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Riferimenti bibliografic

3. Norme, diritti, diritti uman

È stato però osservato che la parola diritto non è in antitesi con la parola

forza, la prima essendo «piuttosto una modificazione della seconda, cioè la

modificazione più utile al maggior numero» (Beccaria, 1764, 2010, p. 29). Hannah Arendt, in proposito, ha fatto notare che il potere è inerente a ogni comunità politica; ma uno stato di diritto, se vuol dirsi tale, deve a un tem- po renderlo legittimo e limitarlo84.

84 Per Rivière (1995, 1998, p. 113): «Il politico supera di molto la nozione di stato, poiché lo si definisce come l‟aspetto dell‟organizzazione complessiva che riguarda il controllo e la regolazione dell‟impiego della forza fisica». Sul potere come «elemento universale delle

Con la nascita del diritto, fondato sulla norma, il potere diventa legitti-

mo. Osserva Bagnasco (et al., 2009, p. 76): «Il concetto di legittimità è un

concetto importante, basti notare che non tutte le forme di potere sono legit- time. Vi è potere in ogni situazione nella quale vi è qualcuno che comanda e qualcuno che ubbidisce. Si può comandare con la forza e la coercizione e si può obbedire per paura, perché si teme di subire la violenza di chi detiene il potere. In questo caso il potere non è legittimo. Lo diventa quando chi ubbidisce lo fa perché ritiene che chi comanda abbia il titolo per farlo»85.

Ora, norme e diritto sono strumenti del vivere associato che per mia formazione professionale non posso pretendere di esaminare nell‟ottica probabilmente più pertinente: quella del giurista. Ma qui voglio soffermar- mi principalmente non tanto sulla dicotomia norma-diritto, quanto sulla di- cotomia diritto-diritti umani.

La norma è la soluzione giuridica atta a regolare un problema sociale, una evenienza che la collettività ritiene meritevole di essere disciplinata. La norma è di volta in volta la regola che la collettività si dà per disciplinare il vivere associato, e come tale – se violata – impone una sanzione certa86.

società umane»; sul suo essere intrinseco ad ogni rapporto sociale; sul suo carattere limitante della libertà e sulla necessità di una sua legittimazione, v. Popitz, (1992, 2009, cap. I). 85 Il concetto di potere è da sempre al centro dell‟interesse della disciplina sociologica, e sebbene non vi sia pieno accordo tra gli studiosi, l‟analisi più accreditata resta quella di Max Weber (1922). Secondo tale analisi, se con il termine Potenza si indica «qualsiasi possibilità di far valere entro una relazione sociale, anche di fronte ad un‟opposizione, la propria volon- tà, quale che sia la base di questa possibilità», con Potere legittimo (o Autorità) è da inten- dersi «la possibilità di trovare obbedienza, presso certe persone, ad un comando che abbia un determinato contenuto». La prima espressione farebbe quindi riferimento ad una relazio- ne dove il soggetto più forte fa valere la propria volontà in ogni caso, quando invece la se- conda sarebbe pertinente a tutte quelle interazioni dove il soggetto più debole accetta le de- cisioni altrui in quanto riconosciute valide e legittime. Da qui, le tre forme di legittimazione del potere: tradizionale, carismatico, razionale-legale.

86 Sull‟importanza della certezza della pena, così Cesare Beccaria (1764, 2010, p. 88): «Uno dei più gran freni dei delitti non è la crudeltà delle pene, ma l‟infallibilità di esse, e per con- seguenza la vigilanza dei magistrati, e quella severità di un giudice inesorabile che, per esse- re un‟utile virtù, dev‟essere accompagnata da una dolce legislazione». Il commento è di Bobbio (1981, 1997, p. 180): «Mitezza delle pene. Non è necessario che le pene siano cru- deli per essere deterrenti. È sufficiente che siano certe». L‟incertezza della pena susseguente alla violazione della norma, per contro, ci offre la misura dello scarto intercorrente nel con- creto tra la norma medesima e l‟effettività della sua tutela. Venendo più in particolare

Norma e diritto rimandano quindi al concetto di relativismo culturale, per- ché non è affatto detto che collettività differenti sentano l‟esigenza di rego- lare – normare, per l‟appunto – le medesime evenienze, o che vogliano far- lo allo stesso identico modo. Va da sé, non è neanche detto che la medesi- ma collettività, nel tempo, non ritenga opportuno normare evenienze prima trascurate, depennare dal suo ordinamento dettami percepiti come obsoleti, o comunque modificarli.

Con una definizione che rischia di scadere pericolosamente nella tauto- logia, si potrebbe invece affermare che i diritti umani costituiscono una si- tuazione giuridica soggettiva pertinente alla persona in quanto essere uma- no87. Se già la definizione appare incerta, ancor più incerto sembra essere il loro presupposto: «Partiamo dal presupposto che i diritti umani sono cose desiderabili, cioè fini meritevoli di essere perseguiti, e che, nonostante la

all‟oggetto di questo studio, osserva ancora Bobbio (1988, 1997, pp. 78-80): «Il campo dei diritti dell‟uomo, più precisamente delle norme che dichiarano, riconoscono, definiscono, attribuiscono diritti dell‟uomo, è certamente quello in cui maggiore è il divario tra la posi- zione della norma e la sua effettiva applicazione. […] Le carte dei diritti, sino a che riman- gono nell‟ambito del sistema internazionale da cui promanano, sono più che carte dei diritti nel senso proprio della parola, espressioni di buone intenzioni, tutt‟al più direttive generali d‟azione protese verso un futuro indeterminato e incerto, senza alcuna seria garanzia di at- tuazione oltre la buona volontà degli stati e senza altro sostegno oltre la pressione della pub- blica opinione internazionale». In altro scritto, nota ancora il filosofo torinese (1990, 1997, pp. XIX-XX): «Già la maggior parte dei diritti sociali, i cosiddetti diritti della seconda gene- razione, che fanno bella mostra di sé in tutte le dichiarazioni nazionali e internazionali, sono rimasti sulla carta. Che dire dei diritti della terza generazione e della quarta? L‟unica cosa che sinora si può dire è che sono l‟espressione di aspirazioni ideali cui dare il nome di „dirit- ti‟ serve unicamente ad attribuire loro un tipo di nobiltà. Proclamare il diritto degli individui in qualsiasi parte del mondo si trovino (i diritti dell‟uomo sono di per se stessi universali) a vivere in un ambiente non inquinato non vuol dire altro che esprimere l‟aspirazione a ottene- re una futura legislazione che imponga limiti all‟uso di sostanza inquinanti. Ma altro è pro- clamare questo diritto, altro è goderne effettivamente».

87 Diritti umani, diritti della persona o diritti fondamentali sono tutte espressioni che in que- sto scritto – così come nel senso comune, del resto – vengono utilizzati come sinonimi, in quanto indicativi della medesima categoria concettuale. Osserva Marradi (1991, pp. 9-11) a proposito del concetto di concetto (e specificamente, dei concetti non-scientifici usati nella vita quotidiana): «Il concetto è un „ritaglio‟ operato in un flusso di esperienze infinito in e- stensione e in profondità, e infinitamente mutevole. […] La difficoltà di intendersi a fondo in una conversazione deriva proprio dal diverso ritaglio concettuale che sta dietro ai termini, apparentemente coincidenti, usati dagli interlocutori».

loro desiderabilità, non sono ancora stati tutti, dappertutto, e in egual misu- ra, riconosciuti, e siamo spinti dalla convinzione che il trovarne un fonda- mento, cioè addurre motivi per giustificare la scelta che abbiamo fatta e che vorremmo fosse fatta anche dagli altri, sia un mezzo adeguato ad ottenerne un più ampio riconoscimento. […] Ma i valori ultimi, a loro volta, non si giustificano, si assumono: ciò che è ultimo, proprio perché è ultimo, non ha alcun fondamento» (Bobbio, 1964, 1997, p. 6 e seguenti).

Anche in questo caso, c‟è da dire, corsi e ricorsi storici lasciano aperto il campo al relativismo culturale, alla scelta „arbitraria‟, „non motivata‟ e „non motivabile‟ del legislatore; ma questo è un punto – critico per quanto si vuole – che proverò ad affrontare in chiusura di capitolo.

Come sopra accennato, prima di affrontare questo punto spinoso ritengo necessario soffermarmi sulla dicotomia diritto-diritti umani. Per farlo mi riferirò sinteticamente alla riflessione di Marradi, relativa alla intensione e alla estensione dei concetti. Osserva Marradi (1991, pp. 14-15, corsivi dell‟autore):

Riprendiamo il concetto espresso dalla frase A […]: “Gli elettori che decidono all‟ultimo momento il partito per cui votare”. Gli elet- tori che decidono all‟ultimo momento il partito per cui votare sono i referenti del concetto (secondo una terminologia introdotta dal logi- co tedesco Frege); globalmente intesi, costituiscono l‟estensione del concetto stesso (secondo una terminologia introdotta dal logico ed epistemologo Carnap). Per decidere se un individuo rientra o meno fra i referenti del concetto, si deve controllare se è elettore, se vota per un partito (potrebbe astenersi, votare scheda bianca o nulla), e se decide all‟ultimo momento per quale partito voterà. Questi tre requi- siti (a loro volta concetti, come abbiamo visto nella sezione prece- dente) costituiscono l‟intensione del concetto della frase A. Se intro- duciamo un quarto requisito, aggiungendo “nelle elezioni per il Se- nato” in calce alla fase A, ecco che alcuni individui cessano di essere referenti del concetto, perché per le elezioni al Senato non sono elet- tori, oppure non votano, o votano bianca o nulla, oppure ancora si decidono tempestivamente. Ogni volta che, come in questo caso, aumenta l‟intensione di un concetto, ne riduco automaticamente l‟estensione, eliminando tutti quei referenti che non possiedono il nuovo requisito richiesto. Naturalmente, posso continuare a introdur- re requisiti (“anziano”, “lombardo”, poi “milanese” al posto di “lom- bardo”) rendendo il concetto sempre più specifico. Tornando alla versione originaria della frase A, anziché aggiungere un requisito

posso toglierlo: se tolgo “all‟ultimo momento”, referenti diventano tutti quelli che votano per un partito. […] L‟esempio è servito per mostrare come estensione e intensione siano legate da un rapporto inverso, e come un concetto possa fare ginnastica lungo una scala di astrazione, salendo dallo specifico al generale, o scendendo nella di- rezione opposta.

Mutatis mutandis, siamo quindi giunti ad un punto che reputo importan-

te, a un caposaldo del nostro discorso: i diritti umani – e quanto sto per af- fermare si evince proprio a partire dalla loro etichetta verbale – altro non sarebbero (non sono) che una sottocategoria dei diritti.

I diritti umani restringono i casi del diritto tout court, e lo restringono fino al punto da costituirne il nocciolo duro. Sono diritti che non apparten- gono al cittadino, al minore, al lavoratore, al contribuente – in una parola: alla persona in quanto appartenente ad una categoria sociale, comunque la si voglia costruire e intendere; i diritti umani – né più né meno, come af- fermato sopra con quella „quasi tautologia‟ – “costituiscono una situazione giuridica soggettiva pertinente alla persona in quanto essere umano”88. Fa- cendo riferimento all‟essere umano in quanto tale, la dimensione spazio- temporale entra in un limbo, rimane sospesa sullo sfondo, fino ad annullar- si. Così, sulle intenzioni (magari ingenue) di chi usa questa locuzione ver- bale non sembrano esserci soverchi dubbi: i diritti umani sarebbero un cor- pus di norme universalmente cogenti, al di là dell‟appartenenza a singoli raggruppamenti sociali, a singoli popoli, e finanche al tempo storico. Que- sto in linea di principio.

Sappiamo però che così non è, che le differenti collettività (o i loro go- vernanti) non si trovano affatto d‟accordo su cosa debba far parte di questo nocciolo duro; e sappiamo pure che le medesime collettività, nel tempo, fanno registrare sensibilità diverse nell‟indicare cosa debba intendersi (e cosa debba quindi tutelarsi) quando ci si riferisce ai diritti cosiddetti fon-

damentali.

E qui siamo giunti ad una impasse, a quel punto critico che mi ero ri- promesso di trattare a fine capitolo. Per dirimere (almeno in via di ipotesi) la questione, suggerisco alcune considerazioni che ritengo di buon senso, quelle stesse considerazioni che hanno guidato la raccolta dei dati in questa

ricerca intorno ai diritti umani – e intorno al mondo – nel biennio 2009- 2010. In effetti, il mio intento non è stato certo quello di fermarmi alla fase della denuncia – al più provando „ad amplificare‟ la voce del giornale – ma piuttosto quello di partire da quelle violazioni per approdare a un discorso più teorico; o, se vogliamo, meno legato ai fatti contingenti.

La denuncia resta quindi un momento centrale nell‟articolazione del di- scorso, ma non certamente l‟unico; e nemmeno il più importante. E comun- que, per poter denunciare alcunché, è necessario che quel fatto si inscriva nella categoria dei diritti fondamentali violati. Quindi, in ultimo, dobbiamo avere a disposizione uno o più criteri per determinare cosa attiene (e cosa non attiene) ai diritti umani. Se ripensiamo al ruolo giocato dal relativismo culturale nell‟inclusione/esclusione delle fattispecie giuridicamente rilevan- ti, emerge chiaramente la difficoltà – per certi aspetti: l‟impossibilità – del compito. Ma nonostante tutto, a me sembra che possa ravvisarsi sempre e

comunque violazione dei diritti umani quanto meno nelle seguenti fattispe-

cie (che non ho difficoltà a definire „minimali‟, riguardando la sfera dell‟integrità della persona, non i suoi valori, cangianti per definizione nel tempo e nello spazio):

Prima fattispecie

Si ravvisa sempre e comunque violazione dei diritti umani quando ci troviamo di fronte a una modalità di risoluzione dei conflitti che non passa più per la mediazione della parola, lasciando piuttosto parlare le armi. Ov- vero, quando siamo di fronte alla guerra. Come nota Bobbio (1990, p. VII): «Diritti dell‟uomo, democrazia e pace sono tre momenti necessari dello stesso movimento storico» – affermazione che trova adeguata continuazio- ne in quanto osservato da Aleo (2003, p. 11): «La diffusione della nozione di diritti dell‟uomo equivale alla ricerca dei principi fondamentali della convivenza». La guerra si dà perché è saltata la convivenza pacifica e ci si prova ad imporre con la forza bruta; ovvero, offendendo l‟altro nel suo corpo. La guerra passa sempre per l‟offesa del corpo altrui, ma qui mi pre- me fare due precisazioni. La prima: non è questione di essere pacifisti ad oltranza; è solo che laddove si dà un conflitto armato – anche quando l‟uno avesse ottimi e nobili motivi per combattere – lì si annida sempre ben più di una possibilità che „si vada oltre‟, che si calpestino i diritti umani. Vale a dire: al di là delle ragioni della guerra, la pratica della guerra si pone sem- pre – direi, per definizione – pericolosamente in contrasto con la tutela dei

diritti umani. La Dichiarazione d‟indipendenza dei tredici Sati Uniti d‟America del 4 luglio 1776 inizia con un‟enfatica dichiarazione: “Noi ri- teniamo che sono per se stesse evidenti queste verità: che tutti gli uomini sono creati eguali; che essi sono dal Creatore dotati di certi inalienabili di- ritti, che tra questi diritti sono la Vita, la Libertà, e il perseguimento della Felicità”. Questa dichiarazione mai può accordarsi con le ragioni e le con- seguenze di una guerra, quand‟anche „giusta‟. L‟altra precisazione è che non c‟è bisogno della condizione „guerra‟ perché ci sia violazione sistema- tica del corpo dell‟altro. E qui vengo al punto sotto specificato.

Seconda fattispecie

Si ravvisa sempre e comunque violazione dei diritti umani quando le fi- nalità perseguite nel quotidiano all‟interno di istituzioni rappresentative dello stato (o della collettività) sono opposte a quelle sbandierate in linea di principio. Solo per fare un esempio che troverà ampio spazio nelle pagine a seguire: se la Chiesa cattolica si propone in linea di principio di dare soste- gno all‟infanzia deprivata, ma poi si scopre investita in modo non margina- le da casi di pedofilia… Beh, in questo caso mi sembra si possa porre la questione della violazione dei diritti dell‟infanzia (e per estensione, dei di- ritti umani). È questo, più in generale, il tema della devianza all‟interno del- le c.d. istituzioni totali, che tratterò nel quinto capitolo. Come dire: se le fi- nalità ufficiali dell‟istituzione vengono significativamente violate a danno dell‟integrità psicofisica dei suoi internati, lì si ravviserà con buona proba- bilità una violazione dei diritti della persona (formalmente garantiti e per- seguiti), non essendo quasi di certo un problema di giudizio di valore dell‟osservatore. O, se vogliamo, di relativismo culturale, che se fossero fi- nalità legittimamente perseguite, lo si dovrebbe fare (e lo si farebbe) alla luce del sole. Anche questa sezione del lavoro attiene, in buona sostanza, all‟offesa del corpo altrui89.

* * *

Al di là di queste due fattispecie „minimali‟, tutto il resto rimane in qualche modo nell‟ambito dell‟opinabile, del „culturale‟: ma non per questo

89 Il capitolo non si fermerà a questo caso, ma prenderà in considerazione anche la questione „Guantanamo‟ e la situazione delle carcere italiane a partire dal caso di Stefano Cucchi.

irrilevante ai fini di questo studio. Semplicemente, me ne occuperò con una diversa consapevolezza: la consapevolezza che trattasi di questioni di attua- lità, oltremodo complesse.

Che il punto sia più che spinoso, già lo sappiamo. Prendiamo la Dichia- razione universale dei diritti umani, proclamata dall‟Onu nel 1948. Secondo tale dichiarazione, tutti gli individui possiedono in quanto tali un valore e una dignità, e devono essergli riconosciuti diritti uguali e inalienabili in quanto membri della famiglia umana: il diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza della propria persona, il diritto a non essere tenuti in schiavitù o sottoposti a tortura, il diritto a non essere arbitrariamente detenuti o arresta- ti, il diritto alla libertà di espressione e di opinione, il diritto di procurarsi un‟istruzione, il diritto di praticare una religione, di riunirsi pacificamente, di sposarsi per libero consenso, di avere proprietà personali, di ricevere u- guale retribuzione per uguale lavoro, di aderire a un sindacato, di essere proprietari delle rispettive creazioni intellettuali e artistiche90.

Ma Daniela Melfa (2009, p. 139) ci ricorda che: «La Dichiarazione uni- versale dei diritti dell‟uomo del dicembre 1948 non è stata sottoscritta dagli stati musulmani e che una tenace resistenza è stata manifestata anche nei confronti di successive iniziative internazionali. […] L‟opposizione con- servatrice avanza un‟argomentazione „culturalista‟ o „essenzialista‟ soste- nendo che i diritti umani così come formulati nelle dichiarazioni interna- zionali sono espressione dell‟Occidente. In questa prospettiva i musulmani sono considerati i portatori di una visione del mondo sostanzialmente di- versa rispetto alla cultura occidentale».

La Dichiarazione universale dei diritti dell‟uomo rimane quindi, al più, un punto di arrivo ancora lungi dal venire. Osserva Aleo (2004, p. 4): «Og- gi [nell‟era della globalizzazione] abbiamo il problema di definire alcune nozioni e alcuni principi fondamentali su cui possono convenire le diverse culture e i diversi popoli. I „diritti naturali‟ sono stati l‟argomento della ra- zionalità assoluta dei fondamenti giuridici della società moderna. I „diritti dell‟uomo‟ sono la nozione attorno a cui oggi si ricerca la possibile identità di una società civile cosmopolita e multietnica»91.

90 «È un‟ottima cosa che i governi facciano dei diritti dell‟uomo l‟ossatura e la cornice stes- sa della loro azione politica. Ma i diritti dell‟uomo sono soprattutto ciò che si oppone ai go- verni. Sono limiti che si pongono a ogni governo possibile» (Foucault, 1982, p. 175). 91 Concetto ribadito anche più oltre (ibidem, pp. 517-518).

Da un‟ottica interazionista92, tutto ciò che è umano rimanda al concetto di definizione della situazione, introdotto per la prima volta da Thomas (1931, 1972, p. 331)93. Scrive Thomas: «Prima di ogni azione che sia auto- determinata vi è sempre una fase di esame e decisione che possiamo chia- mare definizione della situazione». Con ciò si mette in luce il fatto che gli individui non reagiscono d‟istinto alle situazioni nelle quali si trovano coinvolti – secondo lo schema comportamentista „stimolo-risposta‟ – per- ché prima di agire le „interpretano‟; è la visione personale del mondo a gui- dare il comportamento di ciascun attore sociale, non la presupposta obbli- gatorietà dell‟azione implicita nello schema testé menzionato.

Anche in tema di scelte collettive – si potrebbe affermare – la reazione all‟input è sempre mediata da una fase interpretativa; sia pure, con l‟avvertenza che adesso non si tratta più del qui e ora del singolo, ma del come si è sedimentata la definizione della situazione nella collettività sul cosa rientri (e cosa non rientri) nell‟ambito preso in considerazione. Nel ca- so nostro, nell‟ambito dei diritti umani e della loro tutela94.

Comunque la si interpreti, la nozione di diritti dell‟uomo – questo noc- ciolo duro del diritto – è segno di civilizzazione: di volontà di abbandono della legge del più forte, a favore della tolleranza. Della volontà di trascen-