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Sul nocciolo duro dei diritti uman

1. Estensione semantica del concetto di guerra: dai kadogo ai dron

1.1. All‟arma bianca! I kadogo

Nella lingua locale, kadogo indica „una piccola cosa, una cosa senza importanza‟. I kadogo sono i bambini-soldato come Bienvenu Kakulé. Lui, congolese, è stato smobilitato grazie all‟Unicef, che dal 2005 ne ha liberati oltre trentamila. Ma basta smobilitarli, se il rischio è che vengano arruolati di nuovo? Qualcuno si rifà una vita, per altri è impossibile. Hanno sofferto, hanno assistito allo stupro di persone care, o gli è stato chiesto di uccidere un genitore, un fratello, una sorella.

Dal 1996, nel Congo orientale, una guerra infinita ha già prodotto quat- tro milioni di morti. Hanno violentato, saccheggiato, ucciso98. Loro, i kado-

97 Il discorso testé fatto riprende quanto argomentato alla nota 14 del capitolo 3, relativo al concetto di concetto, per come esposto da Marradi (1991, pp. 9-11). Quanto al punto speci- fico, sostanzialmente dello stesso avviso sembra essere Eco quando afferma (2002, p. 13): «Il concetto di guerra, rimasto più o meno lo stesso (indipendentemente dalle armi che si usavano) dai tempi dei greci sino a ieri, negli ultimi dieci anni ha dovuto essere ripensato almeno tre volte».

98 La storia si ripete sempre, come ci documenta ad esempio Iris Chang (1997, 2000) ripor- tando alla luce uno dei più atroci crimini contro l‟umanità: la violenza su oltre ventimila

go, hanno trascorso l‟infanzia nella giungla, tra marce forzate, digiuni, im- boscate. Ce ne sono perfino nelle Forces Arme de la République Démocra-

tique du Congo, le Fard, che dovrebbero invece impedire l‟arruolamento

dei bimbi tra i ribelli, e che sono accusate di compiere nei villaggi le stesse feroci scorribande della guerriglia.

Bienvenu sa come torturare un uomo. Sa come farlo soffrire, senza mai affondare la lama del coltello, prima di finirlo con un fendente alla gola. Bienvenu non sa leggere, non ha un lavoro, né una casa. Non ha più nean- che una famiglia. Racconta: “Sono stato arruolato quando avevo nove anni, e a dieci avevo già ucciso il mio primo prigioniero: il nostro comandante ce li lasciava a noi, gli ostaggi, perché sosteneva che i bimbi non provano pie- tà. Un giorno mi hanno costretto a mangiare carne di un militare ucciso. Se avessi rifiutato, mi avrebbero ammazzato come avevano fatto con altri bimbi”. Tra i kadogo ci sono anche le bambine di dodici o tredici anni. Per i soldati – regolari o ribelli che siano – più che „combattenti‟ sono „donne‟, e pertanto destinate al bucato, alla cucina, e a soddisfare le loro voglie. An- che quando se ne presentasse l‟occasione, molte di loro si rifiuterebbero di abbandonare chi le ha schiavizzate. Non sanno che farsene della libertà, perché una volta diventate serve della truppa il loro villaggio non le acco- glierebbe nuovamente: chi mai vorrebbe sposarle99?

E tutto questo – questa guerra infinita, questi quattro milioni di morti – per cosa? Per un territorio ambito perché ricco di legni pregiati e di costosi minerali. Difeso e conteso da una manovalanza armata, quella dei kadogo, che non costa nulla. Già, una piccola cosa senza importanza…

La storia di vita è una chiave di accesso a un mondo più o meno scono- sciuto. Può essere falsa come un soldo bucato – inventata di sana pianta per trarre in inganno chi ascolta – o essere così unica e irripetibile da non signi- ficare nulla per la collettività. Ma la sociologia se ne serve comunque fin dai suoi albori, per le potenzialità che offre quanto a conoscenza dei feno-

donne e la mattanza di oltre duecentocinquantamila civili cinesi ad opera dell‟esercito giap- ponese: era il 1937, a Nanchino.

99 Facendo ricorso alle nostre categorie concettuali, non è improprio parlare in questo caso di „etichettamento‟ e „stigma sociale‟. Si veda, in proposito, Goffman (1963, 1983).

meni indagati100. Per chi non ha familiarità con la giungla congolese, la te- stimonianza di Bienvenu Kakulé costituisce un brandello di storia di vita. Quella di Ishmael Beah (2007, 2010) – proveniente dalla Sierra Leone – ne ricalca in qualche modo le orme, ne ripercorre l‟orrore:

A dieci anni la mia immaginazione non era in grado di intuire co- sa aveva derubato i profughi della felicità. Quando la guerra mi toccò per la prima volta avevo dodici anni. Era il gennaio del 1993 (p. 9).

Spingo una carriola arrugginita in una città in cui l‟aria puzza di sangue e carne bruciata. La brezza porta con sé le deboli urla dei corpi straziati che esalano l‟ultimo respiro. Cammino in mezzo a lo- ro. Hanno perso le braccia e le gambe; le interiora fuoriescono dai fori dei proiettili nello stomaco, dal naso e dalle orecchie esce mate- ria cerebrale. Le mosche sono talmente eccitate e intossicate che vanno a morire gettandosi nelle pozze di sangue. Gli occhi dei mori- bondi sono più rossi del sangue che perdono, sembra che da un mo- mento all‟altro le ossa possano straziare la pelle dei volti irrigiditi. Abbasso la testa per guardarmi i piedi. Le mie crapes sfasciate sono zuppe di sangue, che sembra colare dai miei bermuda militari. Non sento dolore, perciò non so se sono stato ferito. Quel che sento è il calore della canna del mio AK-47 sulla schiena, ma non ricordo l‟ultima volta che ho sparato. Mi sento come se avessi dei chiodi martellati nel cervello, ed è difficile capire se è giorno o notte. La carriola davanti a me contiene un cadavere avvolto in lenzuola bian- che. Non so perché sto portando a seppellire proprio questo corpo (p. 23).

Mi rivedo con un AK-47 tra le mani, mentre attraverso una pian- tagione di caffè assieme a una squadriglia di altri ragazzi come me e a qualche adulto. Stiamo per attaccare una piccola città che ha muni- zioni e cibo. Appena lasciata la piantagione, incrociamo inaspettata- mente un altro gruppo armato nei pressi di un campo di calcio che confina con ciò che un tempo era stato un villaggio. Apriamo il fuo- co finché tutti, dal primo all‟ultimo, stramazzano a terra. Ci avvici- niamo ai cadaveri battendoci il cinque. Erano ragazzi come noi, ma non ce ne importa nulla. Rubiamo le loro munizioni, ci sediamo sui loro corpi e iniziamo a mangiare il cibo già cotto che portavano con sé, mentre intorno il sangue fresco sgorga dai fori dei proiettili. Or-

100 Le prime storie di vita vennero raccolte nell‟America degli anni „20 dai sociologi della Scuola di Chicago, per cercare di comprendere il fenomeno dell‟immigrazione proveniente dai paesi dell‟est Europa (Thomas e Znaniecki, 1918-1920). Per una disamina dei limiti e dei punti di forza delle storie di vita, v. Becker, 1966.

mai vivo in tre mondi diversi: quello dei sogni, delle esperienze della mia nuova vita e dei ricordi che riaffiorano dal passato (p. 24).

I ragazzi venivano arruolati immediatamente e i ribelli gli tatua- vano addosso, dove preferivano, le iniziali del RUF con una baionet- ta rovente. Quell‟incisione indelebile rappresentava la condanna a restare con loro oppure a morire, perché i soldati dell‟esercito regola- re, come pure i civili armati, uccidevano senza problemi chiunque portasse sul corpo le iniziali dei ribelli (p. 28).

La gente era terrorizzata da quelli della nostra età. Si diceva in gi- ro che alcuni ragazzi fossero stati costretti dai ribelli ad uccidere le proprie famiglie e bruciarne i villaggi. Ora formavano pattuglie spe- ciali che uccidevano o mutilavano i civili. Le vittime delle torture portavano addosso cicatrici fresche che lo dimostravano. Era una delle conseguenze della guerra civile. Nessuno si fidava più del pros- simo, ogni sconosciuto poteva essere un nemico. Persino chi ti cono- sceva diventava circospetto quando ti avvicinava o ti parlava (p. 43).

Probabilmente camminavamo da parecchi giorni, non riesco a ri- cordare bene, quando all‟improvviso due soldati ci puntarono contro le armi e ci fecero cenno, con la canna del fucile, di avvicinarci. Pas- sammo attraverso due schiere di uomini armati di mitragliatrici, AK- 47, G3 e RPG. I volti erano scuri, sembravano sporchi di carbone, e ci fissavano con lo sguardo intenso e gli occhi rossi. Giunti in fondo alla fila, vedemmo quattro uomini sdraiati, con le uniformi intrise di sangue. Uno era girato sulla pancia, gli occhi aperti e immobili, le in- teriora sparse a terra. Allontanai lo sguardo e lo posai sulla testa sfondata di un altro uomo. Qualcosa nel suo cervello pulsava ancora, non aveva smesso di respirare. Mi sentii mancare, il mondo cominciò a girare. Un soldato mi guardava, masticava qualcosa e sorrideva. Bevve un sorso d‟acqua da una bottiglia e ne gettò il resto sul mio viso. “Vi ci abituerete, prima o poi, come succede a tutti” (p. 111).

Il tenente impiegò quasi un‟ora per parlarci di persone costrette dai ribelli ad assistere alla decapitazione dei propri congiunti, di vil- laggi interi date alle fiamme assieme agli abitanti, di figli costretti ad avere rapporti sessuali con le madri, di neonati tagliati in due perché piangevano troppo, di pance di donne gravide squarciate, di feti e- stratti e uccisi. Sputò per terra e proseguì il discorso finché non fu si- curo di avere elencato tutti i modi che potevano essere utilizzati dai ribelli per far del male ai presenti. “Hanno perso ciò che li rende u- mani. Non meritano di vivere. E noi dobbiamo ucciderli tutti, dal primo all‟ultimo. È come distruggere un grande male. È il favore più grande che potete fare al vostro paese”. Il tenente estrasse la pistola e

sparò due colpi in aria. La gente iniziò a urlare: “Dobbiamo ucciderli tutti. Devono sparire dalla faccia della terra!”. Odiavamo i ribelli, ed eravamo più che decisi a impedire loro di conquistare il villaggio (p. 119)101.

Le fitte di dolore alla testa che, come avrei scoperto in seguito, erano attacchi di emicrania, cessarono quando iniziai a fare la vita del soldato. Di giorno, anziché giocare a calcio nella piazza del vil- laggio, facevo i turni ai posti di guardia, fumavo marijuana, sniffavo brown brown, cocaina tagliata con la polvere da sparo, sempre di- sponibile sul tavolo, e ovviamente prendevo le pasticche bianche, da cui ormai ero diventato dipendente. Mi davano tantissima energia. La prima volta che presi tutte quelle droghe assieme iniziai a sudare così tanto da dovermi togliere i vestiti. Mi tremava tutto il corpo, mi si era appannata la vista, e per parecchi minuti avevo perso l‟udito. […] Dopo aver camminato per ore, ci fermavamo soltanto per man- giare sardine e carne sotto sale con gari, sniffare cocaina, brown brown e mandar giù qualche pasticca bianca. La combinazione di droghe ci faceva sentire pieni di energia e fieri di noi stessi. L‟idea della morte non mi sfiorava nemmeno, e uccidere era diventato facile come bere un bicchiere d‟acqua. Dopo la prima volta non solo si era spezzato qualcosa nella mia mente, ma mi sembrava anche di aver perso la capacità di provare rimorso (pp. 133-134).

I cinque uomini erano in fila di fronte a noi, sul campo d‟addestramento, con le mani legate. Al segnale del caporale dove- vamo sgozzarli. Vinceva il soldato il cui prigioniero moriva per pri- mo. Avevamo estratto le baionette e dovevamo guardare negli occhi le nostre vittime, prima di mandarle all‟altro mondo. Io già fissavo dritto in faccia la mia. Aveva il volto tumefatto per le botte ricevute, e sembrava guardare qualcosa alle mie spalle. […] Il caporale diede il via con un colpo di pistola, io afferrai la testa dell‟uomo e gli ta- gliai la gola con un solo gesto fluido. Il pomo d‟Adamo cedette subi- to alla lama affilata, e non mi restò che girare la baionetta dalla parte zigrinata per estrarla. L‟uomo rovesciò gli occhi e guardò fisso nei miei, prima di immobilizzarsi in un‟espressione di terrore, come se lo avessi colto di sorpresa, per poi crollarmi addosso ed esalare l‟ultimo respiro. Lo lasciai cadere a terra e pulii la baionetta sui suoi vestiti. Poi avvertii il caporale, che stringeva in mano un cronometro. I corpi degli altri prigionieri si dibattevano tra le braccia dei ragazzi,

101 Sia pure in altro contesto, quello del processo penale, il complesso meccanismo di edifi- cazione di un‟immagine mostruosa – tale che si possano poi prendere le distanze dal/dai soggetto/i sottoposto/i a questo rito di degradazione – viene indagato a fondo da Perrotta (1994, capp. 4 e 5, parte prima).

e alcuni restarono a terra a lungo, in preda agli spasmi. Fui proclama- to vincitore, e Kanei si piazzò secondo. I ragazzi e gli altri soldati che facevano da pubblico applaudivano come se avessi compiuto una grande impresa (pp. 136-137)102.

Le Bon (1895; cit. in Freud, 1921, 1975, pp. 15-18) ci offre una chiave di lettura per spiegare tanta aberrazione: «L‟individuo in massa acquista, per il solo fatto del numero, un sentimento di potenza invincibile. Ciò gli permette di cedere agli istinti che, se fosse rimasto solo, avrebbe necessa- riamente tenuto a freno. Vi cederà tanto più volentieri in quanto – la massa essendo anonima e dunque irresponsabile – il senso di responsabilità, che raffrena sempre gli individui, scompare del tutto. […] Per il solo fatto di appartenere a una massa organizzata, l‟uomo scende dunque di parecchi gradini la scala della civiltà. Isolato, era forse un individuo colto; nella massa, è un istintivo, e dunque un barbaro. Ha la spontaneità, la violenza, la ferocia e anche gli entusiasmi e gli eroismi degli esseri primitivi».

Ma torniamo a Ishmael:

Quando finii di raccontare la mia storia, Esther aveva le lacrime agli occhi e sembrava indecisa se farmi una carezza o abbracciarmi. Alla fine non fece né una cosa né l‟altra, ma disse: “Niente di ciò che ti è successo è colpa tua. Eri soltanto un ragazzino, e ogni volta che vorrai parlare io sarò qui ad ascoltarti”. Mi fissò, cercando il mio sguardo per dare conferma alle sue parole. Ero arrabbiato, pentito di avere descritto a qualcuno, a un civile, la mia esperienza. Odiavo quel “non è colpa tua” che tutti i membri dello staff recitavano ogni volta che qualcuno parlava della guerra (p. 177).

Meno di una settimana dopo eccomi presenziare alle riunioni di Freetown per parlare dell‟arruolamento dei soldati bambini e della necessità di porvi fine. “La rieducazione è possibile” sottolineavo, indicando me stesso come esempio. Non smettevo di ripetere che i bambini sono in grado di recuperare e di sopravvivere alle proprie sofferenze, se gliene viene data la possibilità (p. 187).

102 Per una testimonianza parimenti drammatica – ma con gli occhi della vittima, scampata miracolosamente a morte certa – v. Engel (2000, 2005, pp. 108-109). La testimonianza, resa al processo Eichmann nel maggio del 1961, si riferisce ad una fucilazione di massa in Unio- ne Sovietica, nel 1941.

Di tanto in tanto, dopo il lavoro io e lo zio andavamo a passeg- giare. […] Non gli avevo mai confessato che assistere alla vita quo- tidiana della famiglia, vedere un bambino che abbracciava il padre, tirava il turbante alla madre o teneva le mani dei genitori per saltare le pozzanghere mi faceva pensare sempre a ciò che avevo perduto. Non so cosa avrei dato per poter tornare indietro e cambiare le cose (p. 208).

L‟ultimo giorno della conferenza, un ragazzino di ogni paese in- tervenne davanti al Consiglio Economico e Sociale delle Nazioni Unite (ECOSOC), parlando in breve della propria nazione e delle proprie esperienze. Diplomatici e persone importanti di ogni genere stavano seduti composti ad ascoltare. Orgoglioso di rappresentare la Sierra Leone, anch‟io ascoltavo e aspettavo il mio turno. […] “Ven- go dalla Sierra Leone, e il problema più grosso per noi bambini è che la guerra ci costringe ad abbandonare le nostre case e le nostre fami- glie, e a vagare senza meta nella foresta. Perciò finiamo per parteci- pare al conflitto come soldati. […] Io mi sono arruolato perché vole- vo vendicare l‟uccisione dei miei familiari. Per sopravvivere, poi, avevo bisogno di cibo, e l‟unico modo per ottenerlo era arruolarsi. Non era facile fare il soldato, ma non avevamo scelta. Ho superato la riabilitazione, perciò non dovete avere paura di me. Non sono più un soldato, sono un ragazzo. La mia esperienza mi ha insegnato una co- sa, che la vendetta non serve a niente. Mi sono arruolato per vendica- re la morte dei miei familiari e per sopravvivere, ma ho imparato che vendicarsi significa uccidere qualcun altro, la cui famiglia a sua volta chiederà vendetta; e poi vendetta, e vendetta, e vendetta, senza mai fine (pp. 217-218).

… e vendetta, e vendetta, e vendetta, senza mai fine. Ishmael – di certo senza saperlo – fa eco a Bobbio (1982, 1997, p. 227): «Una delle poche le- zioni certe e costanti che possiamo trarre dalla storia è che violenza chiama violenza, non solo di fatto, ma anche, ed è ancor più grave, con tutto il se- guito delle giustificazioni etiche, giuridiche, sociologiche che la precedono o la seguono. Non vi è violenza, anche la più efferata, che non sia stata giu- stificata come risposta, come unica risposta possibile, alla violenza altrui: la violenza del ribelle come risposta alla violenza dello stato, quella dello sta- to a quella del ribelle, in una catena senza fine, com‟è senza fine la catena delle faide familiari e della vendetta privata».

Ferocia e morte è il dualismo della guerra dei kadogo, cui si aggiunge la palese violazione dei diritti dell‟infanzia. Solo sullo sfondo, per qualche bambino-soldato meno brutalizzato, si profila qualcos‟altro che ha il sapore della speranza e della rinascita. Ma è un processo di ristrutturazione davve- ro complicato, e comunque non riparatore di un‟infanzia violata103.