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Sul nocciolo duro dei diritti uman

1. Estensione semantica del concetto di guerra: dai kadogo ai dron

1.3. Gaza e Israele: pietre contro “piombo fuso”

Ma la guerra non è una rappresentazione da applaudire osservandola da gradinate festanti. Il 2008 volge al termine, e il mondo prende fuoco nella Striscia di Gaza, un fazzoletto di terra percorribile in lungo e in largo in meno di un‟ora, dove vivono un milione e mezzo di palestinesi. Di questi, un milione sono registrati dall‟Onu come rifugiati; quindi, in teoria, sogget- ti alla protezione internazionale.

La questione israelo-palestinese è complessa e va ben oltre il braccio di ferro tra due popoli che si contendono la stessa terra. È complicata dalle differenti visioni religiose e culturali, dalle opposte interpretazioni dei me- desimi fatti storici. Nei termini dell‟Interazionismo simbolico, ci troviamo in presenza di differenti definizioni della situazione, e dell‟incapacità asso- luta degli uni di mettersi nei panni degli altri: ovvero, di far uso del role-

taking. Nei termini di Goffman (1959, 1969, p. 20 e seguenti), tra israeliani

e palestinesi non c‟è il benché minimo consenso operativo. Ma, temo, alla fin fine nessuna chiave di lettura risulterà adeguata a dar conto dei morti. Sembrerà anche paradossale, ma piuttosto che „spiegare‟, per capire talvolta è necessario solo „descrivere‟.

La storia recente

Hamas – acronimo delle parole arabe Movimento di resistenza islamica – nasce nel 1987, all‟inizio della prima intifada, la rivolta delle pietre dei ragazzi palestinesi a Jabaliya, nella Striscia di Gaza. Nel 2006 vince le ele- zioni legislative, entrando in conflitto con Fatah, il movimento sorto ad o- pera del leader palestinese Yasser Arafat. Dal maggio del 2007 Hamas con- trolla la Striscia di Gaza, da dove lancia i suoi razzi contro il sud di Israele. Nel luglio dello stesso anno, con un golpe militare, espelle da Gaza Fatah, adesso guidato dal presidente Abu Mazen.

Avvisaglie di guerra

22 dicembre 2008: la fine della tregua decretata da Hamas è scandita dal sibilo dei razzi Qassam, lanciati sul territorio israeliano. A Sderot, i bambi-

ni hanno pochi secondi per uscire da scuola e cercare riparo. Ma a Gaza, dall‟altra parte della frontiera, i loro coetanei arabi si preparano a qualcosa di molto peggiore: Israele sta per lanciare l‟operazione Piombo fuso come risposta, almeno così dichiara, a questi attacchi.

Il retroscena

Su una finta Striscia – costruita nel deserto in una base segreta, come ri- velerà in seguito il portavoce di Tsahal, l‟esercito israeliano – Israele pre- para l‟intervento da parecchio tempo, da oltre un anno, quando ancora i di- plomatici stanno ufficialmente negoziando il cessate il fuoco con Hamas. Così, quando venerdì 26 dicembre 2008 si apre la frontiera con la Striscia – quella vera… – è difficile pensare ad un attacco imminente. I raid partono invece il giorno dopo, di sabato, giorno di festa in Israele. Di festa?

La guerra ‘lampo’ (dicembre 2008 – gennaio 2009)

Gaza brucia. Ma davanti alle preoccupazioni espresse dalla comunità in- ternazionale per le sofferenze della popolazione civile, il ministro della Di- fesa Ehud Barak rassicura tutti: “Questa contro Hamas e chi lo sostiene è una guerra totale, ma non abbiamo nulla contro gli abitanti di Gaza. Aspi- riamo alla pace con i palestinesi ed eviteremo per quanto possibile di colpi- re i civili”. Anche il capo della diplomazia israeliana Tzipi Livni – politico israeliano tra i più moderati – rassicura il mondo: “La tregua non serve, a Gaza non c‟è alcuna crisi umanitaria perché l‟esercito sa distinguere tra Hamas e la popolazione civile”. Gaza però è una città a forte densità di po- polazione, e la battaglia difficilmente potrà svilupparsi in un modo che non sia quello tragicamente solito...

Diario da Gaza

La storia di vita, già lo sappiamo, è un punto sul mondo. Non tiene con- to delle ragioni dell‟altro, ma solo delle proprie. Il diario di Safa Joudeh non pretende di spiegarci le cause della guerra, o le ragioni e i torti di chi – da ambo le parti – l‟ha voluta. Ce ne mostra solo le conseguenze sulla po- polazione palestinese109.

109 Safa Joudeh, giornalista, ha seguito un master in Scienze Politiche alla Stony Brook

31 dicembre 2008

Abbiamo dovuto dormire per terra accanto alla cucina, al centro della casa, perché lì è più sicuro. L‟annunciatore alla radio m‟ha fat- to pena: “C‟è stata una bomba a est di Gaza City… Questa esplosio- ne che avete appena sentito è a ovest di Gaza City, quest‟altra a est”, era senza fiato perché non c‟era pausa fra le bombe. Hanno colpito nove volte il compound dei ministeri. Poi hanno aspettato quindici minuti che arrivasse la polizia, le ambulanze, la gente, prima di col- pire di nuovo, due volte. È una tattica che conosciamo bene. Per que- sto molti non s‟avvicinano. Però bisogna soccorrere i feriti, cercare i propri cari. In casa è finito il cibo, il pane da ieri. Abbiamo bollito un po‟ di pasta, accumulata nella dispensa: è ricca di carboidrati ed è un buon pasto caldo. L‟acqua la prendiamo dai vicini al pianterreno, le pompe non funzionano. Ma di tutto ciò quasi non ci accorgiamo. Ti abitui, poco a poco: ti dimentichi cos‟era la vita normale. Quel che avevi prima ti sembra un grande privilegio.

5 gennaio 2009

Siamo come topi martellati dal fuoco. Siamo topi in gabbia, mar- tellati da tutte le direzioni. Molti non sanno neppure dell‟invasione di terra: pensano che i raid si siano intensificati. La luce manca da gior- ni, le batterie delle radio sono finite. Siamo quasi tutti prigionieri in casa. Le notizie ormai girano solo di bocca in bocca, pochi fortunati hanno il carburante per i generatori. Tre quarti della popolazione so- no donne e bambini. La gente è indebolita, fisicamente e moralmen- te, accumula lutti e perde la speranza. Sono crollate più di dieci mo- schee. Che strano: dalle macerie i corpi dei bambini emergono intat- ti. Eppure dicono che non hanno nulla contro di noi, i civili: che la guerra è contro Hamas. Siamo ridotti agli istinti primari: proteggere i cari, assicurare un riparo, presi fra l‟impulso di lottare o fuggire. Ma dove fuggire? Siamo topi, martellati dal fuoco.

7 gennaio

Dicono che questa sia la peggiore offensiva israeliana dal 1984: l‟anno in cui i nostri nonni, assieme a centinaia di migliaia di fami- glie, vennero espulsi o fuggirono dalle case in quel che oggi è Israe- le. Davanti alle immagini in tv di morti, feriti, dello strazio dei so- pravvissuti, nel nostro salotto gremito di adulti e piccini non c‟era un occhio asciutto al pensiero di quelle vite che potevano essere le no- stre.

9 gennaio

Perdonatemi se queste righe vi suoneranno un po‟ sconnesse. Scrivo di fretta. L‟appartamento al piano di sopra è stato colpito da un missile entrato dalle finestre. Ha ucciso i nostri vicini. Lui si

chiamava Rami Wahebi. Lei, la suocera, era della famiglia al Najah. Brava gente. Sono uscita, per la prima volta, dopo tredici giorni. Vo- levo osservare con i miei occhi la città sfigurata. Di primo mattino mi sono incamminata a passo svelto verso il mercato di Rimal, un centro commerciale affiancato da belle case cinte di mura. Voltato l‟angolo m‟è comparso, sui marciapiedi, un tappeto umano: file e file di gente addormentata, avvolta nelle coperte, raggomitolata al gelo e a ridosso delle mura. M‟è bastato guardare attorno per capirne il mo- tivo: i caccia continuano a bersagliare obiettivi già più volte colpiti. Le case nelle vicinanze sono lesionate, se gli aerei tornano a bom- bardare rischiano di crollare. Perciò molti passano la notte all‟addiaccio. Non riuscivo ad orientarmi tra tante rovine. Più in là procedeva una moltitudine di carretti tirati dagli asini, con sopra fa- miglie intere, donne anziane, uomini, madri, bambini, neonati e fa- gotti di abiti. Scappano dal nord, da Jabalia e Beit Lahia. Altre folle convergono a Gaza City dal sud, da Rafah: i volantini israeliani li avvisano di evacuare. Qua e là ci sono bambini disperati, persi dai genitori in fuga. Alla radio si ripetono gli appelli: descrivono l‟età, gli abiti, l‟aspetto dei piccini. Ma non sanno dirne il nome: i bambini di Gaza, per lo choc, non riescono più a parlare.

13 gennaio

Israele ora usa tattiche snervanti per diffondere il terrore. Hanno infiltrato le onde radio e tv. I notiziari si interrompono nel bel mezzo con messaggi di: “Sperimenterete tutta la nostra furia!” Perciò spe- gniamo la tv, accendiamo la radio ed ecco di nuovo quella voce cu- pa: “Lasciate la vostra zona e radunatevi al centro della città. Vi av- visiamo per la vostra salvezza! Questa è l‟IDF”, la Difesa israeliana. E dove dovrebbe andare la gente? Chi abita in centro, come noi, è già sotto le bombe. I rifugi Unrwa traboccano e le strade sono peri- colose. Quindi la gente è avvisata però non ha scelta: deve restare. Sarebbe più misericordioso non essere avvertiti della morte immi- nente. Piovono migliaia di volantini, minacciano nuovi metodi d‟attacco contro la popolazione, chiedono di fornire informazioni su Hamas, ma i civili non ne hanno.

14 gennaio

Colonne di migliaia di famiglie si muovono verso nord, incalzate dai bombardamenti e da piogge di volantini con l‟avvertimento di evacuare. Nonni, padri, mamme, bambini, appesantiti dai fagotti a- vanzano a piedi o su carretti trainati dagli asini: le strade, squarciate dai bombardamenti, sono inagibili alle automobili ridotte a scheletri di lamiera. La popolazione civile, stretta su un dito di dune sabbiose sigillato alle frontiere, non ha via di scampo. Come un‟idra dalle mil- le teste, la moltitudine umana oscilla ora in una direzione ora

nell‟altra, nella speranza di schivare i tiri da terra, dal cielo e dal ma- re. Al fianco di Hamas adesso combatte anche la fazione armata di Fatah, il partito del presidente Abu Mazen.

16 gennaio

“Pregate per noi! Siamo intrappolati qui con i bambini al decimo piano, il palazzo trema, sparano qualcosa nell‟aria, non riusciamo a respirare. Aiutateci! Pregate!” Il messaggio di una giovane donna di Beit Hanoun è soltanto uno delle migliaia di sms che s‟incrociano nella notte sui cellulari, spediti dalla gente di Gaza City ai propri fa- miliari. Dalle radio arrivano grida: voci di donne, uomini, adolescen- ti, anziani supplicano ambulanze, squadre anti-incendio, ma non c‟è l‟acqua per spegnere le fiamme mentre i proiettili al fosforo esplosi dagli israeliani contro il quartier generale dell‟Unrwa inceneriscono tonnellate di cibo e di farmaci destinati ai profughi. Anche noi an- diamo a ingrossare il fiume degli sfollati. Siamo stati colpiti nell‟attacco alla sede dell‟Unrwa: giusto il tempo di prendere le co- perte per chi ha la febbre. L‟incendio si propaga e le esalazioni delle armi al fosforo bruciano i polmoni: dei corpi di alcuni vicini, dicono, resta lo scheletro annerito, arsi fino alle ossa da quelle munizioni.

19 gennaio110

Alaa aveva fra i venti e i trent‟anni, due bimbe e un maschio in arrivo. Lui, ripeteva, voleva per loro un futuro. Quando s‟è accorto che nel bersaglio delle forze armate era la popolazione civile; quando ha contato i morti, i feriti, gli arrestati; quando ha visto la fanteria annientare nell‟avanzata le case di Tel el Hawa giusto in fondo alla nostra via, ha salutato i familiari e raggiunto i combattenti. Alaa è andato in prima linea con un‟arma rudimentale, il suo corpo e la sua fede contro i tank e i cacciabombardieri. L‟altra notte Alaa ha telefo- nato da Zatoun, nell‟ora dei bombardamenti più intensi. La madre ha subito capito che la voce era diversa: fioca, piena di emozione, di do- lore. Infine lui gliel‟ha detto: era stato colpito allo stomaco. Inutile chiamare i soccorsi, che non potevano aiutare nemmeno i civili. I suoi l‟hanno chiamato tutta la notte. All‟alba la sua voce era sempre più debole. Poi non ha risposto più. Ieri hanno recuperato il corpo di Alaa. Chi l‟ha visto dice che è morto piano piano, dissanguato, acco- stato a un muro. Al funerale, allestito nello spiazzo sotto casa, c‟era il condominio intero. Noi col tempo dimenticheremo quel giovane. Ma i suoi figli, com‟è naturale, come tanti altri figli in queste ore, cresceranno nel culto del padre.

110 In realtà l‟operazione Piombo fuso inizia il 27 dicembre 2008 e termina il 18 gennaio 2009. Ma questa del 19 gennaio è la data di pubblicazione dell‟articolo sul quotidiano (e quindi – quanto meno – l‟episodio narrato è da riferirsi al giorno prima, se non a due o tre).

Eyad al-Sarraj – psichiatra palestinese di Gaza, che ebbe un ruolo nella delegazione del 2000 a Camp David111 – ne trae le conseguenze: “Queste azioni di guerra distruggono la figura del padre, che dovrebbe proteggere e accudire e invece è impotente. Si può essere certi che da grandi questi bambini cercheranno un‟altra figura di riferimento dall‟apparenza forte: Hamas, o un qualunque movimento estremista”. Rinsaldando così quella spirale di odio e violenza che oggi fa bruciare la Striscia di Gaza.

Altri occhi, stesso orrore

Quella dei Samuni è la storia di un clan di palestinesi che viveva a Hai el-Zaitun. I tank israeliani e la fanteria arrivano fin lassù nei primi di gen- naio, attestandosi tra le case. Facile che, vedendoli arrivare, i Samuni ab- biano aperto il fuoco sui soldati, ma niente giustifica quanto accade dopo. Gli israeliani sparano una granata contro la casa di Atia, poi entrano: “Chi è il proprietario?”, gridano. “Mio marito avanza con le mani alzate, è sulla porta quando lo ammazzano con una pallottola tra gli occhi. Poi ci mitra- gliano. Li sentiamo ridere, mentre rovistano nella stanza accanto per rubare quel che abbiamo”. I soldati vanno via. “Anche Ahmed perde molto san- gue, allora chiamo la Croce Rossa. Mi dicono che non possono mandare un‟ambulanza, gli israeliani gli hanno già ammazzato due autisti. Mio figlio muore di emorragia. Vedi quella striscia rossa sulla parete? Quello è il san- gue del mio bambino”. Zeinat Samuni, moglie di Atia, non ricorda con pre- cisione che giorno fosse, probabilmente era il 3 di gennaio. Ma questo, in fondo, è solo un dettaglio insignificante.

Quella della famiglia Abu Halima è una storia che ci giunge da Beit La- hiya. A piedi nudi e capo coperto – le vesti che lambiscono l‟acqua – le donne di famiglia cercano di cancellare i segni della devastazione che si è abbattuta sulla loro casa. Pavimento e pareti vengono puliti palmo a palmo con scope, spazzole, detersivi. Ma l‟odore che pervade le stanze resiste a tutto. È l‟odore nauseante – dice chi se ne intende – del fosforo bianco. Se adoperato in campo aperto, non è vietato il fosforo bianco. Ma è illegale usarlo contro le persone, o in ambienti densamente abitati. In questi casi,

111 Fu un vertice di pace in Medio Oriente – tra il presidente degli Stati Uniti Bill Clinton, il primo ministro israeliano Ehud Barak e il presidente dell‟Autorità nazionale palestinese Yasser Arafat – che avrebbe dovuto gettare le basi per la cessazione del conflitto e che inve- ce si concluse con un bilancio fallimentare.

usare armamenti al fosforo bianco è un crimine di guerra. Racconta Omar, diciotto anni: “Ero nella casa accanto, quando abbiamo sentito tre o quattro esplosioni, una dietro l‟altra. Mi sono precipitato. La nostra casa era avvol- ta da un fumo denso bianco che non faceva respirare, e dalle fiamme. Sono salito al secondo piano e ho visto mia madre avvolta nel fuoco. Nel corrido- io c‟erano i miei fratelli: Abed, quattordici anni, Said, dieci, Hamza, otto. Tutti e tre abbracciati a mio padre, Sadallah, che di anni ne aveva quaranta- cinque. Bruciavano. Hamza diceva: „Voglio pregare, voglio pregare‟, ma subito dopo è morto. Gli altri erano già morti. Mio padre non aveva più la testa”.

Quella di Asma – la scuola elementare al campo profughi di Shati – è la storia di un‟altra disperazione. L‟istituto – gestito dall‟Agenzia delle Na- zioni Unite per il Soccorso e l‟Occupazione dei profughi palestinesi nel vi- cino oriente (UNRWA) – è stato bombardato dall‟aviazione. Eppure era chiaramente identificato come edificio dell‟Onu, chiarisce il portavoce del- le Nazioni Unite. Per la Croce Rossa, dopo undici giorni di combattimenti la crisi umanitaria nella Striscia è totale. Un milione di abitanti è senza elet- tricità da dieci giorni, seicentomila non hanno più acqua. “Siamo senza ac- qua né luce. I bambini non fanno che piangere”, racconta padre Musallam, parroco di Gaza. Continuano altri: “A ogni boato scoppiano in un pianto disperato e non smettono più. Non importa quanto i genitori li stringano forte. Già due bambini sono morti di paura. Uno di dodici anni aveva appe- na visto bombardare una casa. L‟altra ne aveva sedici e ha sentito gli aerei che sganciavano i missili sopra la sua testa”.

La guerra vista dall’ospedale

Gli ospedali sono al collasso, non riescono più ad assistere i feriti. I cor- pi vengono accatastati l‟uno sull‟altro. I posti in terapia intensiva vengono assegnati solo a chi ha una ragionevole possibilità di sopravvivere. I bam- bini sono terrorizzati. All‟ospedale di Shifa – il più importante della Stri- scia – manca di tutto: gli anestetici, le bende, i ferri per trattare i traumi or- topedici, le medicine pediatriche, le cannule. L‟acqua è sporca, non ci sono medicine: si temono epidemie. Un responsabile parla di uno dei peggiori disastri del secolo. E forse, della storia dell‟umanità. Nel reparto ustioni dell‟ospedale di Shifa, il primario è certo che a provocarne certune sui corpi dei feriti sia stato il fosforo bianco. Racconta di essersi trovato per la prima

volta di fronte a piaghe che continuavano a bruciare anche dopo ore, che emanavano un odore insopportabile e resistevano al normale trattamento di chirurgia plastica. Tanto che, aggiunge, su suggerimento dei colleghi gior- dani ed egiziani – che avevano avuto esperienze simili in Libano – hanno deciso di amputare gli arti.

La conta dei morti

Secondo i dati delle organizzazioni umanitarie, il numero dei palestinesi uccisi alla fine dei ventidue giorni di conflitto ha superato i millequattro- cento, tra i quali oltre trecento bambini, circa centocinquanta donne e centi- naia di civili disarmati. Imprecisato il numero dei feriti. Ben oltre trentami- la i senzatetto. Israele conta tra le sue fila tredici morti: dieci soldati e tre civili. Del vertice di Sharm el Sheik non resta neppure un documento da consegnare alla Storia: il cessate il fuoco, entrato in vigore il 18 gennaio 2009, sembra essere stato scritto sulla sabbia.

I dubbi avanzati sul rispetto dei diritti umani

“Crediamo che siano in corso violazioni dei diritti umani e anche crimi- ni di guerra”, dice il portavoce del gruppo pacifista israeliano Icahd. Israele ammette di aver fatto uso di munizioni al fosforo bianco, ma soltanto in campo aperto, per evidenziare obiettivi strategici. Amnesty International è di tutt‟altro avviso. Israele sostiene che nell‟offensiva il comportamento dei suoi soldati non è mai stato disonorevole e, quindi, di non aver violato la Convenzione di Ginevra. “Le truppe israeliane – dice il generale Harel – hanno tenuto un alto profilo morale, sebbene abbiano combattuto contro un nemico che non ha esitato a usare i civili come scudi umani”. Amnesty In-

ternational afferma di non aver trovato le prove che i miliziani si siano ser-

viti di scudi umani. Al contrario, spesso i soldati israeliani hanno preso po- sizione nelle case costringendo le famiglie che le abitavano a restare al loro interno. La racconta così, in forma anonima, un sergente maggiore della brigata Golani – una delle unità di élite dell‟esercito israeliano: “A ogni ca- sa palestinese a cui ci avvicinavamo mandavamo avanti il vicino, un Jo-

hnnie. Poi si entrava nella casa puntando il mitra alla schiena del civile”. È

solo una delle oltre cinquanta testimonianze dirette raccolte dall‟organiz- zazione Breaking The Silence sulla condotta dell‟esercito nell‟operazione

Piombo fuso. Pagine che raccontano, dalla viva voce dei soldati di Tsahal,