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Sul nocciolo duro dei diritti uman

3. Le carceri italiane

Nel diciottesimo secolo – con un eloquio che oggi appare un po‟ datato, ma non per questo meno efficace e stringente – Cesare Beccaria (1764, 2010, corsivi dell‟autore) condanna senza mezzi termini la pratica della tor- tura. Non risulterà peregrino citare qui ampi stralci dell‟opera:

Un uomo non può chiamarsi reo prima della sentenza del giudice, né la società può toglierli la pubblica protezione, se non quando sia deciso ch‟egli abbia violati i patti coi quali le fu accordata. Quale è dunque quel diritto, se non quello della forza, che dia la podestà ad un giudice di dare una pena ad un cittadino, mentre si dubita se sia reo o innocente? Non è nuovo questo dilemma: o il delitto è certo o incerto; se certo, non gli conviene altra pena che la stabilita dalle leggi, ed inutili sono i tormenti, perché inutile è la confessione del reo; se è incerto, e‟ non devesi tormentare un innocente, perché tale è secondo le leggi un uomo i di cui delitti non sono provati. Ma io ag- giungo di più, ch‟egli è un voler confondere tutt‟i rapporti l‟esigere che un uomo sia nello stesso tempo accusatore e accusato, che il do- lore divenga il crociuolo della verità, quasi che il criterio di essa ri- sieda nei muscoli e nelle fibre di un miserabile. Questo è il mezzo si- curo di assolvere i robusti scellerati e di condannare i deboli inno- centi (pp. 60-61).

Altro ridicolo motivo della tortura è la purgazione dell‟infamia, cioè un uomo giudicato infame dalle leggi deve confermare la sua

167 Il passo, ripreso da un articolo di giornale e per questo privo del puntuale riferimento alla pagina, è tratto da: Bush G. (2010), Decision Points, Crown Publishing Group, New York.

deposizione collo slogamento delle sue ossa. Quest‟abuso non do- vrebbe esser tollerato nel decimottavo secolo (p. 61).

Ogni atto della nostra volontà è sempre proporzionato alla forza della impressione sensibile, che ne è la sorgente; e la sensibilità di ogni uomo è limitata. Dunque l‟impressione del dolore può crescere a segno che, occupandola tutta, non lasci alcuna libertà al torturato che di scegliere la strada più corta per il momento presente, onde sot- trarsi di pena. Allora la risposta del reo è così necessaria come le im- pressioni del fuoco o dell‟acqua. Allora l‟innocente sensibile si chiamerà reo, quando egli creda con ciò di far cessare il tormento (p. 63)168.

Queste verità sono state conosciute dai romani legislatori, presso i quali non trovasi usata alcuna tortura che su i soli schiavi, ai quali era tolta ogni personalità […]. La tortura è stata abolita nella Svezia, abolita da uno de‟ più saggi monarchi dell‟Europa [Federico II di Prussia], che avendo portato la filosofia sul trono, legislatore amico de‟ suoi sudditi, gli ha resi uguali e liberi nella dipendenza delle leg- gi, che è la sola uguaglianza e libertà che possono gli uomini ragio- nevoli esigere nelle presenti combinazioni di cose. La tortura non è creduta necessaria dalle leggi degli eserciti composti per la maggior parte della feccia delle nazioni, che sembrerebbono perciò doversene più d‟ogni altro ceto servire. Strana cosa, per chi non considera quanto sia grande la tirannia dell‟uso, che le pacifiche leggi debbano apprendere dagli animi induriti alle stragi ed al sangue il più umano metodo di giudicare. Questa verità è finalmente sentita, benché con- fusamente, da quei medesimi che se ne allontanano. Non vale la con- fessione fatta durante la tortura se non è confermata con giuramento dopo cessato quella, ma se il reo non conferma il delitto è di nuovo torturato. Alcuni dottori ed alcune nazioni non permettono questa in- fame petizione di principio che per tre volte; altre nazioni ed altri dottori la lasciano ad arbitrio del giudice: talché di due uomini u-

168 A sostegno dell‟inattendibilità della confessione estorta con la tortura, ha osservato Ba- gnasco (et al., 2009, pp. 227-228): «A partire dalla metà del Cinquecento, in tutta Europa, migliaia di donne furono arrestate e processate con l‟accusa di stregoneria, di magia, di su- perstizione. Le colpe loro attribuite erano di provocare la malattia e la morte di molte perso- ne, di impedire alle mucche di fare il latte, di scatenare furibonde tempeste. Convinti che i supplizi fossero il modo più sicuro per arrivare alla verità, i giudici sottoponevano le impu- tate a torture così dure che riuscivano a far confessare loro tutto quello che volevano: di an- dare, volando a cavallo di una scopa, in luoghi segreti in cui si riunivano con altre streghe per celebrare feste magiche ed orgiastiche in onore del diavolo; di esercitare in molti modi i loro poteri occulti contro gli altri: con il contatto fisico o seppellendo un indumento della vittima o trafiggendo con aghi una sua immagine».

gualmente rei, il robusto ed il coraggioso sarà assoluto, il fiacco ed il timido condannato in vigore di questo esatto raziocinio: Io giudice dovea trovarvi rei di un tal delitto; tu vigoroso hai saputo resistere al dolore, e però ti assolvo; tu debole vi hai ceduto, e però ti con- danno. Sento che la confessione strappatavi fra i tormenti non a- vrebbe alcuna forza, ma io vi tormenterò di nuovo se non conferme- rete ciò che avete confessato. Una strana conseguenza che necessa- riamente deriva dall‟uso della tortura è che l‟innocente è posto in peggiore condizione che il reo; perché, se ambidue sieno applicati al tormento, il primo ha tutte le combinazioni contrarie perché o con- fessa il delitto, ed è condannato, o è dichiarato innocente, ed ha sof- ferto una pena indebita; ma il reo ha un caso favorevole per sé, cioè quando, resistendo alla tortura con fermezza, deve essere assoluto come innocente; ha cambiato una pena maggiore in una minore (pp. 64-65).

Dassi la tortura per discuoprire se il reo è di altri delitti fuori di quelli di cui è accusato, il che equivale a questo raziocinio: Tu sei reo di un delitto, dunque è possibile che lo sii di cent‟altri delitti, questo dubbio mi pesa, voglio accertarmene col mio criterio di veri- tà; le leggi ti tormentano, perché sei reo, perché puoi esser reo, per- ché voglio che tu sii reo (pp. 65-66)169.

Forti di questa lezione di civiltà, varchiamo le porte delle carceri italia- ne: ma solo per trovarci, ahimè, di fronte a casi di abuso che sconcertano.

Stefano Cucchi

Quando viene arrestato dai carabinieri per il possesso di venti grammi di droga, Stefano Cucchi ha trentuno anni. Entrato in carcere la notte del 15 ottobre 2009, ne uscirà una settimana dopo, il 22: morto. Seguo il suo caso sui giornali nell‟arco di svariati mesi, ma qui ne do conto attraverso la luci- da e commovente storia di vita narrata da Ilaria, sua sorella. Una storia di vita senza dubbio più ordinata e ricca di particolari privati su Stefano, ma che in fondo nulla aggiunge al turbamento per quanto già appreso dal foglio di giornale. Racconta Ilaria (Cucchi e Bianconi, 2010):

169 Con le parole di Goffman (1961, 1968, p. 112): «Lo staff sa che l‟internamento di un in- dividuo è, prima facie, l‟evidenza del suo essere il tipo di persona per il cui trattamento l‟istituzione è stata creata. Il prigioniero politico deve essere un traditore; il detenuto comu- ne deve aver infranto la legge; il ricoverato in un ospedale psichiatrico deve essere malato. Se non è un traditore, un criminale, un malato, per quale altra ragione si troverebbe lì?».

Stefano poteva chiedere di essere mandato agli arresti domicilia- ri, ma in quel momento mio padre era talmente arrabbiato che si sa- rebbe rifiutato di tenerlo in casa; anche per questo mio fratello era te- so e preoccupato. Papà l‟aveva capito, così come aveva notato un al- tro particolare, che ci ha riferito appena mia madre ha chiesto come l‟avesse trovato. “Aveva il viso gonfio” ha risposto. “Che vuol dire gonfio?”. “Vuol dire che aveva dei segni neri sotto gli occhi, che gli ingrossavano il viso. Lo sai quanto è magro, no? Si vede subito, era- no dei segni abbastanza netti”. La sera prima non ce li aveva, papà e mamma ricordavano che stava bene, sul suo volto non c‟era nulla di particolare. Io a loro non l‟ho detto, ma dopo la descrizione fatta da mio padre ho pensato subito che durante la notte fosse stato picchia- to: si sente dire spesso che quando uno viene arrestato ci può anche scappare una piccola razione di botte, soprattutto se ha qualche rea- zione scomposta. E io non potevo escludere, conoscendo il suo carat- tere, che mio fratello avesse provocato qualcuno: quelli che l‟avevano portato in cella, oppure un altro che stava rinchiuso con lui. Tutto era possibile, ma tutto – ancora – sembrava meno grave del fatto che Stefano fosse tornato a fare uso di droga (pp. 34-35).

Che Stefano volesse il nostro avvocato lo dimostra il rammarico manifestato in tribunale, davanti agli occhi di mio padre. E che la se- ra precedente i carabinieri si fossero mossi con qualche trascuratezza s‟intuisce anche da altri dettagli. Sullo stesso verbale in cui hanno sostenuto che “il prevenuto, interpellato, dichiara di non voler nomi- nare un difensore di fiducia” hanno scritto che l‟arrestato era “Cuc- chi Stefano, nato in Albania il 24 ottobre 1975, in Italia senza fissa dimora, identificato a mezzo rilievi fotosegnaletici e accertamenti dattiloscopici”. Solo il cognome e il nome risultano esatti. Per il re- sto, a mio fratello avevano cambiato nazionalità e data di nascita, nonostante avesse in tasca ben due documenti, patente e carta d‟identità, dai quali si era subito scoperto chi fosse e dove fosse resi- dente, tanto che erano andati a perquisire la casa dei nostri genitori. Davanti a loro l‟avevano portato via in manette, ma nell‟ultima riga dello stesso verbale si legge che “il pervenuto, interpellato, dichiara di non dare notizia del suo avvenuto arresto ai propri familiari”. Per- ché tanta sciatteria e negligenza? Evidentemente per redigere il provvedimento sono stati utilizzati i dati di qualche altro arrestato, solo parzialmente modificati. Stefano non può più dircelo, però è possibile che pure il rifiuto del legale di fiducia e la conseguente nomina di quello d‟ufficio fosse da imputare all‟albanese, e non a lui (pp. 36-37).

L‟ispettore capo che si è occupato della traduzione dal tribunale al carcere ha detto che insieme a Stefano c‟era anche un extracomu-

nitario di colore, un nordafricano, ma che a rimanergli impresso era stato mio fratello: “Per lui pretesi il certificato medico poiché risul- tava evidentemente pesto in faccia, e inoltre aveva difficoltà a cam- minare. Infatti camminava piegato da una parte e, rappresentandomi la sua difficoltà, chiese di non essere ammanettato. Presentava dei segni intorno agli occhi e sulla parte destra della mandibola. In questi punti la pelle appariva di un altro colore che non saprei definire. Ho chiesto ai colleghi e loro mi hanno riferito che era già stato refertato, e mi hanno consegnato il certificato medico”. […] Ricevuto il referto medico, l‟ispettore capo ha proseguito il suo lavoro di trasporto dei detenuti: “Ho avuto modo di parlare direttamente con il Cucchi; in- fatti sulla rampa che conduce dalle camere di sicurezza al piazzale esterno dove staziona il pullman, avendo notato che era malconcio, ho ritenuto di chiedergli che cosa fosse accaduto. Mi ha risposto che era caduto dalle scale mentre scappava dai carabinieri. Ribattei che le scale dovevano essere state molte per essersi ridotto in quelle con- dizioni e lui in quel momento non rispose (pp. 47-48).

Anche al medico di Regina Coeli ha detto che era caduto dalle scale, senza spiegare quali. In seguito ho saputo che è la scusa che accampano quasi sempre i detenuti malconci, per evitare di dover accusare qualcuno e rischiare di passare altri guai170. Fatto sta che il medico, nel suo linguaggio specialistico e un po‟ complicato, ha rile- vato “ecchimosi sacro-coccigea, tumefazione del volto bilaterale pe- riorbitaria, algie della deambulazione e arti inferiori”, aggiungendo che il paziente gli aveva riferito anche “di nausea e astenia”. Rite- nendo necessari altri controlli, l‟ha quindi spedito al Fatebenefratelli, l‟ospedale che si trova sull‟isola Tiberina. […] Sulla cartella clinica del pronto soccorso è scritto che “l‟esame radiografico mostra frattu- ra del corpo vertebrale di L3 sull‟emisoma sinistro e frattura della prima vertebra coccigea” (pp. 51-54).

Mio padre l‟aveva visto ventiquattrore prima, aveva notato i se- gni neri sotto agli occhi, ma niente di più. Stefano camminava abba- stanza bene, magari con l‟andatura un po‟ trascinata che poteva spie- garsi con le circostanze e lo stato d‟animo; adesso invece non si reg- geva in piedi, aveva una o più fratture e addirittura preferivano non

170 Dall‟intervista a un agente del carcere giudiziario di Palermo (cit. in Ricci e Salierno, 1971, pp. 121-122): «[I detenuti] passavano uno dietro l‟altro tra le mani di cinque, sei, sette agenti… e gridavano che non ce la facevano più. […] Parecchi sono venuti in infermeria un po‟ fratturati… però le dico che i detenuti hanno dichiarato tutti al giudice di sorveglianza di essere caduti per le scale… […] È stato un giorno che, veramente chi [tra gli agenti] voleva togliersi una soddisfazione se la toglieva… Chi ha dichiarato di essere stato picchiato, è sta- to magari denunciato per calunnia…».

farlo alzare per non peggiorare la situazione. Perché? Che cosa era cambiato in meno di un giorno e una notte? […] Alle 11,50 Stefano è stato visto da un altro medico della prigione, che ha deciso un nuovo trasferimento in ospedale (pp. 78-81).

Di lui non avevamo notizie da tre giorni. Sapevamo solo che era ricoverato al Sandro Pertini, padiglione per detenuti, per ragioni a noi sconosciute. Attraverso un citofono ai miei genitori era stato det- to di tornare lunedì, tra le 12 e le 14. E lunedì 19 ottobre, alle 12.30, mio padre e mia madre hanno suonato nuovamente allo stesso cito- fono. Stavolta li hanno fatti entrare. Il piantone li ha identificati at- traverso i documenti, e dopo qualche minuto di attesa è arrivato un sovrintendente della Polizia penitenziaria: “Desiderano?”. “Buon- giorno”, ha detto mio padre, “vorremmo sapere qualcosa dai medici sulle condizioni di nostro figlio. Ci hanno avvisato che è stato porta- to qui, ma non sappiamo il motivo”. “Mi dispiace, non si può” ha ri- sposo il sovrintendente. “Come sarebbe a dire, perché non si può?”. “Perché ci vuole l‟autorizzazione dal carcere di Regina Coeli, e visto l‟orario non credo che per oggi arriverà. Vi conviene tornare doma- ni”. “Ma sabato sera ci hanno detto che oggi avremmo potuto…”. Invece no, non potevano parlare con i dottori. Papà ha provato a insi- stere ma non c‟è stato niente da fare. “Diteci almeno come sta mio figlio” si è inserita mia madre. Una signora della Polizia penitenzia- ria che stava ascoltando ha risposto: “È tranquillo”. […] L‟indomani, martedì 20 ottobre, i miei genitori sono tornati al Pertini. L‟autorizzazione doveva essere certamente arrivata e finalmente a- vrebbero parlato con chi aveva in cura Stefano. A differenza del giorno precedente, non li hanno nemmeno fatti entrare. Attraverso il solito citofono una voce ha spiegato che anche per ricevere informa- zioni sullo stato di salute era necessario avere il permesso di collo- quio con il detenuto, firmato dal giudice. “Ma ieri non ci hanno detto questo! Il sovrintendente ci ha assicurato che avremmo potuto parla- re con i medici” si è irritato mio padre. “Quello che vi hanno detto ieri non conta, oggi ci sono io e si deve fare così” è stata la risposta (pp. 115-118).

Se questo è il muro di gomma contro il quale il cittadino si deve scontra- re per far valere i suoi diritti (e quelli del congiunto tratto in stato di deten- zione), allora anche il sistema carcerario italiano sembra essere degno del più assurdo universo kafkiano. Un sistema sfuggente, che non dà alcuna certezza di diritto, che cambia la „regola‟ in corso d‟opera, lasciando il malcapitato di turno alla mercé dell‟arbitrio. All‟ospedale militare Sandro Pertini di Roma sembra davvero essersi ricreata quell‟atmosfera torbida del

Processo di Kafka (1925, 1989, pp. 102-103), dove l‟azione che segue non

la si può mai prevedere a partire da quella che precede, perché con quella incongruente. Ma torniamo a Ilaria Cucchi:

Siamo risaliti in macchina e abbiamo preso la via dell‟obitorio, di fronte al grande cimitero del Verano. […] Mi sono infilata nel corti- le, ho chiesto informazioni ma ho ottenuto soltanto la solita indica- zione, che cominciava a stancarmi “Dovete aspettare”. Finalmente si è presentato il medico di turno. “Vorrei vedere mio fratello, Stefano Cucchi” gli ho detto. “Non è possibile”. La stessa risposta di quando era vivo, anche adesso che era morto. Ma che cosa dovevano na- scondere? Che volevano impedirci di vedere? Stavolta però un divie- to non poteva bastare. Ho ripetuto la richiesta, hanno ribattuto che serviva l‟autorizzazione del pubblico ministero. “Chiamatelo, noi da qui non ce ne andiamo” ho preteso. Hanno telefonato in Procura e il permesso è stato accordato: “Potete entrare nella stanza in cui si tro- va la salma, ma solo per qualche minuto. E non da soli”. […] Papà e mamma si sono precipitati dentro, io sono rimasta fuori. È passato qualche istante prima che udissi ciò che non dimenticherò mai più, e che ancora mi rimbomba nella testa: le urla strazianti dei miei geni- tori, i loro lamenti spaventosi e disperati davanti a una visione che nessuno di noi poteva immaginare. Gridavano frasi difficilmente comprensibili, sentivo mio padre ripetere: “Oddio, Oddio!” e mia madre che tra i singhiozzi chiedeva a ripetizione: “Che cosa gli han- no fatto?”. […] Stefano era disteso su una barella, protetto da una te- ca di vetro, ma se non avessi saputo che era lui difficilmente l‟avrei riconosciuto. Uno spettacolo tremendo. Aveva il volto scuro, quasi nero come se fosse bruciato, e incavato fino alle ossa. Poco più di un teschio. Il resto del corpo era coperto da un lenzuolo. Non so come sono riuscita a rimanere in piedi. […] Aveva una macchia sotto lo zigomo destro, mai vista prima; la mandibola storta, un bozzo enor- me sotto il sopracciglio sinistro; e poi gli occhi, il sinistro sembrava uscito dall‟orbita, il destro pesto e incassato verso l‟interno. […] L‟ultima effigie che avrei avuto di lui era il volto sfigurato che ricor- dava i cadaveri dei deportati nei campi di concentramento nazisti (pp. 163-166).

Ci avevano assicurato che Stefano era tranquillo, ma come pote- va mentre si stava riducendo in quello stato? Com‟è possibile che una persona ricoverata in ospedale arrivi a trasformarsi in quel mo- do, senza che nessuno si allarmi? Perché non sono stati avvisati i fa- miliari, invece di lasciarli dietro una porta senza notizie? E perché nessuno era intervenuto per impedire che si giungesse a quel punto? Oggi posso affermare con certezza che se non ci fossimo rivolti

all‟avvocato Fabio Anselmo la verità non sarebbe mai venuta a galla, la mia famiglia sarebbe stata travolta da qualcosa di molto più gran- de di noi, la fine di mio fratello sarebbe rimasta „morte naturale‟ e non avremmo potuto far altro che accettare questa bugia. […] Perché per molti quella di mio fratello era semplicemente la morte di un tos- sico, che in qualche modo se l‟era cercata, e c‟era la possibilità che sarebbe rimasta tale. Dopo il primo contatto, alla seconda telefonata l‟avvocato mi ha fornito le prime indicazioni; soprattutto una, la più importante in quei frangenti: “Fate fare fotografie durante l‟autopsia: dobbiamo poter provare tutto, non perdere nessuna possibilità di di- mostrare quello che è successo” (pp. 167-174).

Ora che il corpo di Stefano era finalmente a nostra disposizione, dovevamo fare quello che c‟era stato impedito nel corso