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Sul nocciolo duro dei diritti uman

1. Estensione semantica del concetto di guerra: dai kadogo ai dron

1.7. L‟America è già nel futuro: i dron

Strano a dirsi? Il Pentagono adesso recluta i suoi soldati con i videoga- me. L‟Army Experience Center – un‟enorme sala giochi in un centro com- merciale di Philadelphia, messa in piedi dall‟esercito americano – offre la

142 Per King-Hall (1958) e Hart (1960), le moderne armi di distruzione di massa avrebbero messo fuori gioco ogni praticabile strategia di difesa di territori e popolazioni (fonte: http://pace.unipi.it/pubblicazioni/articoli/altieri). Ciò che qui voglio osservare – mi sembra in fondo palese – non è certo l‟indesiderabilità della riduzione degli armamenti nucleari, quanto piuttosto l‟irrilevanza della pratica al fine di scongiurarne definitivamente l‟uso. Sul carattere illusorio della distruzione delle armi atomiche concordato in tempo di pace, v. an- che Russell (1956, 1997, p. 741; 1959, 1997, p. 743).

143 Il termine glocale (e i suoi derivati: glocalizzazione, glocalismo) è stato introdotto dal sociologo Zygmunt Bauman (1998) per mettere in relazione l‟ambito globale con le realtà locali e studiarne le reciproche influenze.

possibilità di „giocare‟ con varie simulazioni che riproducono le missioni in Iraq e Afghanistan. Diventare un soldato in Medio Oriente ora è un diver- timento pubblico, da centro commerciale, adatto a comitive di amici e fa- miglie.

Nella valle dello Swat, intanto, seimila taliban si barricano nei villaggi. Da giorni, aerei americani senza pilota a bordo ne solcano i cieli. Sono i „droni‟, l‟evoluzione dei sistemi di difesa-offesa ai quali le guerre in corso imprimono una decisa accelerazione. Ricognizione, attacco, trasporto, ri- cerca e salvataggio, sono i compiti attribuiti sempre più spesso a questi ro- bot: è la guerra automatizzata, che prova a fare a meno dell‟elemento uma- no. Chiamati genericamente Unmanned Systems, questi armamenti senza personale a bordo si stanno imponendo nei mezzi aerei, nei motoscafi, negli elicotteri, negli automezzi di terra144.

Ma la strategia solleva più d‟un dubbio. Secondo un rapporto indirizzato all‟Onu145, l‟uso dei droni per „operazioni chirurgiche‟ – volte a eliminare i capi di al-Qaeda – è ad alto rischio. I raid aerei vengono telecomandati da basi distanti migliaia di miglia dal fronte di guerra; e visto che gli operatori agiscono solo stando davanti agli schermi dei computer, il pericolo è che sviluppino un‟attitudine a uccidere come se si trattasse di un gioco alla pla-

ystation146. E poi, chi l‟ha detto che queste operazioni sono più mirate di quelle tradizionali? Anche queste, come quelle, fanno i loro „danni collate- rali‟, mietendo vittime tra i civili; vittime che nei rapporti di intelligence, con una buona dose di cinismo, vengono definite „minori‟. I droni evitano perdite tra i soldati americani ma, ci rammenta la cronaca di questi mesi, fanno strage tanto di pericolosi terroristi, quanto di persone innocenti – ma- gari invitate a una festa o a un matrimonio.

144 Nella prima guerra del Golfo, nel 1991, l‟Air Force aveva un centinaio di droni: oggi ne volano settemila.

145 Il rapporto è di Philip Alston.

146 L‟altro lato della medaglia, del resto, non è meno inquietante. In dieci anni di guerra sul fronte iracheno e afgano, decine di migliaia di ex combattenti – uomini e donne – sono tor- nati a casa mutilati nell‟animo dalla sindrome da stress post traumatico (PTSD). Oggi vivo- no nel terrore di ciò hanno visto, subito, inflitto, e sono ormai incapaci di affrontare un loca- le pubblico, di condurre un‟esistenza „normale‟.

Chirurgia e morte asettica è il dualismo della guerra americana d‟oggi. Ma è solo un‟idea – un ideale! – non ancora realizzatasi sul campo di batta- glia. La guerra, per quanti sforzi si facciano, non è ancora un gioco alla

playstation. La guerra, sul campo, è sempre la solita, sporca, faccenda. La

guerra – parafrasando Battistelli (2000, pp. 84-85) – è orrore, crudeltà, sof- ferenza. L‟idea, a noi uomini civili tanto familiare e ben accetta, di poter discriminare tra una guerra „pulita‟ e una „sporca‟ è così falsa e lontana dal- la realtà delle cose quanto un buon libro di storia lo è dalla prima linea. Una differenza rispetto al passato sembra invero di poterla cogliere, ed è questa: che la morte per guerra – oggi, in Occidente – è diventata culturalmente i- naccettabile147. In questa prospettiva, il mezzo tecnologico teleguidato ha un futuro assicurato: se ci saranno ancora vittime, apparterranno tutte allo schieramento avverso. Così, quand‟anche con imbarazzo, nella guerra ci siamo ancora sempre in mezzo. Con mille sfaccettature o ipocrisie, con mil- le cautele linguistiche, ma sempre in mezzo. È il tema che prenderò in con- siderazione in queste ultime pagine del capitolo.

1.8. Considerazioni

Non esistono buoni e cattivi tout court: esiste la guerra, con il suo porta- to di ingiustizie e atrocità, da ambo le parti; questo sembra dirci Hemin- gway (1940, 1958) nel suo romanzo ispirato alla guerra civile spagnola (1936-1939)148. È la barbarie ciò che puntualmente alligna su ogni campo di battaglia.

Questa lunga trattazione ci ha portato a riflettere sul concetto di guerra, imponendo implicitamente – ad ogni piè sospinto – una domanda: ma ci è poi davvero familiare, così come normalmente si crede, questo concetto? Osserva Andò (2000, p. 24): «Si tratta di capire cosa debba intendersi per guerra oggi, in un mondo in cui tutti gli stati tendono ad apparire, qualun- que sia il regime politico che esprimono, come costruttori di pace, e quindi indisponibili a rendersi promotori di azioni belliche rivolte in modo esplici- to a fini di conquista». Come tutti i concetti, anche quello di „guerra‟ sem-

147 Sul punto vedasi, tra gli altri, Bagnasco (et al., 2009, p. 154).

148 Sul valore sociologico che può essere contenuto nei testi letterari vedasi, tra gli altri, Co- ser (a cura di, 1963), Merrill (1965) e Perrotta (1988, pp. 16-17).

bra piuttosto un ritaglio dell‟esperienza dalla forma e dai contorni in conti- nua ridefinizione, con un‟unica, tragica, evidenza di fondo: che è un ritaglio sempre più esteso, a dispetto dei buoni propositi che l‟uomo prova a mette- re sulla carta e a sottoscrivere. Il presidente Obama, all‟atto di ricevere il Nobel per la Pace, sembra esserne consapevole149:

Ricevo questa onorificenza con profonda gratitudine e grande umiltà. […] Forse il problema maggiore è che io sono il comandante in capo di una nazione impegnata in due guerre. Una di queste guerre sta lentamente esaurendosi [la guerra in Iraq]. L‟altra è un conflitto che l‟America non ha cercato, un conflitto a cui prendono parte in- sieme a noi altri quarantatre paesi, compresa la Norvegia, nel tentati- vo di difendere noi stessi e tutte le nazioni da ulteriori attacchi. Ciò non toglie però che siamo in guerra e che io sono responsabile del dispiegamento sul fronte, in una terra lontana, di migliaia di giovani americani. Alcuni di loro uccideranno. Alcuni saranno uccisi. Per questo vengo qui con l‟acuta consapevolezza di quale sia il costo di un conflitto armato, carico di difficili interrogativi sul rapporto fra guerra e pace e sui nostri sforzi per sostituire la prima con la secon- da. Non sono interrogativi nuovi. La guerra, in una forma o nell‟altra, ha accompagnato l‟uomo fin dalle sue origini. Agli albori della storia nessuno ne metteva in discussione la moralità: la guerra era semplicemente un fatto, come la siccità o la malattia; era il modo con cui le tribù e poi le civiltà cercavano di acquisire potere e risol- vevano le loro divergenze. Col tempo, mentre i codici giuridici cer- cavano di mettere sotto controllo la violenza all‟interno dei gruppi, filosofi, uomini di chiesa e statisti cercavano di regolamentare la for- za distruttiva della guerra. Emerse il concetto di „guerra giusta‟, che sottintendeva che la guerra è giustificata solo quando rispetta deter- minate condizioni: e cioè se viene mossa come ultima ratio o per au- todifesa, se la forza usata è proporzionata e se, nei limiti del possibi- le, i civili vengono risparmiati dalle violenze. Raramente nella storia si è vista una guerra che rispondesse al concetto di guerra giusta. […] Nell‟arco di trent‟anni, per due volte questo continente è preci- pitato nel gorgo della carneficina. E benché sia difficile immaginare una causa più giusta della sconfitta del Terzo Reich e delle potenze dell‟Asse, la seconda guerra mondiale fu un conflitto dove il numero complessivo delle vittime fra i civili superò quello dei soldati cadu-

149 Il presidente Obama riceve il premio per “il suo straordinario impegno in favore del dia- logo” – impegno assunto fin dai primi mesi del mandato – e per gli appelli (e i passi concre- ti) in vista della riduzione degli arsenali nucleari. È il 10 dicembre 2009, a Oslo.

ti150. Sulla scia di una distruzione tanto vasta, e con l‟avvento dell‟era nucleare, divenne chiaro sia ai vincitori che ai vinti che il mondo aveva bisogno di istituzioni che prevenissero un‟altra guerra mondiale. E così, venticinque anni dopo la bocciatura da parte del Senato americano della Lega delle Nazioni, l‟America guidò il mon- do alla costruzione di un‟architettura per mantenere la pace: il piano Marshall e le Nazioni Unite, strumenti per regolare la guerra, trattati per difendere i diritti dell‟uomo, impedire genocidi e limitare le armi più pericolose. Sotto molti punti di vista, questi sforzi ebbero succes- so. […] Passato un decennio dall‟inizio del nuovo secolo, questa vecchia architettura comincia a cedere sotto il peso di nuove minac- ce. Il mondo forse non trema più al pensiero di una guerra fra due superpotenze nucleari, ma la proliferazione delle armi nucleari ri- schia di rendere più probabile una catastrofe. […] La tecnologia mo- derna consente a pochi, piccoli uomini con una rabbia smisurata di assassinare un numero terrificante di innocenti. Dobbiamo essere consapevoli di una verità difficile da mandare giù: non riusciremo a sradicare il conflitto violento nel corso della nostra vita. […] Dico questa cosa pensando a quello che disse anni fa, in questa stessa ce- rimonia, Martin Luther King: “La violenza non porta mai una pace permanente. Non risolve nessun problema della società, anzi ne crea di nuovi e più complicati”. […] Ma in quanto capo di stato che ha giurato di proteggere e difendere la mia nazione non posso lasciarmi guidare solo dai loro esempi [il riferimento è anche a Gandhi]. Devo affrontare il mondo così com‟è e non posso rimanere inerte di fronte alle minacce contro il popolo americano. Perché una cosa deve esse- re chiara: il male nel mondo esiste. Un movimento nonviolento non avrebbe potuto fermare le armate di Hitler. I negoziati non potrebbe- ro convincere al-Qaeda a deporre le armi. […] Dunque sì, gli stru- menti della guerra contribuiscono a preservare la pace. Ma questa verità deve coesistere con un‟altra, e cioè che la guerra, per quanto giustificata possa essere, porterà sicuramente con sé tragedie umane.

Perché ci indigniamo tanto contro la guerra? Perché ogni uomo ha dirit- to alla propria vita, perché la guerra annienta vite umane piene di promesse,

150 Ha osservato Hannah Arendt (1963, 2009, p. 263): «Non è menzogna dire che il Tribuna- le di Norimberga fu per lo meno molto cauto nel muovere ai criminali tedeschi accuse che potevano essere ritorte. La verità è infatti che alla fine della seconda guerra mondiale tutti sapevano che i progressi tecnici compiuti nella fabbricazione delle armi rendevano ormai „criminale‟ qualsiasi guerra. Proprio la distinzione tra soldati e civili, tra esercito e popola- zione, tra obiettivi militari e città aperte, su cui si fondavano le definizioni che dei crimini di guerra aveva dato la convenzione dell‟Aja, proprio quella distinzione era ormai antiquata».

pone i singoli individui in condizioni che li disonorano, li costringe, contro la propria volontà, a uccidere altri individui, distrugge preziosi valori mate- riali, prodotto del lavoro umano, e altre cose ancora. La guerra di domani, a causa del perfezionamento dei mezzi di distruzione, significherebbe lo sterminio di uno o forse entrambi i contendenti. Tutto ciò è vero e sembra così incontestabile che ci meravigliamo soltanto che il ricorso alla guerra non sia stato ancora ripudiato mediante un accordo generale dell‟umanità. Non lo dico io oggi: lo scrisse Freud, nel lontano 1932.

La guerra d‟oggi, sempre più tecnologica, può dare l‟impressione di es- sere „pulita‟ e asettica. Ma è solo un‟impressione. Perché la guerra è sem- pre, nonostante tutto, morte e distruzione, e chi combatte dà la morte con l‟efferatezza di cui è capace. Trattati e tribunali per crimini di guerra vanno bene per il tempo di pace, ma nessuna norma e nessuna sanzione sembrano in grado di limitare la bramosia di morte dell‟uomo in armi. Avviate le osti- lità, la guerra riserva sempre le medesime atrocità: a dispetto della logica della convivenza civile, che prevede l‟accordo su cosa è lecito fare e su co- sa non lo è. Pensare di farla andare (e mantenerla) all‟interno dei paletti se- gnati dai trattati e dalle dichiarazioni sui diritti dell‟uomo è, ad oggi, solo una risibile utopia. Le parti belligeranti non sembrano mai vincolarsi a nul- la, se non alla loro brutale animalità151. Il concetto di guerra secondo tratta- to è concetto di pace. O di uomo folle che pensa, sbagliando, di essere or- mai troppo civile per ritrovarsi a fare, ancora una volta, la guerra delle be- stie. La logica della guerra – la mia vita per la tua – è rimasta immutata nel corso dei secoli. E pertanto, ogni qual volta si combatte – e/o ci si sente braccati con un‟unica possibilità di offesa a disposizione, fosse anche vana – seguendo quella logica la guerra tornerà a mostrare a tutti la sua vera fac- cia. A dispetto di chi pensa, o vorrebbe far credere, che alle soglie del terzo millennio la guerra sia diventata un affare pulito.

151 Sul parallelo uomo-animale nota Guiducci (1993, p. 46): «Un uomo o un gruppo o una nazione ottengono la „licenza di uccidere‟ considerando un altro uomo o un altro gruppo o un‟altra nazione come estranei alla specie umana, tanto da essere considerati a livello anima- le inferiore e senza qualità sociali di tipo superiore e, quindi, da poter essere soppressi, aggi- rando il divieto assoluto del codice genetico». Così, invece, Freud (1912-1913, 1991, p. 74): «Da tutte queste prescrizioni noi deduciamo che, nel comportamento verso i nemici, si e- sprimono anche altri impulsi oltre a quelli esclusivamente ostili. […] Si direbbe che anche in questi selvaggi sia vivo, molto prima di ogni legislazione ricevuta dalle mani di un dio, il comandamento „Non ammazzare‟, che non può essere violato impunemente».