andando in istituto gli strumenti di informazione sono limitati.

Cambia la quotidianità e cambia anche il modo di lavorare, perché per molti assistenti

volontari di cooperative e associazioni quello in carcere è lavoro, professionalizzato,

approfondito e costruito negli anni. Anni in cui si sono seguite le stesse procedure, cristallizzate sull’ombra della burocrazia dell’istituzione.

Tanti da dentro scrivono pieni di speranze, ma arrivano i rigetti, anche per chi aveva già percorsi avviati. Arrivano i rigetti per chi non ha un posto dove andare. Tanti, stranieri soprattutto, non hanno nemmeno provato a chiedere nulla, perché non avendo una rete di supporto esterna sanno già che non li farebbero uscire. Le persone che riescono lentamente a uscire sono poche rispetto a chi ne avrebbe le caratteristiche. Ritorna il

bilanciamento tra necessità di sicurezza e coraggio della magistratura, mettendo in secondo piano il diritto alla salute, benché diritto fondamentale. Far uscire le persone dal carcere è prima di tutto una questione di tutela della salute prima che di penalità. I semiliberi sono in licenza e da loro arrivano le prime telefonate. Sono passati dalla condizione di detenzione alla solitudine della quarantena, in case spesso vuote, con bisogno di ascolto e contatto umano che non trova soluzione nella normalità. Arrivano anche i loro problemi pratici, come affrontare le spese economiche della gestione di una casa se le attività lavorative sono ferme. Il pensiero di dover scegliere se tornare in carcere per l’impossibilità di mantenersi sfiora i pensieri e viene allontanato. Simboleggia comunque il fallimento dello stato sociale.

Poi sono gli ex-detenuti a iniziare a chiamare, anche da altre nazioni, anche loro in

lockdown. Non ti chiedono come stai, perché non è quello il ruolo dell’operatore. Hanno

bisogno di ascolto e di supporto, anche a distanza, anche dopo tempo. Serve un confronto e serve vedere un volto amico e iniziano le videochiamate.

Superare lo scoglio della videochiamata non è stato semplice. Per chi fa un lavoro di relazione, soprattutto negli istituti penitenziari dove la tecnologia è bandita, non è facile abituarsi. Poi ti accorgi che passi metà della tua giornata collegata in diverse piattaforme on line, facendo riunioni e vedendo persone sconosciute e decidi che anche il colloquio di supporto può essere gestito così.

Cambia e si stravolge la prospettiva del controllo; prima eri tu in istituto a scegliere e chiamare le persone. Ora solo loro che decidono quando serve e chiamano. Un po' come quando si ricevono le chiamate dal carcere, non importa cosa stia avvenendo nel mondo. Ma quei 10 minuti servono, servono ora e se non si risponde non si sa quando torneranno. Cambiano in parte le comunicazioni, il carcere inizia a modernizzarsi, entrano tablet e telefoni per facilitare le comunicazioni con i partenti, si sperimentano le video-lezioni. Si scongiurano problemi di sicurezza e controllo e si auspica che questi strumenti rimarranno in uso dopo l’emergenza. Ci viene raccontato di detenuti commossi per aver rivisto le pareti di casa, per aver visto un parente che non poteva recarsi a fargli visita. Parallelamente, con le persone non autorizzate continuano a scriversi lettere di carta. Con il terzo settore, con i volontari, si scrivono ancora lettere di carta. Mentre stai facendo una riunione on line con persone di diversi paesi del mondo, ti ricordi di dover comprare un francobollo per spedire una lettera, magari contenente l’indirizzo urgente dell’avvocato, ad una persona che si trova a 4 km da casa tua.

Si proverà, si chiederà, si valuterà se poter inserire anche i volontari, i colloqui, gli sportelli informativi e di supporto tra le persone da poter chiamare, qualora ve ne fosse l’esigenza.

Sappiamo quanto è importante in questo momento proteggere le persone detenute dal contagio, ma sappiamo anche quanto è abile il sistema carcere ad adagiarsi su modalità

respingenti della società esterna. Per questo è importante esserci, sempre e comunque, in qualsiasi forma.