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L‟ipocrisia dell‟Occidente: il milite è sempre eroico

Sul nocciolo duro dei diritti uman

2. Lo scontro di civiltà: eroi e martir

2.1. L‟ipocrisia dell‟Occidente: il milite è sempre eroico

Corazzati dunque di silenzio e di pazienza, taciturni e im- penetrabili, quei pochi contadini che non erano riusciti a fug- gire nei campi stavano sulla piazza, all‟adunata; ed era come se non udissero le fanfare ottimistiche della radio, che veni- vano di troppo lontano, da un paese di attiva facilità e di pro- gresso, che aveva dimenticato la morte, al punto di evocarla per scherzo, con la leggerezza di chi non ci crede.

Il Paese di attiva facilità e progresso, dimentico della morte o che – ed è quasi lo stesso – se ne sorprende quando arriva, anche quando arriva in cir- costanze più che possibili come una guerra, è il mondo occidentale, ricco e opulento. E oggi più di ieri, al tempo del Cristo di Levi152. Dimenticata o rimossa, perfino la morte per guerra, quando si presenta, coglie di sorpresa. Per questo va esorcizzata, telecamera in spalla, o notes alla mano.

Oggigiorno, tutto quel che l‟Occidente (tecnologicamente progredito) chiede ai suoi soldati è di sparare, non già, come un tempo, anche di morire per la causa. Da questa parte del mondo, oggi come oggi, non è più previsto morire per guerra153. Questo dato di fatto sembra a tal punto interiorizzato che l‟opinione pubblica occidentale è perennemente impreparata alle catti- ve notizie e sussulta di sdegno ogni qual volta si trovi a piangere i suoi (per fortuna, sempre più scarsi) caduti. Quando capita, per esorcizzarne la mor- te, i mezzi di informazione ci portano a casa del defunto, ne raccontano la biografia, ne disvelano il privato, ci mostrano il dolore dei parenti e le sce- ne del funerale alla presenza delle Istituzioni.

Qualunque ne sia l‟arma o il grado, oggi il milite caduto ha sempre un nome e un retroterra: oggi il milite è sempre noto. Riporto dalla cronaca:

C‟era il velo affettuoso della notte per il ritorno a casa del sergen- te Dale Griffin dentro la bara bianca d‟ordinanza. C‟era a riceverlo il Presidente degli Stati Uniti che […] in queste ore sta decidendo se

152 Per una storia sui modi di approcciarsi alla morte in Occidente – dalla cerimonia pubblica e familiare tipica del Medioevo fino all‟occultamento dei giorni nostri nei grandi, anonimi, ospedali – v. Ariès (1975, 1978).

153 Concordano sul punto Eco (2002, pp. 17-19), Spoto (2009, p. 126) e il sociologo Ulrich Beck, che dalle colonne del giornale afferma: “L‟obiettivo è minimizzare in modo post- eroico i rischi per la sicurezza”. Che distanza siderale con quanto documentato dallo stesso Eco (1991, p. 182) a proposito della guerra americana in Vietnam: «Il modulo è quello che il Dipartimento di Stato invia agli uffici telegrafici per comunicare la morte di un congiunto alle famiglie dei caduti in Vietnam. Il modulo reca già stampigliata la menzione „Vietnam‟ nello spazio riservato alla determinazione del luogo di morte. [...] La presenza del modulo suggerisce l‟idea che la morte in Vietnam sia un fatto di massa, trattato come tale, e sia al tempo stesso un accadimento burocratico rubricato come tale; menzioni come “We regret to inform you that your son/husband/father [was killed in action in VIETNAM]” danno il sen- so dell‟assoluta intercambiabilità delle creature umane di fronte al trattamento burocratico della morte».

mandare altri come lui, saltato su una mina in Afghanistan, a conten- dersi l‟onore di tornare a casa coperto dalle bandiere sudario.

Bitetto. Ventisette giorni: tanto è durata la prima e ultima missio- ne all‟estero di Luigi Pascazio, venticinque anni, caporalmaggiore del trentaduesimo reggimento del Genio militare di Torino, morto ie- ri nella provincia di Herat. Per l‟Afghanistan era partito lo scorso 20 aprile. Era la sua prima volta all‟estero in divisa. L‟esordio per lui che, in gergo, era un Vfp4: volontario in ferma prefissata per quattro anni. Il comandante del distretto militare ha avvertito il padre in uffi- cio perché a casa, in via Montegrappa, alle 08.30 di mattina non c‟era già nessuno: in giro a fare spese la madre Maria, casalinga, a scuola la sorella di 14 anni. Sposata è invece l‟altra sorella, Maristel- la, ventisette anni. “Un ragazzino mandato a fare la guerra”, ha ripe- tuto ieri Angelo Pascazio a chi è passato da casa per abbracciarlo. Trovando lui, la moglie, le sorelle, e la fidanzata di Luigi, Antonia, ventitre anni, attoniti, smarriti. Tutti convinti però che “in guerra non deve morire più nessuno”. Luigi è il terzo pugliese a morire in Af- ghanistan negli ultimi nove mesi. Prima di lui ci sono stati Davide Ricchiuto, saltato su un Lince proprio come Pascazio, il 17 settembre 2009, e Pietro Antonio Colazzo, il numero due dell‟Aise, morto a Kabul il 26 febbraio scorso.

Cisterna di Latina. “Adesso mi chiama… Adesso mi chiama e mi dice che è tutto a posto”. Una donna sconvolta che si abbandona, in singhiozzi, tra le braccia dei parenti e tenta di negare la tragedia che le ha distrutto la vita. La notizia della morte del sergente Massimilia- no Ramadù, trentuno anni, è arrivata con gli psicologi dell‟esercito al quarto piano di una palazzina di via Collina del Forte, alla periferia di Cisterna di Latina, una cittadina di 35.000 persone a una quaranti- na di chilometri da Roma. Alla moglie Annamaria Pittelli, trentuno anni, che il sottufficiale aveva sposato a luglio, è bastato vedere le divise per capire. “Me lo sentivo, avevo un presentimento – sussurra al parroco – uno pensa sempre che queste cose succedono solo agli altri e invece io avevo paura, lo sapevo che Massimiliano era in peri- colo”. I due si erano sentiti per un saluto domenica sera, ma il colle- gamento con Skype era disturbato e la conversazione era stata breve. “Dovevamo riprovare oggi”, continua la giovane donna tra le lacri- me. “Un ragazzo solare, sportivo, educato”, così la professoressa A- driana Stassi, del liceo scientifico di Cisterna, ricorda il suo ex allie- vo. “Era molto attivo nell‟Azione cattolica, un giovane pieno di fede e di ideali” aggiunge, commosso, il parroco. Massimiliano era il primo di tre fratelli. Demis, ventotto anni, anche lui militare, è arri- vato in serata da Modena, mentre i gemelli Carlo e Franco, ventuno anni, operai, hanno fatto la spola tra casa dei genitori e dei suoceri.

Puntare i riflettori sul lato quotidiano, normale, sereno e spensierato di questi giovani caduti ha l‟effetto di ricordarci il loro essere „uomini di pa- ce‟; e quindi, in un rimando a catena: „soldati di pace‟, „soldati di pace mor- ti per il bene altrui‟, eroi. Proprio così: essendo uomini di pace, e non sol- dati di guerra, quando cadono questi nostri soldati diventano, ipso facto, degli eroi. Poco importano le circostanze del fatto funesto: fosse anche per imperizia, per „fuoco amico‟ o per vigliacca imboscata, la morte sul campo di battaglia conferisce loro lo status – sociale, quanto meno – di eroi di guerra.

Non era certo questo – nell‟antichità, e fino a non molto tempo fa – il concetto di eroismo. Perché si potesse parlare di eroismo necessitava il sa- crificio consapevole, frutto di un generoso atto di coraggio. Eroe era chi metteva a rischio la sua vita – al limite, fino al sacrificio consapevole – per salvare quella altrui da un pericolo imminente. Da questo punto di vista, né i soldati occidentali che muoiono oggi per il mondo né, vedremo, i cosid- detti martiri mediorientali lo sono154.

Tornando all‟oggi, le esequie di stato aiutano con ogni probabilità i con- giunti ad accettare la perdita prematura – a elaborare il lutto – e servono di certo all‟opinione pubblica perché possa accettare l‟idea del conflitto. Pur- ché non si dica che siamo in guerra. Al più, già lo sappiamo, siamo impe- gnati in operazioni di peace-keeping…

154 Anche i concetti di eroe ed eroismo sembrano quindi caratterizzarsi per un diverso rita- glio concettuale rispetto al passato. Ricordiamo la strage di Nassiriya del 12 novembre 2003. Vi morirono diciannove italiani, tra militari e civili, per l‟attentato di due militanti suicidi di

al-Qaeda. Piangemmo quelle vittime come eroi. (Anche sulla rete l‟accostamento eroi - vit- time di Nassiriya è un fatto piuttosto scontato (v. ad esempio alla pagina web

http://www.renata polverini.it/2010/11/12/la-regione-lazio-ricorda-gli-eroi-di-nassirya/ o alla pagina http:// www.quicaserta.it/inaugurata-la-piazza-eroi-di-nassirya-per-la-pace). A distanza di tempo la cronaca ci racconta una storia un po‟ diversa, piuttosto incompatibile con quello stato d‟animo: “Se il 12 novembre del 2003 un camion bomba riuscì a travolgere le difese della base Maestrale di Nassiriya fu perché la struttura non era adeguatamente pro- tetta: i familiari dei diciannove italiani straziati dall‟esplosione hanno quindi diritto a essere risarciti. Oltre sette anni dopo è stata la Cassazione a scrivere un nuovo capitolo della intri- cata vicenda giudiziaria sul „giorno nero‟ della missione italiana in Iraq, costato la vita a do- dici carabinieri, cinque militari dell‟Esercito, due civili italiani e nove iracheni”. Sulla figura dell‟eroe e sulla retorica dell‟eroismo (italico) che «sposta(va) l‟accento dalla „bassezza‟ dei fattori materiali alla „elevatezza‟ di quelli morali», v. anche Battistelli (2000, pp. 91-92).