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1)Introduzione: le zone grigie di un anno particolare

“E’ una zona grigia, dai contorni mal definiti, che insieme separa e congiunge i due campi dei padroni e dei servi. Possiede una struttura interna incredibilmente complicata, e alberga in sé quanto basta per confondere il nostro potere di giudicare” Primo Levi, I sommersi e i salvati

S

crivere delle zone grigie del penitenziario in questo momento di pandemia è

particolarmente complesso, per quattro principali motivi: l’emergenza Covid-19 ha sospeso per ragioni comprensibili e di salute pubblica la possibilità di accesso al carcere delle persone che non fanno parte dell’organico penitenziario o che non vi sono ristrette. Quella relazione minima che assieme allo spazio murato, compone il “carcere” viene ridotta all’osso: spazio (insufficiente), controllori e controllati. È il carcere che si rivela nella sua essenza, senza quegli strumenti di mediazione che spesso lo trasformano, lo camuffano per i detrattori o lo umanizzano per i sostenitori della effettiva funzione rieducativa. 

Questo introduce il secondo motivo di complessità: la capacità di guardare, di monitorare, di svolgere un’azione di critica e di trasparenza diventa, in questo momento, impossibile. Ci si deve affidare al racconto, che passa attraverso le telefonate e le lettere dei familiari, ma che è, in qualche modo, inquinato dalla preoccupazione dai due lati del muro di cinta, e travisato dal timore di una violenza e dalla paura collettiva dettata dalla pandemia. Setacciare quelle parole, il telefono senza fili tra detenuti e associazione, diventa operazione difficile, soprattutto perché l’azione di monitoraggio degli abusi passa attraverso una microfisica del potere che si esplicita nelle interazioni della visita. Eppure, quando le segnalazioni diventano circostanziate, coerenti, ripetute da fonti differenti, la precauzione lascia il passo alla richiesta di chiarimento, di maggiore indagine, proprio ora in cui guardare, riferire, far attraversare i corridoi da occhi esterni diventa impossibile. Il terzo motivo è l’arrivo della pandemia in un penitenziario italiano già in sofferenza: per le cifre del sovvraffollamento “inumano e degradante” di quota

61.230 (è il numero dei detenuti al 29 febbraio 2020); per la composizione sociale, fatta di fragilità psichica, assenza di reti famigliari, una crescente povertà assoluta. È una popolazione detenuta che manca, sempre più sovente, di strumenti per un qualsiasi aggancio istituzionale, che ha, di fatto,  trasformato il carcere in quella che Goffman chiamava (parlando dell’ospedale psichiatrico) “pattumiera senza speranza”. Un carcere dolente, che aveva già manifestato il suo malessere in un anno particolarmente significativo sia per il numero di casi di presunte violenze che erano stati raccontati, emersi dalle testimonianze e dalle denunce dei ristretti e delle loro famiglie, che per la risposta di procedibilità sui ricorsi da parte dei magistrati. Infine, un quarto e ultimo motivo: l'esplosione delle rivolte penitenziarie tra il 7 e il 9 marzo che come il Garante nazionale ha riportato: “49 Istituti sono stati coinvolti, in maniera diversa; in talune

situazioni la protesta ha assunto la connotazione di una drammaticità che non si vedeva nel nostro Paese da decenni: risultano 14 morti tra le persone detenute e alcune tuttora in ospedale in condizioni precarie, 59 feriti, per fortuna nessuno grave, tra i poliziotti penitenziari. Inoltre, cinque operatori sanitari e due poliziotti sono stati trattenuti in ostaggio per otto ore a Melfi. A ciò si aggiunge la situazione, documentata anche in un video, del facile allontanarsi di ben 72 persone dall’Istituto di Foggia: 16 sono tuttora latitanti”. 

Questo breve contributo tenterà di ragionare sulle forme della violenza, su come poterle leggere, e come queste vicende potranno avere delle ripercussioni sulla “nuova normalità” che ci attende alla fine della pandemia. Sebbene molte riflessioni siano state condivise all’interno dell’associazione, queste posizioni sono una mia responsabilità, proprio per la delicatezza del tema trattato. 

2. Gli abusi in carcere nel 2019: le forme della violenza quotidiana

Il 2019 è stato un anno penitenziario particolare, in cui ci siamo trovati più volte a discutere il perché della presenza di casi così crescente, di segnalazioni frequenti e circostanziate. Si è trattato sia di eventi singoli, che di testimonianze di violenze reiterate, meccanismi strutturali che sono stati, in qualche modo, portati alla luce. Rispetto a quanto avvenuto nei penitenziari di Torino, Monza, San Gimignano, Ivrea, Viterbo. Queste ultime segnalazioni hanno trovato conferma nel monitoraggio effettuato dal CPT che ha riportato forme eccessive di uso della forza da parte degli agenti anche nelle carceri di Biella, Milano Opera e Saluzzo. Come riporta il report, qui tradotto in Italiano

da Antigone:

“Nelle carceri visitate, la gran parte dei detenuti incontrata dalla delegazione ha dichiarato di essere trattata correttamente dal personale. Tuttavia, nelle carceri di Biella, Milano Opera e Saluzzo la delegazione ha raccolto alcune accuse di uso eccessivo della f o r z a e maltrattamenti fisici. Nel carcere di Viterbo, inoltre, alla delegazione sono pervenute numerose denunce di maltrattamenti fisici e il CPT ha

identificato uno schema di comportamenti da parte del personale volti all’inflizione deliberata di maltrattamenti. Il rapporto  descrive diversi casi in cui le lesioni osservate e i referti medici erano compatibili con le accuse di maltrattamenti avanzate dai detenuti”.

Perché tante denunce? Cos’è accaduto nell’ultimo anno? Ci siamo interrogati spesso, sulle ragioni di tante segnalazioni. Una parte dell’associazione sostiene che i processi agli agenti, in particolare l’esemplare processo Cucchi, abbiano squarciato il velo, e abbiano in qualche modo reso ‘dicibile’ quello che veniva sottaciuto in precedenza, ossia la violenza in divisa, ritenuta, in qualche modo, impunibile. Sebbene io non possa escludere (né, tantomeno, misurare) quanto questo clima culturale abbia inciso, tendo a propendere per una seconda interpretazione. Ossia che sia aumentato il livello di conflittualità interna al penitenziario, e che siano, pertanto, mutate le forme di violenza.  Partendo dal presupposto che il carcere si fonda sull’uso legittimo della forza, parafrasando Franco Basaglia e Franca Ongaro possiamo dire senza retorica che la distanza tra l’ideologia “il carcere è un luogo di riabilitazione del condannato” e la pratica “il carcere è un luogo di segregazione e  violenza”  è evidente. Ma di che tipo di violenze stiamo parlando? Se manteniamo la distinzione che propone Benjamin tra violenza come mezzo e violenza come fine, possiamo forse supporre che negli spazi del penitenziario ci sia una violenza-mezzo (la pratica coercitiva di privazione della libertà) ed una violenza-fine. In questo, ci sono utili le classificazioni della violenza proposte da Philippe Bourgois, che ci permettono di capire come spesso l’ambiguità lessicale porti ad accorpare le forme della violenza, dei ristretti e dei corpi di polizia, in un unico calderone linguistico. 

Secondo Bourgois possiamo distinguere tra: violenza strutturale, violenza simbolica, violenza quotidiana e violenza politica. 

La violenza strutturale, così come proposta da Galtung (1969, 1975), è una violenza cronica, storicamente trincerata nell’oppressione politico-economica e nella diseguaglianza sociale, che spazia dallo sfruttamento delle forme internazionali del mercato alle condizioni lavorative locali assieme ad alti tassi di mortalità infantile. Nello spazio del penitenziario, questa forma di violenza è parte del vissuto dei ristretti, soprattutto nella componente migrante della popolazione detenuta. 

La violenza simbolica definita da Pierre Bourdieu (1997) si manifesta attraverso le forme interiorizzate di umiliazioni e legittimazioni delle diseguaglianze e gerarchie che vanno dal sessismo, al razzismo, fino alle forme più intime di espressione del potere di classe. È esercitata attraverso “la cognizione e l'errato riconoscimento, la conoscenza e il sentimento, con l'inconsapevole consenso dei dominati" (Bourdieu, 2001). Se pensiamo al penitenziario, si manifesta nelle forme del nominare, dalla “domandina” allo “spesino”, pratiche lessicali già condannate dagli stati generali dell’amministrazione penitenziaria.  La violenza quotidiana come concetto viene ripreso dai lavori di Nancy Scheper-Hughes

(1992, 1996) per mettere a fuoco l'esperienza individuale vissuta che normalizza le piccole brutalità e il terrore a livello di comunità che crea un senso comune o un ethos della violenza: sono pratiche quotidiane ed espressioni di violenza a livello micro e interazionista: interpersonale, domestico e delinquenziale. 

È questo concetto, declinato nei lavori successivi da Bourgois come violenza continua, che, a mio parere, meglio descrive le forme di abuso (in gradazioni che verranno poi decifrate dalla magistratura in sede processuale, e che spaziano dalla violenza verbale alla tortura) che hanno caratterizzato il penitenziario soprattutto nell’ultimo anno. Secondo l’autore, la violenza opera lungo un continuum che include dimensioni strutturali, simboliche, quotidiane e intime. Proprio per questo la violenza non può mai essere intesa solo in termini di fisicità - forza, aggressione, o l'inflizione del dolore. La violenza comprende anche gli assalti alla personalità, alla dignità, il senso del valore o del valore della vittima. La dimensione sociale e culturale della violenza è ciò che dà alla violenza il suo potere e il suo significato. Riconoscere il fenomeno della violenza quotidiana e documentare l’intreccio tra violenza intima e violenza strutturale. Proprio per questa ragione gli ultimi due anni (2018-2019) si sono caratterizzati per forme di violenza continua, acuite dal conflitto e dal portato di sofferenza che i nuovi reclusi portano con sé. Sono le storie di doppia diagnosi, di sindrome da stress post-traumatico legate agli sbarchi e alle violenze della rotta mediterranea, sono le torture nei campi libici, sono le forme di abuso che sono già iscritte nei corpi dei reclusi e che, nel conflitto, trasformano una violenza fine (la coercizione disciplinare) in una violenza quotidiana, che spesso assume forme più acute ed episodi più intollerabili. Torna utile richiamare qui il concetto di "crimini di pace" formulato da Franco Basaglia: i crimini di pace ci costringono a considerare gli usi e i significati paralleli dello stupro nei periodi di guerra e di pace; oppure a riconoscere le somiglianze tra, da un lato, i raid di confine e le aggressioni fisiche compiute da agenti nei confronti di rifugiati. Quei crimini di pace amplificano le forme del conflitto nel penitenziario, che non a caso si manifesta, ancora una volta, negli spazi grigi: nelle celle-infermeria, nei repartini psichiatrici, negli isolamenti, nei reparti che spesso non hanno un nome e si collocano negli interstizi delle strutture. Per questo credo che sia più corretto utilizzare il termine abuso per descrivere queste pratiche: “un’esperienza personale di livelli intollerabili di sofferenza (che spesso si esprime sotto forma di violenza interpersonale e autodistruzione) in individui socialmente vulnerabili, nel contesto di forze strutturali (politiche, economiche, istituzionali e culturali) e manifestazioni fisiche di disagio (malattia, dolore fisico, deprivazione emotiva)” (Bourgois, 2011).