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’emergenza sanitaria provocata dalla diffusione a livello planetario del Covid-19 è

stata paragonata ad una apocalisse, nel senso etimologico del termine, ovvero ad un disvelamento capace di mettere a nudo il nascosto, quello che non potevamo o volevamo vedere, come ad esempio il disastro prodotto dallo smantellamento dei sistemi sanitari pubblici, le disuguaglianze che caratterizzano città e territori, agendo come moltiplicatori nella incidenza e nella pericolosità del virus.

Anche l’universo carcerario non ha fatto eccezione, in Italia abbiamo visto emergere drammaticamente le criticità del nostro sistema penitenziario all’indomani della decretazione delle misure di emergenza, così come ampiamente documentato in molti scritti di questo rapporto.

Ma la pandemia come auspicato da più parti può essere anche un momento generatore di pensiero nuovo, per imboccare nuove vie per il futuro che ci aspetta. Partendo da questa premessa vorremmo allora dedicare alcune riflessioni alla questione della organizzazione spaziale del carcere.

Le misure decise nel nostro paese per contenere la diffusione del Covid-19 hanno innanzitutto disvelato la condizione di sovraffollamento in cui versano le nostre realtà carcerarie e quindi l’impossibilità rebus sic stantibus di mettere in atto le principali regole per il contenimento del virus. Ma già come successo in passato il sovraffollamento sta riportando in auge l’ideologia della mera capienza schiacciando il dibattito sullo spazio carcere solo su questo aspetto. Come hanno dichiarato in questi giorni politici e importanti magistrati il non aver voluto costruire più carceri nel recente passato (si veda lo stop al Piano Carceri del 2010) ha fatto sì che non si potesse oggi fronteggiare l’emergenza, ma basterà costruire contenitori più ampi e il problema potrà essere facilmente risolto in futuro!

Tuttavia, il carcere non è un mero contenitore e le difficoltà nella gestione della emergenza, così come nella quotidianità della detenzione, non sono solo un problema di capienza, ma dipendono da carenze strutturali, imputabili sia alle pessime condizioni dello stato di manutenzione delle strutture sia alla eclissi della cultura progettuale dello spazio carcere. Nelle righe seguenti proviamo a tratteggiarne i contorni.

Innanzitutto, dobbiamo ricordare che ad una omogeneità di trattamento definita dalla legge non corrisponde una omogeneità strutturale del patrimonio penitenziario.

Infatti, nel territorio italiano convivono strutture costruite in epoche differenti, con fini e funzioni diverse, e tutto ciò condiziona di per sé in maniera pesante l’esperienza della detenzione. Possiamo distinguere fra edifici risalenti a prima del Settecento, le cosiddette carceri antiche, ovvero vecchi edifici, come monasteri, riadattati al contenimento. Strutture ottocentesche nate come penitenziari e basate su modelli architettonici radiali o a palo telegrafico, e infine realizzazioni novecentesche che riprendono tipologie preesistenti o adattano gli spazi ad esigenze di massima sicurezza, come nel caso delle carceri costruite nell’epoca del terrorismo. D’altronde 18 delle 98 carceri visitate dall’Osservatorio di Antigone nel corso del 2109, il 19,5%, è stato costruito prima del 1900.

Si tratta di strutture con una articolazione interna molto diversa, sia per quanto riguarda le celle e gli spazi collettivi, sia nel rapporto fra pieni e vuoti, sia per la maggiore o minore enfasi data ai meccanismi di sorveglianza, isolamento e visibilità.

Questa persistenza di un patchwork di situazioni spaziali che coesistono in maniera incoerente sul territorio è riconducibile a delle cesure che progressivamente hanno

marginalizzato il dibattito sullo spazio carcere impedendo un ripensamento radicale . 21

La prima cesura è la crisi del rapporto fra architettura e carcere. Se la riforma del sistema penitenziario del 1975 apriva ad una riflessione sugli spazi interni in senso comunitario, ad una loro maggiore modularità e possibilità di dialogo con l’esterno, la emergenza terrorismo ha bruscamente interrotto questa possibilità progettuale, le realizzazioni post-riforma ovvero quelle degli anni Ottanta sono state improntate alla massima sicurezza restringendo significativamente gli spazi esterni e collettivi. E questo ha fatto sì che non solo si è sfilacciato lo spirito della riforma nella nuova progettualità carceraria, ma che le strutture degli anni Ottanta si sono rivelate più afflittive di molte di quelle ereditate dal passato.

A partire da questa frattura il dialogo fra carcere e architettura sostanzialmente non ha mai ripreso vigore, stante anche una crisi profonda della disciplina sempre meno interessata alla dimensione pubblica e sociale della produzione dello spazio e sempre più ripiegata sulla esaltazione del capitale simbolico.

L’altra frattura è quella del rapporto con la città: la riforma del sistema penitenziario apriva il carcere al territorio, la battaglia della de-istituzionalizzazione è stata infatti portata avanti anche in nome del diritto alla città. Ma invece i criteri di identificazione delle nuove aree di collocazione delle strutture penitenziarie si sono basati sulla dispersione strategica, ovvero sul costo basso dei terreni e sul desiderio di mettere a distanza una realtà sempre più sgradita e da isolare dal tessuto urbano. Inoltre, più in generale è scemato l’interesse per una presa in carico da parte del territorio dell’universo carcerario che aveva animato il dibattito negli anni della riforma. Abbiamo

Si riprendono di seguito alcuni dei temi presentati in S. Anastasia, F. Corleone, L. Zevi, (a cura di), Il corpo e lo spazio della pena,

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Ediesse, Roma 2011.

cioè assistito ad una progressiva periferizzazione del carcere sia nell’allontanamento delle strutture sia in una sorta di rimozione collettiva dei problemi della detenzione, e tutto questo ha ulteriormente aggravato l’isolamento, riducendo le possibilità di scambio e aumentando il senso di distacco. Ed è in questo stato di declino, di abbandono e di inadeguatezza e cacofonia dei suoi spazi che si presenta il carcere ai tempi del Covid-19. Lo slogan “Io resto a casa”, che ha accompagnato le misure di confinamento, ha assunto nel contesto carcerario un senso tragico. Poiché il farsi mondo dello spazio abitativo implicito nello slogan è impossibile in un contesto che soffre di una forte deprivazione spaziale che va al di là della condizione di detenzione investendo lo spazio carcere nel suo complesso.

Ma come dicevamo all’inizio il disvelamento può essere l’occasione per riattivare un pensiero progettuale capace di intervenire sulle contraddizioni e sulle incongruenze che il patrimonio carcerario riflette, sulla monolicità di soluzioni spaziali che hanno privilegiato il controllo e l’isolamento penalizzando una maggiore articolazione interna e un ruolo diverso degli spazi comuni e di quelli aperti e non. In questi giorni si stanno moltiplicando le riflessioni e le proposte su come ripensare gli spazi pubblici, le città e i territori. Ora più che mai sarebbe auspicabile che questo senso di possibilità nuova investisse anche l’universo carcerario a partire dai suoi spazi e da un ritrovato dialogo con la città.

Di neceità virtù. La tecnologia entra