• Non ci sono risultati.

S

i immagini una situazione in cui, all’improvviso, giunge notizia di un pericoloso virus a elevata trasmissibilità che si sta rapidamente e capillarmente diffondendo. Le notizie al riguardo vengono diffuse in modo caotico generando un senso di insicurezza rispetto all’incolumità propria e delle persone care che, per un periodo imprecisato, sarà impossibile rivedere. L’unica informazione che giunge chiara dagli schermi televisivi riguarda la necessità di mantenere una certa distanza fisica tra le persone per scongiurare un contagio potenzialmente letale per gli anziani e coloro che sono affetti da una o più patologie. Ma, guardandosi intorno, ci si rende conto di essere costretti a condividere pochi metri quadrati con vari individui, alcuni fra questi anziani, molti fra questi già malati.

Lo scenario fin qui presentato, affine a quello che hanno sperimentato molte delle persone detenute nelle carceri italiane all’inizio del mese di marzo, suggerisce che le misure adottate in tutta Italia per fronteggiare l’emergenza sanitaria in carcere abbiano assunto la forma di quello che potremmo definire un vero e proprio isolamento mentale. Ciò ha favorito l’emergere di sensazioni di incertezza, paura e rabbia.

A causa dell’assenza di internet e delle difficoltà a comunicare con l’esterno, in carcere è davvero complesso, se non impossibile, scegliere con cura le proprie fonti di informazione. Fin dall’inizio della diffusione del virus in Italia, le notizie al riguardo sono state fornite in modo caotico generando un diffuso senso di incertezza e di insicurezza in tutta la popolazione. In carcere ciò è stato ulteriormente acuito dal fatto che molto spesso le decisioni prese dalle direzioni degli istituti per prevenire il contagio (quali la sospensione dei colloqui con i familiari) non sono state adeguatamente comunicate e spiegate alla popolazione detenuta che si è dunque ritrovata in una situazione di completo spaesamento.

Fattori situazionali come l’elevato tasso di sovraffollamento e la condizione sanitaria della media della popolazione reclusa, potrebbero inoltre aver notevolmente contribuito a diffondere la paura del contagio. Nelle prime settimane di marzo infatti risultava impensabile poter rispettare le misure di distanziamento fisico all’interno di istituti dato l’elevato tasso di sovraffollamento. Per dare un’idea dell’impossibilità di mantenere le distanze di sicurezza, basti pensare che in 25 delle carceri visitate da Antigone nel 2019 c’erano celle in cui non erano garantiti i 3mq minimi per persona.

Altra fonte di paura riguarda il fatto che la letalità del virus appare maggiore per le persone affette da una o più patologie e che tra la popolazione detenuta vi è un’incidenza di patologie fisiche e respiratorie molto più alta della media nazionale. La paura però non riguarda solo la propria incolumità, ma anche quella delle persone care. Ed è proprio la preoccupazione per queste ultime uno dei fattori principali che ha innescato un circolo di rabbia e senso di ingiustizia nella popolazione reclusa in seguito all’improvvisa sospensione dei colloqui, seguita da un’iniziale difficoltà di contatto telefonico per assicurarsi del fatto che stessero bene e per cercare in loro sostegno e supporto. Il dissenso nei confronti delle misure adottate è il risultato di provvedimenti restrittivi che sono percepiti come illegittimi, anziché come modi per tutelare la propria salute. Se infatti da un lato sono state immediatamente interrotte attività e colloqui, dall’altro gli operatori penitenziari hanno continuato invece a entrare e uscire dal carcere, spesso senza l’utilizzo di adeguati dispositivi di protezione individuale.

L’analisi fin qui proposta suggerisce che, se da una parte le misure adottate risultano ragionevoli al fine di scongiurare la diffusione del virus, dall’altra appare evidente come queste abbiano favorito il dilagare di emozioni avverse all’accettazione dello stato delle cose, fattori intrapsichici che hanno avuto certamente un ruolo cruciale nell’esacerbare le capillari rivolte carcerarie avvenute nella Penisola.

Ma è davvero possibile spiegare le numerose manifestazioni di dissenso avvenute nelle carceri italiane solo alla luce di queste componenti psicologiche di carattere individuale, come spesso è stato proposto da media e commentatori?

Guardare a queste rivolte da una prospettiva psicosociale può essere molto utile per comprendere anche altre ragioni, di carattere interpersonale, sulla base delle quali la popolazione detenuta ha scelto di comunicare le proprie istanze attraverso delle modalità che a tratti hanno assunto carattere violento. Infatti, secondo la teoria dell’identità sociale (Tajfel & Turner, 1979) il comportamento degli individui non può essere spiegato solo in termini di identità individuale, ma necessariamente anche in termini di identità sociale o collettiva, ovvero sulla base della propria appartenenza a un gruppo.

All’interno del carcere la popolazione detenuta rappresenta senz’altro un gruppo con una forte identità sociale, in quanto le persone si trovano a condividere per lunghi periodi di tempo una comune esperienza di subordinazione, la quale promuove un senso di interdipendenza e di destino comune. Il percepirsi come gruppo e la connotazione del proprio gruppo come subalterno sono due fattori cruciali nel determinare l’utilizzo di strategie collettive di conflitto sociale, come le proteste, al fine di migliorare le proprie condizioni (Haslam & Reicher, 2012).

E ancora, laddove vi è appartenenza a un gruppo sociale ben definito, come quello della popolazione reclusa, si tende ad assumere su di sé la storia, le aspettative e talvolta anche i pregiudizi che dall’esterno ci sono verso il gruppo stesso (Moscovici,

1989). Se pensiamo in questo senso alle rivolte del primo marzo possiamo inserirle in una storia nota, infatti la pratica della rivolta è stata scelta spesso dalla popolazione detenuta come modalità comunicativa per richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica.

Solitamente in carcere il conflitto sociale viene evitato attraverso l’applicazione di una serie di dispositivi di controllo formali e informali che offrono un guadagno a chi sceglie di conformarsi e qualcosa da perdere a chi invece si oppone. Possiamo ipotizzare che l’avvento del virus, le drastiche misure adottate dalla direzione e le anticipazioni che la popolazione detenuta ha fatto sui possibili effetti del contagio siano state tali da far saltare quei capisaldi della quotidianità detentiva che solitamente si regge sul contenimento del conflitto sociale manifesto.

Considerando quanto detto, non stupisce che di fronte a un senso di impotenza e frustrazione la scelta della popolazione reclusa su come gestire queste emozioni sia ricaduta su un copione già noto e familiare anche a chi osserva. Fin dai primi momenti delle tensioni Antigone ha suggerito la via del dialogo e del coinvolgimento di tutti i protagonisti delle suddette vicende per evitare la messa in atto di atteggiamenti violenti e prevaricatori. Come abbiamo tristemente appreso il bilancio finale dei fatti si è rivelato negativo per tutte le parti in causa: alcune persone sono morte e i trasferimenti di gruppi di detenuti in nuove carceri hanno generato una serie concatenata di proteste.

Bibliografia breve:

Haslam, S.A., Reicher, S.D. (2012), When prisoners take over the prison: A social

psychology of resistance. Personality and Social Psychology Review, 16(2), 154-179.

Moscovici S. (1989), Des représentations collectives aux représentations sociales:

éléments pour une histoire. Les représentations sociales, 5, 79-103.

Tajfel H., Turner J. C. (1979), An integrative theory of intergroup conflict. In W. G. Austin & S. Worchel (Eds.), The social psychology of intergroup relations (pp. 33-47). Monterey, CA: Brooks/Cole.