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Sul nocciolo duro dei diritti uman

1. Estensione semantica del concetto di guerra: dai kadogo ai dron

1.4. Le guerre “non pervenute”

Solo nel mese di gennaio 2009, decine e decine di articoli di grande in- teresse vengono pubblicati sul quotidiano la Repubblica in merito al con- flitto israelo-palestinese. Alcuni di questi articoli mi hanno permesso di de- lineare il quadro del paragrafo precedente, molti altri li ho dovuti passare necessariamente sotto silenzio. Tra i temi dibattuti negli articoli passati sot- to silenzio – temi che qui non hanno trovato spazio, se non marginalmente – si annoverano: i precedenti storici fra israeliani e palestinesi; il ruolo dell‟America come potenza mediatrice; i giochi di potere in seno alla leadership palestinese; l‟equiparazione, tutta da dimostrare, tra Hamas e l‟intera popolazione della Striscia; altre atrocità del conflitto documentate per le strade di Gaza; il punto di vista della minoranza dei cittadini arabi dello stato d‟Israele; gli interrogativi degli intellettuali israeliani sulla so-

116 Per Amos Oz – altro scrittore israeliano – “Hamas non è solo un‟organizzazione terrori- stica. Hamas è un‟idea. Un‟idea disperata, fanatica, figlia della desolazione; e difficilmente un‟idea muore sotto i bombardamenti. O sotto i cingoli dei carri armati”.

stenibilità etica del conflitto voluto dal loro governo; le difficoltà di accesso degli aiuti umanitari nella Striscia; le limitazioni alle telecomunicazioni imposte ai soldati israeliani; le storie che i loro familiari postano sui blog; il cinismo politico e il fanatismo religioso che impone di ostentare i corpi dei morti; lo sdegno che solleva la vile pratica dell‟uso degli scudi umani; l‟esclusione dei giornalisti dalla Striscia; la breve comparsa sulla scena de- gli Hezbollah libanesi e il timore che possa aprirsi un nuovo fronte di guer- ra; la narrazione della guerra per slogan – a guerra finita – da parte di Ha- mas; la forza del dialogo contro l‟inutilità della guerra; le conseguenze poli- tico-internazionali dell‟attuale crisi militare; gli appelli alla Convenzione di Ginevra; il proliferare dei nuovi insediamenti in Cisgiordania e nella Stri- scia di Gaza; le pressioni internazionali – Stati Uniti in testa – per dare un nuovo avvio ai negoziati di pace117.

Sulla reale presa di coscienza delle atrocità della guerra in Terrasanta da parte dell‟opinione pubblica non ho elementi per esprimermi118; ma stante quanto sopra, certo è che ha avuto una copertura giornalistica di tutto ri- spetto. Altre guerre nel mondo – altrettanto sanguinose, se non di più – pas- sano invece praticamente inosservate, al punto che definire „discontinua‟ la loro copertura (mediatica e giornalistica) risulta essere solo un eufemismo.

Per usare un linguaggio sportivo, trattasi di guerre percepite come fosse- ro di terza categoria. O forse, più esattamente, di guerre non percepite, non pervenute all‟Occidente. Solo inseguendo il trafiletto, il reportage una tan-

117 A questa messe di articoli passati sotto silenzio, nel giugno 2010 se ne assommano altri, relativi a una delle pagine più oscure della storia israeliana: l‟assalto al convoglio marittimo della Freedom Flotilla – nove morti, oltre trenta i feriti – fuori dalle acque territoriali. Si trattava di un convoglio di pacifisti, per lo più turchi, decisi a spezzare il blocco di Gaza. L‟attacco israeliano apre una crisi diplomatica con la Turchia. A Piazza Taksim, il cuore di Istanbul, dodicimila persone urlano: “Vendetta, vendetta”. L‟ira si placa solo quando la ra- dio trasmette le decisioni del governo turco di richiamare l‟ambasciatore in patria e di con- vocare il rappresentante israeliano per „urgenti comunicazioni‟. L‟alto Rappresentante dell‟Unione europea per la Politica Estera e la Difesa – Catherine Ashton – evoca l‟esigenza di un‟inchiesta internazionale.

118 È stato notato come con la prima Guerra del Golfo, nel 1991, nel racconto delle vicende belliche (quanto meno per televisione) si sia diffuso l‟infotainment – la commistione tra in- formazione (information) e intrattenimento (entertainment) – sollevando dubbi sulla reale comprensione del pubblico di quel che succede sul campo di battaglia. Sul punto v. Remon- dino (2002, p. 53) e Ricucci (2004, p. 79).

tum, si riesce ad averne sentore. Tremende per estensione e ferocia, e so-

stanzialmente non illuminate dai media: sono le guerre combattute preva- lentemente in Africa; prevalentemente, perché non è soltanto in Africa che si combatte nell‟indifferenza generale. Con una buona dose di sarcasmo, osserva Remotti (2008, pp. 24-25): «Stabilizzare […] la propria cultura si- gnifica […] produrre montagne di „scarti di umanità‟ […]. Noi „razionali e naturali‟ ci presentiamo come il concentrato più nobile dell‟umanità: „noi‟ siamo i rappresentanti dell‟umanità piena e autentica. Gli altri sono „fuori‟ della ragione e persino „fuori‟ della natura, anzi „contro natura‟, un ammas- so di culture e di costumi senza senso, rappresentanti di un‟umanità inferio- re, che occorre educare (se siamo buoni e tolleranti), allontanare […] (se siamo meno buoni e intolleranti)»119. Oppure, più semplicemente, ignorare, disconoscere.

Somalia, maggio 2009

Truppe etiopi, scortate da blindati pesanti, sono nuovamente penetrate in Somalia per fronteggiare l‟ultima offensiva dei ribelli delle Corti islamiche e prestare man forte al presidente somalo Sharif Ahmed. I ribelli somali hanno lanciato un‟offensiva senza precedenti per rovesciarlo. Peggiorano intanto le condizioni di una popolazione civile già stremata da quasi vent‟anni di conflitti. In un raggio di cento chilometri da Mogadiscio ci so- no già centinaia di migliaia di sfollati, mentre si riduce la capacità delle or- ganizzazioni umanitarie di accedere a queste aree per portare aiuti. Alle cinquantamila persone che in questi giorni sono fuggite dalle violenze della capitale, se ne aggiungono oltre un milione che hanno lasciato le loro abita- zioni tra il 2006 e il 2008, il biennio della sconfitta delle Corti islamiche e della presenza etiope nel paese. Un bambino su cinque è denutrito, tre mi- lioni di persone hanno bisogno di aiuti: è questa la Somalia del governo provvisorio del presidente Sharif Ahmed, è questa la Somalia in cui al-

Qaeda combatte la sua guerra dimenticata dall‟Occidente.

119 Sull‟opposizione tra un„Europa quale culla di civiltà e un‟Africa quale continente immo- bile, incapace di evolversi, disumano, dispotico, feticistico, fermo al grado zero dell‟umanità e buono solo per descrivere gli inizi dell‟avventura dello spirito umano, già Hegel (1837, 1963, pp. 234-262).

Nigeria, luglio 2009 - marzo 2010

Cristiani e musulmani si uccidono in nome di Dio. Battaglie furibonde in quattro regioni del nord – Buaci, Yobe, Kano e Borno – lasciano sul ter- reno seicento morti. Sono per lo più i militanti radicali islamici del gruppo

Boko Haram, decisi a imporre la shari‟a in uno dei più popolosi paesi

dell‟Africa nera. Armati di coltelli, machete, asce e molotov si sono scon- trati con i corpi speciali dell‟esercito del presidente Umaru Yar‟Adua. Il presidente teme l‟ennesima „guerra di religione‟, e ordina il coprifuoco. Per tre giorni e tre notti i soldati si scontrano con gli studenti ribelli. Si regi- strano violenze, torture, fucilazioni sommarie. La sproporzione di forze è enorme. Il capo del gruppo è catturato e ucciso dalle forze di polizia, insie- me ad altri giovani studenti e a diversi civili. Naufraga un progetto con po- chissimo seguito, ma resta la spia di un Islam radicale che preme verso l‟Africa nera.

Cancellata dalle mappe Kuru Karama120, uno dei tanti insediamenti Hausa nello stato del Plateau. Dei tremila abitanti, i cristiani Birom ne han- no sterminati almeno centocinquanta. Per ritorsione, di lì a qualche setti- mana, vengono attaccati e massacrati cinquecento cristiani di Doko Naha- wee. Poi è la volta della strage dei Fulanu-Hausa di etnia musulmana: un‟altra rappresaglia buona per alimentare il ciclo di faide che da anni agita questo stato incuneato tra il Nord a maggioranza musulmana e il Sud a pre- valenza cristiana. Ma la religione sembra essere solo un pretesto, la lotta essendo economica, politica, tribale e culturale.

Kirghizistan, giugno 2010

Donne e bambini dormono vicino al fiume. Non hanno coperte, né cibo. Mancano anche i medicinali. Sono almeno centomila, sfuggiti ai massacri che ancora imperversano nelle vicine città di Osh e Jalal Abad, nel Kirghi- zistan sconvolto dall‟ennesima guerra civile. Altre colonne di disperati so- no in marcia da giorni per raggiungere le rive del Syr Darya, frontiera con l‟Uzbekistan, e adesso unica speranza di salvezza per un popolo intero. Do- po aver accolto i primi profughi, l‟Uzbekistan ha deciso di chiudere le por- te: “Siamo un paese povero, non possiamo permetterci altri ingressi”. All‟Onu si parla già di catastrofe umanitaria. Per le strade delle città la bat-

120 Alla pagina http://www.repubblica.it/esteri/2010/03/08/news/nigeria_reportage-2549926/ è possibile trovare ulteriori, agghiaccianti, particolari.

taglia continua tra le fazioni delle due etnie kirghiza e uzbeka, divise da un odio storico. Il bilancio provvisorio parla di duecento morti e di duemila feriti. La violenza degli scontri è tutta nel racconto di un anziano chirurgo di Osh: “Continuano ad arrivare feriti. Pochi sono quelli colpiti da armi da fuoco. Ci sono crani fracassati, ferite da taglio, molte ragazze violentate e con i seni amputati”.

Marocco, novembre 2010

Dopo vent‟anni, il deserto torna ad essere un campo di battaglia. I Saha- rawi ne rivendicano un lembo al confine con la Mauritania, il governo ma- rocchino si rifiuta di concederlo. Per protesta, ventimila Saharawi lasciano Layoun, la loro antica roccaforte, per accamparsi a quindici chilometri di distanza: un modo per ribellarsi alle condizioni di vita imposte sul territorio marocchino. Per rappresaglia, centinaia di poliziotti fanno irruzione nel campo, distruggendo la gran parte delle tende. Secondo il Fronte Polisario – l‟organizzazione politica saharawi – è in corso un massacro. Dagli inizi degli anni ‟90, la querelle era rimasta soltanto nelle carte delle Nazioni Uni- te, nei rapporti delle Ong sui diritti umani violati, nelle risoluzioni mai ap- plicate degli organismi internazionali. Adesso, l‟esodo di massa. Giovani, donne, bambini e anziani rivendicano il diritto naturale all‟esistenza del lo- ro popolo, e a una terra natale: in altre parole, rivendicano il diritto all‟au- todeterminazione. Chiedono l‟indipendenza, vogliono che venga celebrato il referendum proclamato quasi vent‟anni fa ma rimasto lettera morta. L‟esodo da Layoun è l‟estremo tentativo di riportare il dramma all‟atten- zione del mondo. Ma il mondo sembra più che distratto.

Costa d’Avorio, dicembre 2010

Ventimila profughi in fuga verso la Liberia, decine di morti e centinaia di feriti per le strade di Abidjan. Fuggono dalle violenze seguite alle conte- state elezioni presidenziali delle settimane scorse. Nella capitale, emissari della Comunità degli Stati dell‟Africa Occidentale tentano di risolvere la crisi, puntando a convincere il presidente uscente, Laurent Gbagbo, a cede- re il potere al leader dell‟opposizione, Alassane Ouattara, uscito vincitore dalla consultazione. Il paese rischia di sprofondare nella guerra civile. De- cine di uomini e donne sono state prese in piena notte nelle loro case e por- tate via da persone non identificate, in divisa. L‟Alto Commissario dei di- ritti dell‟Uomo dell‟Onu, Navy Pillay, denuncia il ritorno dei famigerati

squadroni della morte, quegli stessi che imperversarono tra il 2002 e il 2004. Le Nazioni Unite, superando il veto della Russia, si apprestano a va- rare una risoluzione di condanna.

L‟elenco non finisce qui. Altri conflitti insanguinano la Repubblica de- mocratica del Congo, lo Sri Lanka, la Guinea, il Niger, il Madagascar…

Costi di copertura e morte: questa la dicotomia delle guerre dimenticate dall‟Occidente. Ma i diritti umani non sono una merce da vendersi un tanto al chilo. Eppure, l‟informazione è considerata una merce, con i suoi costi di produzione e i suoi attesi ricavi; coprire un fronte di guerra è un investi- mento che deve rendere in termini di audience. Ma quando „i nostri‟ non sono coinvolti, la guerra – la guerra d‟altri – è un fatto che non ci appartie- ne culturalmente, un investimento che non rende. O se vogliamo, un pro- dotto andato a male. Resta il fatto, a dispetto della nostra distrazione, che in tanta parte del mondo si continua a morire in silenzio, come per non distur- bare.

Ci sono parti del mondo dove il concetto di „diritti umani‟ – stante quan- to vi succede – non ha, davvero, alcun senso. L‟arbitrio di chi opera con la forza delle armi è indegno dell‟Uomo. Per coloro che vivono nell‟altra me- tà del mondo, e si dicono sensibili al rispetto di questi diritti, ci sarebbe già materia a sufficienza per interrogarsi; per capire, al di là delle petizioni di principio, se l‟umanità sia sulla strada giusta. Ma in fondo – vedremo nel prossimo capitolo – a questa metà del mondo non necessita guardare all‟altra per porsi la domanda. A questa metà del mondo, più fortunata, ba- sterebbe solo guardare in casa propria per accorgersi che la strada imbocca- ta spesso non è affatto quella giusta.

Ora però dobbiamo continuare a percorrere il cammino intrapreso, rela- tivo all‟estensione semantica che il concetto di guerra ha assunto oggi.