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Sul nocciolo duro dei diritti uman

5. Istituzioni totali e annichilimento del sé

1. Preambolo

L’habeas corpus

È il 1215, e nella Magna Charta Libertatum il principio dell‟habeas

corpus viene riconosciuto – obtorto collo – dal re d‟Inghilterra Giovanni

Senzaterra. Recita l‟articolo 29:

Nessun uomo libero sarà arrestato, imprigionato, spossessato del- la sua dipendenza, della sua libertà o libere usanze, messo fuori della legge, esiliato, molestato in nessuna maniera, e noi non metteremo né faremo mettere la mano su lui, se non in virtù di un giudizio lega- le dei suoi pari e secondo la legge del paese.

Bisognerà aspettare almeno il regno di Edoardo I (1272-1307) perché se ne cominci a percepire l‟operatività, ma il diritto dell‟habeas corpus può essere considerato, a ragione, come il più antico ed efficace atto di salva- guardia della libertà individuale contro l‟azione arbitraria dello stato – poi ripreso da tutte le moderne costituzioni occidentali. L‟habeas corpus è un appello al giudice contro la detenzione ingiustificata: Habeas corpus, ad

subjiciendum judicium, ovvero: ne sia esibito il corpo per sottoporlo a giu-

dizio, per verificare se è ancora in vita, per giudicare dell‟accusa e delle circostanze dell‟arresto158.

158 Sulla relazione inscindibile tra libertà personale, stato di diritto e habeas corpus v., tra gli altri, Bobbio (1989, pp. 131-132).

È il 1948, all‟indomani della Seconda Guerra mondiale, e l‟Assemblea Generale delle Nazioni Unite adotta all‟unanimità la Dichiarazione Univer-

sale dei Diritti Umani. Tra i firmatari, come ovvio, le potenze vincitrici del

conflitto: tra queste, gli Stati Uniti d‟America. Trenta articoli per disegnare un mondo più civile, più rispettoso dell‟essere umano. Recita l‟articolo 5:

Nessun individuo potrà essere sottoposto a tortura o a trattamento o a punizioni crudeli, inumane o degradanti.

Ha tutta l‟aria di essere un punto di non ritorno, un modo di intendere la vita valido anche per le generazioni future, ma il 17 ottobre 2006 George W. Bush – firmando il Military Commissions Act 2006 – espunge l‟habeas

corpus dal diritto fondamentale del popolo americano. La nuova legge con-

sente infatti a lui, presidente degli Stati Uniti, e ai tribunali militari ameri- cani di dichiarare chicchessia un „nemico combattente‟, privandolo conse- guentemente dei diritti civili159.

Le istituzioni totali

Nelle nostre società, ad alcune istituzioni cosiddette „totali‟ – quali pri- gioni e orfanotrofi – viene demandato il compito di farsi carico della ge- stione degli elementi di „disturbo sociale‟. Goffman (1961, 1968, p. 29), che le ha studiate a fondo, le definisce in questi termini: «Un‟istituzione to- tale può essere definita come il luogo di residenza e di lavoro di gruppi di persone che – tagliate fuori dalla società per un considerevole periodo di tempo – si trovano a dividere una situazione comune, trascorrendo parte della loro vita in un regime chiuso e formalmente amministrato»160.

159 In tale scelta preceduto dal parlamento australiano, che con l‟ASIO Act 2004 aveva già di fatto abolito l‟habeas corpus dal suo diritto. Mettendo per un attimo da parte il principio che dovrebbe guidare ogni ricerca che si pretende scientifica – il principio dell‟avalutatività – verrebbe polemicamente da chiedere: “Presidente, ma è proprio sicuro che le sia concesso cancellare – sia pure in virtù del suo legittimo ruolo di comando – otto secoli di Storia?”. Come vedremo, a questa domanda il presidente Bush ha avuto il „coraggio‟ di rispondere affermativamente. Con riferimento alle stesse vicende internazionali, Bevilacqua (2008, p. 159) ha posto la medesima retorica domanda: «Il fatto che [il premier britannico Tony Blair] fosse capo di un esecutivo democraticamente eletto diminuisce le responsabilità morali e politiche delle uccisioni inflitte? L‟investitura democratica assolve dai delitti?».

160 In realtà il concetto di „istituzione totale‟ ricomprende in sé una tipologia più ampia di istituzioni – quali navi, caserme, manicomi – e pertanto la definizione proposta da Goffman

Per via della loro funzione sociale e/o della loro natura organizzativa, all‟interno delle suddette istituzioni la libertà di coloro che vi sono costretti è sempre soggetta a restrizione. All‟atto dell‟ammissione, in particolare, l‟istituzione provvede ad una sistematica ridefinizione del sé del soggetto ivi recluso, azione che può spingersi fino ad una vera e propria demolizione del suo self. In questo caso, umiliazione e profanazione del suo corpo pos- sono assurgere a norma comportamentale da parte dello staff dirigente (ibi-

dem, p. 44 e p. 52). Il punto da sottolineare è esattamente questo: al di là

dei limiti connaturati all‟istituzione, agli internati ivi residenti vengono tal- volta imposte gratuite e ingiustificate vessazioni. A voler essere ancora più espliciti: agli internati viene spesso imposto un sovrappiù di pena, costitu- ente un aggravio non contemplato da nessun regolamento; e in quanto tale, illegittimo e debitamente occultato ad occhi indiscreti.

È sempre molto difficile – e spesso quasi impossibile – accendere un fa- ro illuminante all‟interno di queste istituzioni per osservare quanto vi suc- cede giornalmente. Per definizione, le istituzioni totali sono mondi a sé stante, chiusi agli out-group. Lo staff, detentore del potere, ha la possibilità di dettarne le vere „regole del gioco‟, e scarsissime probabilità di doverne rendere conto a quella medesima collettività per conto della quale si adope- ra ad amministrarne il luogo161. Così stando le cose, l‟istituzione totale può trasformarsi paradossalmente in un ambiente dove la devianza – lungi dall‟essere gestita – viene piuttosto esasperata o, addirittura, creata ex no-

vo162.

è tale da non riferirsi esclusivamente a quelle da me indicate nel testo. Che poi, sia detto per inciso, sono quelle che mi interessa prendere in considerazione in questo lavoro.

161 In ambito carcerario Ricci e Salierno (1971) ne documentano la portata tanto in una ac- cezione accademica – per i vincoli frapposti alla conduzione della ricerca scientifica (p. 25 e seguenti) – quanto in una accezione più eminentemente sociale. Dal tema di un detenuto- studente: «Le prigioni di stato sono dei baluardi inespugnabili e, soprattutto, invalicabili dai comuni mortali, non iniziati. Oltre che dalle sbarre, le carceri sono chiuse dalla ferma volon- tà di chi ha interesse che non si sappia in che modo sono costretti a vivere i „marziani‟ ivi rinchiusi» (p. 225).

162 La questione qui dibattuta problematizza la chiave di lettura struttural-funzionalista rela- tiva alle istituzioni presenti sul territorio. Secondo questa prospettiva di indagine, ogni isti- tuzione esistente deve essere considerata in rapporto al suo contributo funzionale ai requisiti generali del sistema sociale di cui fa parte (Parsons, 1951, 1965). Ma come ha messo bene in evidenza Goffman nel lavoro qui sopra richiamato, le istituzioni totali possono essere esse stesse, se non causa, quantomeno motivo di perpetuazione e aggravamento della devianza

Il leitmotiv del capitolo sarà proprio questo: istituzioni che dovrebbero godere di una indiscussa fiducia in seno alla collettività si scoprono invece, esse stesse, profondamente devianti. Al loro interno il potere si è trasforma- to (anche) in arbitrio, in sottomissione fisica e morale dei soggetti reclusi, palesando – quando è possibile squarciarne il velo – condizioni di vita in- compatibili con il rispetto dei diritti umani. Data la gravità e l‟estensione del fenomeno, ciò non può che inquietare. Conseguentemente, il punto di domanda che percorre tutto il capitolo è in fondo uno soltanto, e precisa- mente il seguente: ma il corpo – in Occidente, alle soglie del terzo millen- nio, all‟interno delle sue istituzioni totali – è davvero inviolabile e inviola- to?

2. Guantanamo

La baia di Guantanamo è una insenatura situata nella punta sud-est dell‟isola di Cuba, a venti chilometri a sud dall‟omonima cittadina. Fino al 2002 un posto da sogno. Da allora, da quando l‟esercito americano vi istituì un centro di detenzione per „combattenti illegali nemici‟, anche luogo di espiazione e tortura.

„Combattenti illegali nemici‟ è un neologismo che va ad arricchire il linguaggio politically correct dedicato alle guerre d‟oggi. O, per meglio di- re, un neologismo che legittima azioni altrimenti illegittime. Quando si è in guerra, tra le fila del nemico non ci sono altro che „combattenti‟ e/o „civili‟: questi andrebbero risparmiati a prescindere da tutto, quando i primi – se catturati – andrebbero trattati come prigionieri di guerra. „Combattenti ille- gali nemici‟ è pertanto una categoria inventata ad hoc dagli americani per- ché vi si potessero inquadrare i presunti terroristi mediorientali, sì da pri- varli – a seguito del Military Commissions Act 2006 – tanto delle prerogati-

(della patologia, della deprivazione) che in origine ha legittimato la loro esistenza. Insomma, detto schiettamente, le istituzioni totali – come e più ancora delle istituzioni tout court – possono perdere di vista il fine per le quali sono state fondate, rendendosi (almeno da un punto di vista etico, rispettoso del diritto dei soggetti ivi reclusi) „disfunzionali‟. Sul punto, v. Basaglia e Basaglia, 1968, pp. 12-13. Per una ulteriore critica al funzionalismo „ingenuo‟ (incentrata in prevalenza sul ruolo dell‟attore sociale), v. Boudon (1979, 1980, pp. 77-78).

ve degli uni, quanto della tutela concessa agli altri dalla Convenzione di Gi-

nevra.

I cento anni di storia di Guantanamo

Dopo la guerra ispano-americana, nel 1903 gli Stati Uniti siglano un contratto d‟affitto con il governo cubano – poi perfezionato nel 1934 – che riconosce loro la completa giurisdizione sull‟area di Guantanamo. Nel 2002, all‟interno della base gli americani aprono un campo di prigionia per detenuti sottoposti a trattamenti non conformi alla suddetta Convenzione. Nel 2006, forse anche in seguito alle proteste dell‟opinione pubblica mon- diale, la Corte Suprema degli Stati Uniti d‟America stabilisce che la Con-

venzione di Ginevra va applicata anche a Guantanamo. Ma sarà solo nel

gennaio del 2009 che Barack Obama, appena insediatosi alla presidenza, firmerà gli ordini esecutivi per chiudere la prigione nell‟arco di un anno163.

Le torture

A Guantanamo i prigionieri hanno subito torture psicologiche, prolunga- ti periodi di isolamento, pestaggi. A Guantanamo sono stati sottoposti a supplizi quali la privazione del sonno, la sedia della tortura, le sonde nelle narici, l‟imposizione di cappucci, la costrizione per giorni e giorni in scato- le di legno così piccole da far esplodere dolori lancinanti alle giunture. A Guantanamo…

A Guantanamo i prigionieri sono stati bombardati con brani a tutto vo- lume, ventiquattrore su ventiquattro, con l‟intento di privarli del sonno e „farli confessare‟. Di certo, alcuni sono impazziti. Racconta uno di loro: “E- ro bombardato con Slim Shady, di Eminem. Lo hanno suonato per venti giorni di seguito. Molti miei compagni di detenzione hanno perso la testa. Sentivo i vicini di cella sbatterla contro il muro, urlare come i pazzi, per non ascoltarla più”. L‟Onu e la Corte europea dei Diritti dell‟Uomo hanno

163 Le cose non andranno esattamente in questa direzione, perché la chiusura di Guantanamo verrà rinviata sine die. Ma questa è un‟altra storia, che è possibile ricostruire facendo riferi- mento agli articoli riportati a fine capitolo. La storia di Guantanamo – quella effettiva – par- la di quasi ottocento prigionieri detenuti in otto anni (2002-2010) e quattro sole condanne. Quella di Al Qosi – la quarta, nell‟estate del 2010 – sarà la prima di un detenuto di Guanta- namo sotto l‟Amministrazione Obama (per i particolari v. la pagina web http://tg24.sky.it/ tg24/mondo/2010/08/12/condannato_cuoco_bin_laden.html).

messo al bando questa „tecnica di interrogatorio‟, ma la Cia e altri corpi speciali americani l‟hanno utilizzata sempre più spesso, perché ha un van- taggio su altre forme di supplizio: non lascia tracce sul corpo164.

Dopo cinque anni trascorsi nel carcere militare di Guantanamo, Iqbal è tornato a casa con difficoltà di deambulazione, una grave infezione all‟orecchio sinistro e i segni della dipendenza da un cocktail di antibiotici e antidepressivi. I suoi problemi sono dovuti al gantlet, una forma di tortura cui è stato sottoposto e nella quale il prigioniero è costretto a correre tra due file di persone armate di mazze o fruste. Per questo, e per altri abusi subiti, il suo legale ha in mente di citare in giudizio il governo degli Stati Uniti.

Già: a Guantanamo tutto è stato lecito, anche la tecnica di „fare diventa- re blu‟ i detenuti sottoposti ad interrogatorio, tenendoli a bagno nell‟acqua ghiacciata per ore – tortura già denunciata al processo di Norimberga come crimine di guerra. Tutto lecito a Guantanamo, anche il waterboarding, l‟annegamento simulato: un supplizio in voga da secoli fra gli inquisitori della Gestapo e del Kgb. Abu Zubayda, un sospetto terrorista internato a Guantanamo, vi è stato sottoposto almeno ottanta volte in cinque giorni, nella speranza di strappargli delle informazioni; e nell‟illusione di proteg- gere, così facendo, l‟America165.

164 Al cospetto di alcuni rappresentanti della nuova Amministrazione Obama, l‟ex direttore della Cia Michael Hayden ha così interloquito: “Mi volete dire che di fronte a nessun tipo di minaccia voi decidete di non usare la privazione del sonno con un detenuto?” (e il suo stupo- re, cambiato di segno, potrebbe ben essere quello di chi ritiene la tortura inconciliabile con lo stato di diritto).

165 Dalla base militare della Quinta brigata combattente Stryker, in Afghanistan, emergono altre storie di efferatezza e follia. Lo chiamavano il Kill team, il plotone della morte: soldati americani fatti di alcol, droga e noia che uccidevano gli afgani per il solo piacere di farlo. Assassini per gioco. Fingevano un attacco, quindi colpivano a freddo. Era di gennaio, a Kandahar. Mudin avanzava verso i soldati. Uno di questi lancia una granata, gli altri „reagi- scono‟ uccidendo l‟afgano. Un mese dopo tocca a un altro civile, Marach Agha, poi sarà la volta di un religioso. I vertici militari dell‟Esercito, a quanto emerge, ne erano a conoscenza. Ma anche le Forze Armate britanniche sono nell‟occhio del ciclone. Minacciare, denudare e umiliare i prigionieri di guerra erano le regole enunciate nei loro manuali, quegli stessi che consigliavano di condurre gli interrogatori in luoghi non confortevoli, lontani da chiunque e, soprattutto, lontani dai media. Bendare i prigionieri, tappargli le orecchie, legargli le mani dietro la schiena, impedirgli di dormire per più di quattro ore consecutive: queste le altre raccomandazioni.

Considerazioni

Se non fosse tragico, il carcere di Guantanamo sarebbe surreale. Surrea- le: come nel Processo di Kafka, dove il protagonista – in perenne attesa di giudizio, accusato non si sa bene di che cosa – rimane sospeso in un limbo. Senza scomodare la letteratura, possiamo nuovamente prendere a riferimen- to la norma dell‟habeas corpus, quella norma che sancisce il diritto a un giusto processo e che all‟interno di questo moderno lager è stata plateal- mente calpestata. L‟habeas corpus, in qualunque stato si dica democratico, è il diritto che spetta ad ognuno di contestare la legalità del suo arresto da- vanti a un giudice, ivi compreso il diritto di conoscere le accuse per le quali si è detenuti. Per questo, da isola di sogno Guantanamo si è trasformato in posto da incubo.

Tornando alla letteratura – ma a quella di stampo sociologico – la pri- gione di Guantanamo è stata l‟istituzione totale di cui parla Goffman: un luogo di profanazione del sé. Quelle tute arancioni tutte uguali, quelle mani legate ai polsi dietro la schiena raccontano, per immagini, una pagina d‟infamia che l‟Occidente avrebbe fatto bene a non scrivere. Quale superio- rità morale può pretendere chi tratta i detenuti come esseri subumani, inde- gni delle garanzie processuali cui invece ha diritto, in potenza, ogni uomo? Nessuna, come ben sa il cronista che si è trovato costretto ad annotare quanto segue:

Nel 2004, nella capitale del Sudan, al termine di un‟ispezione ap- profondita di una prigione segreta gestita dall‟intelligence militare, il colonnello sudanese che mi accompagnava – vedendomi sconvolto dalle cose terribili che vedevo – mi chiese con un sorriso ironico: “Ma ha visitato Abu Ghraib e Guantanamo?”.

Sia pure in nome della sua sicurezza interna, uno stato fondato sul dirit- to è legittimato ad usare la tortura? La Convenzione di Ginevra (1949) e la

Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell‟uomo e delle li- bertà fondamentali (1950, articoli 3 e 15) lo escludono categoricamente,

così come lo hanno escluso illustri pensatori166. Evidentemente, però, a tutt‟oggi – alle soglie del terzo millennio – qualcuno non è d‟accordo. E poiché questo qualcuno in un modo o nell‟altro ci rappresenta, con questa sua determinazione ci umilia. L‟Onu, l‟Unione europea, l‟Organizzazione

degli Stati americani (Oas), la Croce Rossa internazionale hanno ripetuta- mente denunciato l‟insulto al diritto internazionale perpetrato nella base mi- litare americana di Guantanamo e nel carcere di Abu Ghraib, in Iraq. Questi campi sono stati, al di là di ogni ragionevole dubbio, uno schiaffo dato in faccia all‟umanità. Eppure Bush, anche da ex presidente, è stato capace di difendere quella scelta. Nel suo libro di memorie, infatti, sul punto in que- stione non ha esitato ad affermare: “La Cia mi chiese se poteva andare a- vanti e io dissi alla Cia che andare avanti era la scelta dannatamente giu- sta”167.