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Medio Oriente: l‟ossimoro della democrazia imposta

Sul nocciolo duro dei diritti uman

1. Estensione semantica del concetto di guerra: dai kadogo ai dron

1.5. Medio Oriente: l‟ossimoro della democrazia imposta

È storia dei nostri giorni, quindi non reputo necessario documentarla con puntuali riferimenti ai giornali: a seguito dell‟attentato al World Trade

Center dell‟11 settembre 2001121, l‟America – quale capofila di un‟ampia coalizione di paesi occidentali – decide di reagire al „terrorismo islamico‟. Obiettivo dichiarato: esportare, ovvero imporre, la democrazia in Iraq. E poi, a seguire, anche in Afghanistan, contando sull‟appoggio del Pakistan. Ma storicamente il processo di democratizzazione degli stati è sempre stato un processo interno lungo e difficile; volerlo oggi imporre ai popoli medio- rientali – dall‟esterno e con la forza – sembra essere un tragico ossimoro da ascrivere all‟Occidente. Nessuna democrazia sembra mai possibile senza la collaborazione attiva degli autoctoni.

Anche sull‟Iraq – come per Israele e Gaza – i quotidiani trasudano noti- zie. Arduo sarebbe voler dar conto della copiosa cronaca apparsa in questi mesi sul giornale122. Qui ci basti mettere l‟accento solo su poche, mirate, questioni: il diffuso risentimento nei confronti dei „benefattori‟; le sofferen- ze dal fronte di guerra; la sua incerta tracciabilità; e infine, le nostre neces- sità lessicali123.

Iraq: la forza evocativa di un gesto

Molto prima del giudizio della Storia, quella con la maiuscola, il presi- dente americano George Bush – strenuo sostenitore e primo responsabile dell‟intervento in Iraq – sembra essere stato giudicato dai suoi contempora- nei. L‟Iraq, che avrebbe dovuto salutarlo come liberatore, lo congeda a scarpe in faccia.

Il gesto resterà per sempre come il suggello simbolico di una disfatta. Durante l‟ultima conferenza stampa di Bush in suolo iracheno, il giornalista Muntazar al-Zaidy gli urla: “Questo è il tuo bacio di addio, cane!” e gli lan- cia le scarpe. Nella cultura islamica, „cane‟ è un insulto pesante, come lo è l‟essere colpiti con la suola delle calzature. Un gesto sprezzante, che a me- moria d‟uomo nessun capo di stato americano aveva mai dovuto sopportare e che veicola un giudizio politico condiviso da molti. “Muntazar al-Zaidy è il nostro campione”, rispondono al telefono i colleghi della tv al-Bagdadia – mentre la capitale si riempie di scarpe sollevate in aria da migliaia di ma-

121 Immagini visibili alla pagina web http://www.youtube.com/watch?v=f545bXfxw_4. 122 E dal mio punto di vista, neanche necessario per i punti che mi prefiggo di affrontare. Rimando comunque alle pagine conclusive del capitolo per tratteggiarne i temi salienti. 123 E per „nostre‟ intendo quelle dell‟Occidente.

nifestanti e altre ne vengono lanciate contro i blindati Usa, di pattuglia in città. È il gesto-simbolo di una rivolta popolare contro l‟America e la poli- tica estera del suo presidente uscente. In molte città irachene, Muntazar al- Zaidy viene acclamato come eroe nazionale e la sua effigie portata in pro- cessione. Il prestigio dell‟America – secondo tutti i sondaggi realizzati ne- gli ultimi due anni da istituti indipendenti – è al livello più basso dell‟ulti- mo secolo.

Intanto a Bagdad, dopo sei anni di massacri, continuano gli attentati. Dai palazzi sventrati salgono fumo e urla. Cinque autobombe lasciano sul terre- no oltre cento morti e quasi cinquecento feriti. È la risposta al proclama del premier Nouri al Maliki, che in campagna elettorale si era vantato di aver riportato la sicurezza nel paese. Siamo alla fine del 2009, poi anche nei primi mesi del 2010 si registra un altro attentato, con il suo pesante bilan- cio: oltre quaranta morti, un centinaio i feriti. Questa volta, a farsi esplodere tra una folla di pellegrini sciiti è una donna, un‟attentatrice suicida che sotto l‟abaya nera nasconde il tritolo. Il paese sembra essere ripiombato nel pas- sato, quando con simili attacchi sono stati massacrati migliaia di iracheni e si è alimentato l‟odio interconfessionale. A marzo, sangue anche a Baquba, e poi a Bagdad, sulle elezioni.

Sul fronte politico, ad arroventare il clima in questi giorni di voto è un‟inchiesta della Bbc sull‟aumento di bambini nati con gravi malforma- zioni a Falluja, la città a ovest della capitale dove nel novembre 2004 le forze americane pare abbiano usato munizioni al fosforo bianco contro gli insorti sunniti. Contaminati dall‟uranio impoverito, i bambini di Falluja na- scono con due teste, con danni cardiaci e cerebrali, con arti che mancano oppure in sovrannumero, o affetti da tumore. I dottori non si sbilanciano, in fondo non ci sarebbero le prove che questo migliaio di casi l‟anno siano da attribuire al fosforo bianco, ma la popolazione locale non ha dubbi, e punta il dito su quelle armi124. Su Internet, intanto, si diffonde un video che fa tremare l‟establishment americano: è intitolato Collateral Murder, e mostra soldati Usa fare cinicamente fuoco su un gruppo di civili, fra cui due gior- nalisti125.

124 Per un riscontro, v. alla pagina http://www.coscienzeinmovimento.it/2011/01/10/falluja- bambini-nascono-malformati-per-le-armi-statunitensi/.

Mentre l‟Organizzazione Mondiale della Sanità apre un‟inchiesta, il vi- ce primo ministro britannico, Nickolas Clegg, chiede agli Stati Uniti di ri- sponderne, chiamando implicitamente in causa anche il suo paese, principa- le alleato degli americani in Iraq. Dice Clegg: “Possiamo deplorare il modo in cui sono uscite queste indiscrezioni126, ma le accuse che pongono sono estremamente serie. La lettura dei documenti è scioccante. Suppongo che l‟amministrazione americana darà la sua risposta. Tutto lascia pensare che siano state violate regole di base della guerra e che sia stata tollerata la tor- tura. Accuse estremamente gravi, che vanno esaminate”. Anche il capo del Servizio segreto britannico, John Sawers, parla in pubblico: “L‟uso della tortura è illegale e ripugnante. La legge britannica e quella internazionale la vietano, anche a costo di lasciare che le attività terroristiche proseguano. Qualcuno può giudicare discutibile tale scelta, ma noi pensiamo che sia giusta e ciò ci sprona a trovare modi diversi, in linea con il rispetto dei di- ritti umani”. Peccato che i fatti sembrino smentire quanto proferito ex post. Anche l‟Alto Commissario per i diritti umani dell‟Onu, la sudafricana Navi Pillay, chiede di andare a fondo: “Americani ed iracheni devono prendere ogni misura necessaria per verificare le accuse formulate nei documenti”127. Stesso dicasi per Human Right Watch. Ma gli americani non ci stanno, il Pentagono nega che i suoi soldati abbiano consegnato prigionieri agli ira- cheni, ben sapendo che poi sarebbero stati torturati. Per gli Stati Uniti, fare chiarezza non sembra necessario.

Nel settembre 2010 si conclude l‟operazione Iraq Freedom. Gli ameri- cani non spareranno più, daranno solo consigli, addestreranno soldati e po- liziotti iracheni, si dedicheranno all‟intelligence e predicheranno la demo- crazia. La guerra, durata sette anni, è archiviata128. “Ma non possiamo par- lare di vittoria”, ammette il presidente degli Stati Uniti Barack Obama dallo

126 Le notizie sono state rivelate dal sito WikiLeaks, oggetto del mio interesse in altra parte del lavoro. Qui basti dire che un giovane militare americano – rischiando la galera – ha con- segnato circa quattrocentomila rapporti militari segreti al sito di Julian Assange, che li ha successivamente resi pubblici.

127 L‟Alto Commissario è un organo internazionale che non dispone di poliziotti, eserciti o giudici, ma ha il compito di far valere istanze morali quando vengono commesse violazioni dei diritti umani così gravi da ledere i valori fondamentali della comunità internazionale. 128 I numeri dell‟operazione parlano di quattromilaquattrocentoventisette soldati americani morti e di oltre trentaquattromila tra feriti e mutilati.

Studio Ovale. Poi è costretto a ricordare l‟altra guerra in corso: l‟Afghani- stan.

L’Afghanistan e la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani L‟anniversario della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani è stato annunciato da radio e tv anche a Kabul. Ma al centro di riabilitazione di questo ospedale cittadino suonano come fossero parole vuote. Qui, al repar- to accettazione, trenta pazienti sono in attesa di essere registrati. Daranno loro un numero, e con quel numero ciascuno avrà il suo „piano di tratta- mento‟, sebbene per molti si potrà fare poco o nulla.

Mentalmente, assegno a questi trenta pazienti un secondo numero: quel- lo dell‟articolo della Dichiarazione violato. Nik e Jakub, vittime di mine anti-uomo: 3, diritto alla sicurezza della persona. Anche a Lailà, il 3: ferita dalle bombe americane durante un matrimonio. A Jalal il 9, l‟articolo che vieta l‟arresto arbitrario. Ha la protesi a pezzi, rotta in carcere, dove ce lo hanno messo al posto del fratello accusato di furto, per forzarlo a costituir- si. Minà ha orrende retrazioni della pelle su braccia e collo. Data in sposa per saldare una faida familiare, si è cosparsa di benzina e data fuoco. Ma- rùf, vecchia conoscenza di questo ospedale, vuole un‟altra protesi: a lui il 19, quello del diritto d‟opinione. Ai tempi dei russi ha passato in carcere una vita perché anticomunista. Là, per le botte, ha perso la gamba. Il nume- ro 5 a Wassè: accusato di furto, anni fa i taliban gli hanno amputato mano destra e gamba sinistra. Simà ha la schiena a pezzi. È sorretta dai figli- bambini. A loro, che non vanno a scuola per mantenere la madre, il 26, il numero del diritto all‟istruzione. A Faisàl il 23, diritto alla sicurezza sul la- voro e a un equo compenso. In Iran, clandestino, è caduto da una impalca- tura malferma. La diagnosi: paralisi129.

Questo diario da Kabul ci impone un esercizio di memoria. Era il 10 di- cembre 1948 quando l‟Assemblea generale delle Nazioni Unite proclamò la Dichiarazione universale dei diritti dell‟uomo, la Carta che stabiliva – per la prima volta nella storia moderna – l‟universalità di tali diritti, estenden- doli a tutti i popoli del mondo. Trenta articoli di buoni propositi:

129 Anche in Italia la violazione dell‟articolo 23 va in scena molte volte all‟anno. In questo scritto, però, non prenderò in considerazione le morti sul lavoro – le cosiddette morti bian- che – e la problematica cui rimandano.

1, diritto all‟uguaglianza; 2, divieto di ogni discriminazione; 3, dirit- to alla vita; 4, divieto di schiavitù; 5, divieto di tortura; 6, diritto alla personalità giuridica; 7, diritto alla uguaglianza di fronte alla legge; 8, diritto di ricorso alla legge; 9, divieto di detenzione arbitraria; 10, diritto al giudizio; 11, diritto alla presunzione d‟innocenza; 12, dirit- to alla privacy; 13, diritto alla libertà di movimento; 14, diritto di asi- lo; 15, diritto alla nazionalità; 16, diritto al matrimonio e alla fami- glia; 17, diritto alla proprietà; 18, libertà di culto e di pensiero; 19, libertà di opinione e di espressione; 20, libertà di associazione; 21, diritto alla partecipazione politica; 22, diritto alla sicurezza; 23, dirit- to al lavoro; 24, diritto al riposo; 25, diritto al sostentamento; 26, di- ritto all‟istruzione; 27, diritto alla cultura e al progresso; 28, diritto ad un mondo giusto; 29, diritti e doveri verso la società; 30, inaliena- bilità dei diritti.

Valli a enunciare a Kabul, al reparto accettazione d‟un Pronto Soccorso qualunque, totalmente impotente di fronte alla ferocia dell‟uomo in armi. L‟accorata presa di posizione che segue è di Gino Strada, fondatore di E-

mergency, volta a denunciare l‟ostracismo subito dai medici nell‟opera di

soccorso ai bisognosi di cure:

Noi di Emergency curiamo anche i talebani, e nel farlo teniamo fede ai principi etici della professione medica, rispettando i trattati e le convenzioni internazionali in materia di assistenza ai feriti. Li cu- riamo innanzitutto per la nostra coscienza morale di esseri umani che si rifiutano di uccidere o di lasciar morire altri esseri umani. Curiamo i talebani come abbiamo curaro e curiamo i mujaheddin, i poliziotti e i soldati afgani, gli sciiti e i sunniti, i bianchi e i neri, i maschi e le femmine. Curiamo soprattutto i civili afgani, che sono la grande maggioranza delle vittime di questa guerra. Curiamo chi ha bisogno, e crediamo che chi ha bisogno abbia il diritto di essere curato. Cre- diamo che anche il più crudele dei terroristi abbia diritti umani – quelli che gli appartengono per il solo fatto di essere nato – e che questi diritti vadano rispettati. Essere curati è un diritto fondamenta- le, sancito nei più importanti documenti della cultura sociale, se si vuole della politica dell‟ultimo secolo, e noi di Emergency lo rispet- tiamo. In Afghanistan, nell‟ospedale di Lashkargah, lo abbiamo fatto migliaia e migliaia di volte. Senza chiedere, di fronte a un ferito al pronto soccorso, “Stai con Karzai o con il mullah Omar?”. Tantome- no lo abbiamo chiesto ai tantissimi bambini che abbiamo visto in questi anni colpiti da mine e bombe, da razzi e pallottole. Nel 2009, il quaranta per cento dei feriti ricoverati nell‟ospedale di Emergency a Lashkargah aveva meno di quattordici anni. Sono rarissimi i gior- nalisti che stanno informando i cittadini del mondo su che cosa suc-

cede nella regione dell‟Helmand. I giornalisti veri sono scomodi, come l‟ospedale di Emergency, a lungo l‟unico testimone occidenta- le a poter vedere gli orrori della guerra. La nostra risposta è sempli- ce. Abbiamo imparato da Albert Einstein che la guerra non si può abbellire, renderla meno brutale: “La guerra non si può umanizzare, si può solo abolire”. Ripudiamo la guerra e ne vorremmo l‟abolizio- ne, come fu abolita la schiavitù. Utopia? No. Siamo convinti che l‟abolizione della guerra sia un progetto politico da realizzare con grande urgenza. Per questo non possiamo tacere di fronte alla guerra, a qualsiasi guerra.

Il Pakistan e la guerra asimmetrica

Profughi: finora è questo l‟unico risultato tangibile della guerra che op- pone l‟esercito regolare pakistano ai taliban, nella verde vallata dello Swat, a nord di Peshawar. Lo Swat è stato un principato musulmano dissoltosi nel luglio del 1969, quando fu integrato al Pakistan. Nell‟aprile del 2009 l‟area è stata riconquistata dai taliban che vi hanno introdotto la shari‟a – la legge coranica – sostituendola ufficialmente alla legge pakistana. Una legge – la

shari‟a – molto distante dalla nostra, che tra le altre cose proibisce alle ra-

gazze di istruirsi e ai barbieri di esercitare la professione.

I profughi arrivano dentro furgoncini stipati oltre il verosimile – le don- ne nel cassone, gli uomini pencolanti all‟esterno, i bambini sul tetto insie- me ai bagagli – con destinazione Mardan, uno dei campi di raccolta fatti di tende, allestiti dall‟Alto Commissariato per i rifugiati. Vanno ad aggiunger- si agli altri che hanno lasciato le aree tribali da mesi.

La crisi umanitaria assume proporzioni gravissime. L‟Alto Commissa- riato Onu per i rifugiati (Unhcr) avverte che il numero delle persone regi- stratesi nei campi profughi si avvicina ormai ai due milioni. “È un numero impressionante – commenta l‟Alto Commissario Antonio Guterres – la co- munità internazionale deve riconoscere l‟enormità della sofferenza”. Ma per loro, per i profughi, l‟esercito regolare fingerebbe soltanto di contrasta- re i taliban. Fingerebbe per compiacere gli americani, mentre sottobanco sarebbe già sceso a compromessi.

Sul campo, tuttavia, il conflitto si fa sempre più aspro. All‟indomani dell‟annuncio da parte del governo della riconquista di Mingora – principa- le città della valle dello Swat – gli estremisti islamici prendono di mira i pullman che trasportano i cadetti dell‟esercito e i loro familiari, sequestran-

doli al confine con l‟Afghanistan, nel Waziristan, un territorio povero e sel- vaggio. Poi, nell‟ottobre 2009, riprende a scorrere il sangue. I taliban colpi- scono a Peshawar, la capitale pashtun della provincia pachistana della fron- tiera di Nord Ovest. L‟obiettivo è un mercato di abiti femminili, in pieno centro. Saltano per aria un centinaio di civili, fra clienti e commercianti. A fine mese, a seguito di altri attentati, il bilancio delle vittime sale a trecento e passa. Il messaggio è esplicito: qui non c‟è posto per l‟Occidente e per il suo stile di vita; qui non c‟è futuro per chi ne accetta le tentazioni; qui non c‟è altra via che il Corano, accolto nella sua chiave più integralista. Oltre ai bazar, adesso saltano per aria anche i passeggeri dei pullman, i poliziotti, i funzionari dei servizi di sicurezza, le maestre, le studentesse dell‟Università di Islamabad. Uno stillicidio di vite spezzate. Osserva un generale pachi- stano: “Oggi i rapporti di forza sono chiari. Un tempo, conoscendo perfet- tamente il terreno, le tribù della regione erano padrone della notte. Ora i padroni della notte siamo noi, perché abbiamo i visori notturni”. È la guerra del Waziristan, asimmetrica e spietata: l‟esercito regolare con i visori not- turni e la controffensiva affidata ai feddayn130, i ragazzi destinati agli attac- chi suicidi.

La concezione della guerra propria dei secoli passati si basava sul so- stanziale equilibrio di forze dei belligeranti. Oggi, invece, sempre più spes- so assistiamo ai conflitti cosiddetti „asimmetrici‟, quei conflitti in cui una delle parti in causa è dotata di armi sofisticate ed eserciti regolari, l‟altra rimediando alla propria palese inferiorità tecnologica seminando il terrore „a spaglio‟. Siamo di fronte alle cellule combattenti di ordine infinitesimo, alle reti che operano nell‟ombra, agli attori non-statali, ai cosiddetti „terro- risti‟; e in questo scenario, il confine tra „nemico‟ e „neutrale‟, tra „quoti- dianità‟ e „paura‟, tra „guerra‟ e „pace‟, diventa sempre più incerto, sempre più sfumato.

L’Occidente e la necessità di un lessico ‘politically correct’

Per affrontare la questione del linguaggio „politically correct‟ si potreb- be partire proprio dalla necessità dell‟Occidente di definire l‟altro come

130 Feddayn, fedayyìn o fidayyìn (in lingua araba: فدائيون) è il plurale arabo del termine fidā'ī, che letteralmente significa „devoto‟. Nel corso della storia, il termine è stato utilizzato per descrivere differenti gruppi militanti nel mondo arabo. Tornerò (in qualche modo) sul concetto di „devozione‟ nel paragrafo 2 di questo capitolo.

„terrorista‟. Per l‟Occidente è oltremodo necessario avere la forza per im- porre questa sua propria definizione della situazione, questa sua propria vi- sione della realtà: che se questi gruppi fossero definiti diversamente – met- tiamo, „resistenti‟ – verrebbero in gran parte meno le condizioni e le giusti- ficazioni di legittimità dell‟intervento armato in suolo straniero. Ma per quanto indicativo, questo sembra in fondo solo un aspetto piuttosto margi- nale di una questione di più ampio respiro.

Il punto dirimente è un altro; e segnatamente, che alle soglie del terzo millennio l‟Occidente non è più disposto ad indicare con il termine „guerra‟ il suo coinvolgimento nelle operazioni militari in cui si trova impantana- to131. La parola „guerra‟ è stata bandita dal nostro orizzonte culturale. Si spara e si uccide quasi giornalmente in Afghanistan, eppure per noi la mis- sione internazionale Isaf continua a non essere una guerra. La confusione è tale che il sociologo Ulrich Beck si chiede dalle colonne del giornale: “Siamo in guerra? Siamo in pace?”. Secondo la versione ufficiale siamo lì per una missione di pace, per stabilizzare l‟Afghanistan e avviarlo sulla strada della democrazia. Ma i fatti passati in rassegna in questo paragrafo ci dicono qualcosa di radicalmente differente: siamo impegnati in una missio- ne di guerra, non di pace; sia pure, una guerra al „terrore‟ e ai „terroristi‟ (quelli che impediscono alle ragazze di studiare e ai barbieri di esercitare la loro professione). Osserva Vittorio Zucconi: “Da mesi l‟opinione pubblica americana ha relegato l‟Iraq e l‟Afghanistan nell‟indifferenza. Nessuno che viva negli Usa – se non ha un parente o un amico al fronte – potrebbe mai dire che questa sia una nazione in guerra, con duecentomila soldati al fron- te, più di cinquemila caduti e centinaia di migliaia di feriti e mutilati. La guerra, in America, non c‟è”132.

Ai giorni nostri, la guerra è stata messa ufficialmente al bando. La no- stra Costituzione la ripudia, ma anche il diritto internazionale – fissato nella Carta delle Nazioni Unite – impone l‟astensione dalle minacce o dall‟uso della forza nelle relazioni tra gli stati sovrani. Così, adesso, il soldato, non potendo più fare la guerra, può al massimo „imporre‟ la pace. L‟uso legit- timo delle armi è diventato una questione di lessico, che non deve urtare la

131 „Si trova‟ o „si caccia‟ qui poco importa.

132 Anche Thomas Ricks – premio Pulitzer e corrispondente militare del Washington Post – ha avuto modo di contestare la distinzione fatta da Obama, a suo giudizio esclusivamente semantica, tra missione di „combattimento‟ e missione di „supporto‟.

morale ostentata nelle nostre società democratiche, pur tuttavia impegnate