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Sul nocciolo duro dei diritti uman

1. Estensione semantica del concetto di guerra: dai kadogo ai dron

1.6. Le due Coree: a un passo dal baratro

L‟esperienza, l‟uomo, l‟ha già fatta. Per non dimenticarla, il corrispon- dente di guerra di uno dei più grandi quotidiani degli Stati Uniti – John Hersey (1946, 1947) – l‟ha descritta così:

6 agosto 1945, a Hiroshima

Preoccupato per la famiglia e per la chiesa, il signor Tanimoto prese dapprima la via più breve, il viale Koi. Solo a percorrere quella strada in direzione della città, incontrò centinaia e centinaia di fug- giaschi, ognuno dei quali appariva in un modo o nell‟altro ferito. Al- cuni avevano bruciate le ciglia e lembi di pelle pendevano loro dalla faccia o dalle mani. Altri, per il dolore, tenevano levate le braccia come se portassero qualcosa nelle mani. Qualcuno vomitava cammi- nando, molti erano nudi o a brandelli. Su alcuni corpi, le bruciature avevano disegnato i contorni delle spalline della camicia o delle bre- telle, e sulla pelle di certe donne (poiché il bianco rigettava il calore della bomba mentre i tessuti scuri lo assorbivano trasmettendolo all‟epidermide) il disegno dei fiori che portavano sul kimono. Molti, sebbene feriti, sostenevano a braccia parenti più gravi: quasi tutti procedevano curvi guardando dritto davanti a sé, silenziosi, privi di espressione (pp. 47-48).

Quella mattina presto, 7 agosto, la radio giapponese diede un primo rapido annuncio che ben pochi (se non addirittura nessuno) dei più interessati al suo contenuto, le autorità di Hiroshima, riuscirono ad ascoltare: “Hiroshima ha subito gravi danni in seguito a un attac- co di pochi B-29. Si crede che sia stato usato un nuovo tipo di bom- ba. È in corso un‟inchiesta”. Né è probabile che le autorità di Hiro- shima abbiano ascoltato la ritrasmissione su onde corte di una sensa- zionale dichiarazione del Presidente degli Stati Uniti, che identifica- va la bomba come „atomica‟: “Questa bomba ha più potenza di ven- timila tonnellate di TNT, e duemila volte quella del British Grand Slam, la più grossa bomba finora usata nella storia della guerra”. Le vittime che erano ancora in grado di preoccuparsi di quel che era ac- caduto ne discussero in termini estremamente primitivi e infantili, immaginando o della benzina lanciata da un aeroplano o un gas combustibile o un enorme grappolo di bombe incendiarie o la diabo- lica opera di paracadutisti; ma, quand‟anche avessero saputo la veri-

tà, troppi di loro erano affaccendati o sfiniti o feriti per sdegnarsi d‟essere stati fatti oggetto del primo grande esperimento sull‟impiego dell‟energia atomica, esperimento che solo gli Stati U- niti (urlava la voce sull‟onda corta), con la loro tecnica industriale e la possibilità di puntare due bilioni di dollari-oro nel terribile gioco della guerra, potevano essersi permesso (pp. 76-77).

Nel viaggio di ritorno, perse la strada nei pressi di un albero ca- duto e, mentre cercava di orientarsi nel bosco, sentì una voce chiede- re tra i cespugli: “Avete da bere?”. Riconobbe una divisa militare e, credendo si trattasse di un soldato solo, si avvicinò con l‟acqua. Ma, quando si fu addentrato tra i cespugli, constatò che v‟erano circa venti uomini, tutti nelle stesse ossessionanti condizioni, il volto inte- ramente bruciato, le orbite vuote, un liquido che colava sulle guance dagli occhi (dovevano aver guardato all‟insù quando fu lanciata la bomba: appartenevano forse a una batteria contraerea), e le bocche ridotte a ferite gonfie e purulente che non riuscivano a tendersi abba- stanza per attaccarsi al beccuccio della teiera. Così, padre Kleinsorge prese dell‟erba, affilò uno stelo come una cannuccia, e diede loro da bere in quel modo. Uno disse: “Non ci vedo”. Padre Kleinsorge ri- spose, più cordialmente che poté: “C‟è un dottore all‟entrata del par- co. È occupato, ora, ma non tarderà a venire e vi guarirà gli occhi, spero” (pp. 79-80).

E così lo ricorda il signor Takashi Tanemori, quel nefasto giorno a Hiro- shima (in Rampini, 2006)136:

Avevo otto anni e facevo la seconda elementare a Hiroshima. Il 6 agosto 1945 era cominciato come una bellissima mattina d‟estate. C‟era stato un solo allarme aereo alle sette ma era finito subito, alle otto ero già fuori dal rifugio e a scuola con gli amici. Giocavamo a nascondino nel cortile. Toccava a me contare, perciò ero appoggiato contro il muro con gli occhi chiusi e la mano davanti a coprire il vi- so. Il lampo, un bagliore bianco puro, fu così forte che ricordo di a- ver visto le ossa nude della mia mano, trasparente come ai raggi X. Poi il silenzio assoluto. Solo in seguito arrivò un tremore assordante, come se centinaia di carri armati stessero correndo contro di noi. Da quel momento deve essere passato del tempo di cui non ho memoria. Il ricordo successivo è un senso di soffocamento, l‟aria mancava, at- torno era buio, tutto bruciava. Sentivo la puzza di bruciato e i miei compagni che gridavano: “scotta!” (p. 281).

136 La storia del signor Takashi Tanemori la si può trovare anche in rete, alla pagina web http://www.goldengatewing.org/proptalk/speaker.cfm?ID=10.

Tutto intorno sentivo le grida dei bambini che chiamavano le mamme, i lamenti degli uomini e delle donne che chiedevano acqua, acqua. Una giovane mamma portava un piccolo sulle sue spalle e cercava disperatamente l‟altro figlio, ma quando le siamo passati a fianco ho visto il bambino che teneva sulla schiena: aveva la testa fracassata. Quell‟immagine ritorna continuamente ad angosciarmi. Arrivati al fiume c‟era un inferno, migliaia di esseri umani anneriti, nudi e bruciati come dei vermi orrendi. Tutti volevano acqua, anche chi non riusciva più a muoversi implorava un po‟ dell‟acqua che scorreva. Qualcuno mi chiamò per nome: era mio padre che mi ave- va ritrovato, mi prese dalle braccia del soldato, per un attimo mi sen- tii finalmente al sicuro, protetto. Il cielo piombò nell‟oscurità, grandi gocce di pioggia sporca cominciarono a caderci addosso, picchiava- no sulla nostra pelle ustionata ed era un altro dolore. Il fiume si in- grossava, la corrente trascinava corpi neri e detriti. Due giorni dopo, quel fiume lo potemmo traversare a piedi, camminando su un ponte fatto di cadaveri (p. 282).

Ma oggi, lungo il 38° parallelo, siamo di nuovo a un passo dal baratro. Vediamo come ci si è spinti fin qui, prendendo in considerazione non tanto le ragioni politiche – che qui restano sostanzialmente non spiegate (e sul giornale solo supposte) – quanto i trascorsi storici e le attuali manovre mili- tari (da quelle ragioni insondate, ispirate).

L’escalation della tensione

25 giugno 1950: l‟esercito nordcoreano invade la Corea del Sud. Inizia la guerra lungo il 38° parallelo, che coinvolgerà Stati Uniti, Urss e Cina.

27 giugno 1953: siglato l‟armistizio. Prevista una zona-cuscinetto demi- litarizzata, per dividere i due stati. Il bilancio del conflitto: due milioni di morti fra cinesi e coreani, quarantaquattromila militari americani uccisi. Ma le due Coree rimangono sostanzialmente in guerra, perché all‟armistizio non seguirà mai nessun trattato di pace.

Ottobre 2006: sono passati cinquant‟anni, e la Corea del Nord fa il suo primo test nucleare.

Aprile 2009: la Corea del Nord lancia un missile a lunga gittata che si inabissa nel pacifico, tra il Giappone e le Hawaii. Arrestate due giornaliste

americane, accusate di spionaggio. Interrotta la sia pur limitata cooperazio- ne economica con la Corea del Sud.

Maggio 2009: la Corea del Nord appronta il suo secondo test nucleare facendo esplodere una bomba sotterranea della stessa potenza di quella di Nagasaki, provocando una scossa tellurica nella zona di Kulju, nel nord-est del paese. Il test ha il sapore di una sfida, volta a vanificare i tentativi inter- nazionali di limitare la proliferazione delle armi atomiche. Dura condanna da parte del Consiglio di sicurezza dell‟Onu. Prende corpo l‟ipotesi di nuo- ve sanzioni. È la prima vera crisi internazionale della presidenza Obama.

Maggio 2009: la Corea del Nord effettua altre manovre militari. Due missili finiscono in mare, al largo del Giappone. Tuona il giornale di regi- me: “Siamo pronti alla battaglia contro gli Stati Uniti”. Poi, ventiquattrore dopo, un annuncio ancora più drammatico: “Siamo in stato di guerra”. La tensione si propaga per tutto l‟Estremo Oriente, lì dove si fronteggiano gli eserciti più potenti del pianeta: l‟americano e il cinese. Pyongyang avverte: “Attaccheremo la U.S. Navy e i loro alleati sudcoreani, se oseranno inter- cettare le nostre navi, alla ricerca di armi di distruzione di massa”. A Seul – la capitale della Corea del Sud, che con i suoi dieci milioni di abitanti dista meno di cinquanta chilometri dal confine con il Nord – torna la paura. Me- no di cinquanta chilometri: dal confine o dal baratro?

Giugno 2009: una risoluzione del Consiglio di Sicurezza inasprisce l‟embargo sul traffico di armi con la Corea del Nord. Ma il regime non si ravvede; anzi, al contrario, l‟attivismo bellico è ai massimi livelli di allerta. Luglio 2009: due missili a corto raggio, lanciati dal porto nordcoreano di Wonsan, cadono nel Mar del Giappone, l‟area che Pyongyang ha proibi- to con un diktat a navi e aerei del paese del sol levante. Dall‟ultimo test a- tomico, sono già sei i missili esplosi.

Marzo 2010: sulla corvetta sudcoreana Cheonan è strage. Muoiono qua- rantasei marinai. Passata una settimana, Seul rende pubbliche le conclusioni dell‟indagine internazionale condotta con gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, la Svezia e l‟Australia: la nave militare è stata centrata da un missile spara- to da un sottomarino nordcoreano. Chiesto al Consiglio di Sicurezza

dell‟Onu il varo di nuove sanzioni per mettere in ginocchio il regime del dittatore Kim Jong-il, che reagisce violentemente. La Corea del Nord accu- sa Seul di sconfinamenti nelle sue acque territoriali e minaccia misure mili- tari concrete. A Pyongyang è stato di guerra: interrotti i rapporti e i colle- gamenti viari con il Sud, vietato lo spazio aereo e quello navale. Abrogato l‟accordo di non aggressione: si teme per i duemila sudcoreani della regio- ne industriale di Kaesŏng. Per la prima volta dopo la fine della guerra del 1950-1953, a Seul la gente torna a far scorta di generi alimentari. Le autori- tà invitano gli stranieri a lasciare il paese.

Novembre 2010: nel Mar Giallo, l‟arcipelago di Yeonpyeong prende fuoco. È abitato da poco meno di milleottocento sudcoreani, per lo più pe- scatori. Il 23 novembre, alle 14 e 34 ora locale, lo raggiunge un primo col- po di artiglieria. Va in pezzi l‟armistizio del „53, del resto già sospeso da Kim Jong-il a fine maggio. Il regime di Pyongyang ha scatenato l‟attacco che diffonde nel pianeta l‟incubo di una guerra atomica. Dichiara un pesca- tore: “In pochi minuti, decine di bombe ci sono piovute addosso. Il rumore e una specie di vento erano insopportabili. Abbiamo sentito il villaggio tremare, poi crollare”.

Il presidente sudcoreano Lee Myung-Bak convoca d‟urgenza un gover- no di guerra, elevando lo stato di allerta al livello di „minaccia vitale‟. Tre ore di battaglia, in mare e in cielo. Poi, l‟incubo di non riuscire a tornare indietro induce i belligeranti a sospendere le ostilità. I sudcoreani scappano dalle isole dell‟arcipelago. Chiusi a tempo indeterminato uffici, negozi, scuole. Chiuse le vie di comunicazione tra i due paesi. Interrotti gli aiuti a- limentari di Seul alla popolazione affamata del Nord. Pyongyang ammoni- sce: “Provocazioni militari e ritardo negli aiuti umanitari stanno spingendo la regione sull‟orlo della guerra”. Siamo davvero a un passo dall‟abisso.

La dinastia

Kim Jong-il, attuale leader nordcoreano, ha raccolto il testimone dal pa- dre Kim Il-sung – il „presidente eterno‟ – nel 1994. Nel maggio del 2009, gravemente malato, si prepara a sua volta alla successione. Nell‟incertezza del passaggio dei poteri, i preparativi di guerra servono probabilmente an- che a serrare le fila del regime. La propaganda patriottica raggiunge il pa- rossismo, il controllo poliziesco ha nuovi pretesti per stringere la sua morsa sulla popolazione. Un mese dopo la scelta sembra ricadere sul terzogenito,

Kim Jong-un, a dispetto delle voci che indicavano come favorito il figlio maggiore, Jong-nam.

Un potere che si tramanda di generazione in generazione non risponde certamente ai criteri di una moderna democrazia. Osserva Kant (1795, 2010, p. 25): «In una costituzione […] in cui il suddito non è cittadino e che quindi non è repubblicana, la guerra è la cosa più facile del mondo, perché il sovrano non è membro dello stato, ma ne è il proprietario e nulla perde dei suoi banchetti, delle sue cacce, castelli, feste a corte ecc. a causa della guerra, e la può quindi dichiarare come una specie di partita di piacere per cause insignificanti, lasciando al corpo diplomatico, sempre pronto a questo, il compito di giustificarla per salvare le apparenze». Non sarà, que- sta, una spiegazione puntuale delle cause di questa crisi; pur tuttavia, riesce quanto meno a spiegarne il sommo disprezzo per le conseguenze: e segna- tamente, ci ricorda che la sofferenza di molti – più spesso di quanto si creda – nasconde (o addirittura accresce) il privilegio di pochi. Ma in un regime dove il potere si tramanda per linea familiare, è un dato di nessun conto.

Disarmo e utopia

Nel resto del mondo, intanto, tra americani e russi si registrano segni di dialogo. Dopo quasi un decennio, la consapevolezza della possibile, reci- proca, distruzione per via delle armi atomiche – la consapevolezza della

Mutual Assured Destruction (Mad, come vuole il suo acronimo particolar-

mente sagace) – torna di attualità e riprende slancio137. Convinta dell‟insensatezza della corsa agli armamenti, l‟amministrazione Obama lancia la proposta di una riduzione bilanciata degli arsenali nucleari, nella misura dell‟ottanta per cento. Mosca fa sapere di accogliere la proposta fa- vorevolmente, e di essere pronta ad avviare colloqui per siglare in tempi brevi un nuovo trattato sulla limitazione delle armi strategiche di attacco138.

137 Le tappe di questo sia pur tardivo rinsavimento si possono tratteggiare per come segue. 1972: Nixon e Breznev firmano il primo trattato di limitazione degli armamenti (Salt 1); 1987: Reagan e Gorbaciov siglano il trattato di riduzione dei missili a raggio intermedio (Inf); 1991: Bush Senior e Gorbacion siglano il trattato di riduzione delle armi nucleari (Start); 2002: Bush Junior e Putin si accordano per ridurre di due terzi le armi nucleari entro dieci anni (Trattato di Mosca). Dopo l‟allargamento della Nato e lo scudo Usa antimissile, nel 2004 si registra un raffreddamento nei rapporti tra le due superpotenze.

138 L‟accordo verrà siglato da Obama e Medvedev l‟8 aprile del 2010 (per i particolari v. alla pagina web http://www.disarmo.org/rete/a/31437.html). Ma già nel febbraio del 2010, a Pa- rigi, presidenti, ex presidenti, primi ministri, generali e ambasciatori avevano promosso un

Ma a poco vale il ravvedimento, se altri stati ambiscono ad entrare a far parte del novero delle potenze nucleari. È il caso dell‟Iran che, pur negando di volersi dotare della bomba, avvia un vasto programma di arricchimento dell‟uranio139. Nel febbraio del 2010, il capo dell‟Organizzazione iraniana per l‟energia atomica, Ali Akbar Salehil, annuncia che nel centro di Natanz gli scienziati hanno avviato la lavorazione dell‟uranio per portarlo a un li- vello di purezza del venti per cento; per un utilizzo a scopi medici, si affret- tano a precisare, ma è un passo che la comunità internazionale teme decisi- vo verso il nucleare di guerra140. Da Monaco, esperti indipendenti avverto- no: “Per avere missili operativi all‟Iran servono diciotto mesi, forse venti- quattro; ma il punto decisivo è che ormai non esistono difficoltà tecniche di fondo che possano impedir loro di costruirsi la bomba”.

Al di là delle buone o delle cattive intenzioni del regime di Teheran, è proprio questo il punto: a poco valgono gli sforzi di russi e americani, se con il „progresso‟ tecnologico non è dato tornare indietro. Arrivato a un passo dall‟abisso, l‟Uomo è costretto a restarci per l‟eternità. Osserva Bob- bio in una intervista che raccolgo in rete141: “Siamo entrati nell‟era che vie- ne chiamata […] „post-moderna‟, […] caratterizzata dall‟enorme progresso tecnico, vertiginoso e irreversibile. […] Il progresso tecnico è irreversibile come il tempo: non si torna più […] ai fucili quando ci sono le armi atomi- che”.

Il rischio legato all‟atomo – a ben pensarci – non può più essere elimi- nato: governi irresponsabili o organizzazioni terroristiche di qualsivoglia fede politica possono sempre impadronirsi della conoscenza necessaria, della tecnica, e farne un uso scellerato; o magari possono, più semplice- mente, impossessarsi dell‟uranio arricchito e mal custodito da altri. Osserva il cronista: “Il diavolo che Usa, Urss, Francia e Gran Bretagna s‟illudevano

obiettivo decisamente più ambizioso, forse pure utopistico: quello di eliminare del tutto, en- tro il 2030, le armi nucleari nel mondo. È il cosiddetto Global zero, proposta che chiunque può leggere (e sottoscrivere) alla pagina web http://www.globalzero.org.

139 Attualmente, le potenze nucleari ufficiali sono la Cina, la Francia, la Gran Bretagna, la Russia e gli Stati Uniti. Potenze nucleari non dichiarate sono l‟India, Israele, il Pakistan e la Corea del Nord. Sospettata di condurre in segreto programmi nucleari è infine, oltre all‟Iran, anche la Siria.

140 Il livello di purezza dell‟uranio necessario per la bomba atomica è stimato intorno al no- vanta per cento.

di avere almeno rinchiuso nella giara dei trattati sulla non proliferazione si aggira libero per il mondo, come una tentazione di potenza alla quale pochi sanno resistere”142.

Bisognerebbe avere memoria della storia, per rimanere sempre un passo al di qua del baratro. Bisognerebbe avere memoria di quel che è stato a Hi- roshima e Nagasaki il 6 e il 9 agosto del 1945, e conservarne un sacro timo- re. Gli hibakusha, i sopravvissuti di quei bombardamenti atomici, sono an- cora tra noi. Il loro dolore – osserva Rampini (2006, p. 286) – resta un mes- saggio universale. Sankichi Toge lo ha espresso con queste semplici parole:

Ridatemi mio padre, ridatemi mia madre / Ridatemi il nonno e la nonna / Restituitemi i miei figli e le mie figlie / Ridatemi me stesso / Ridatemi la razza umana

Guerra, armistizio; manovre militari navali, aeronavali, sottomarine; spionaggio, propaganda, diktat; penuria alimentare e rischio atomico: è questo l‟ampio spettro del conflitto che si è dipanato nel tempo lungo il 38° parallelo. Comunque sia, un excursus di morte: giocato sì in ambito locale, ma sul punto di divampare e diventare globale. In una parola, un conflitto glocale143.