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2. Fantasmi della gioventù, tra inquietudini e anomia sociale

2.11 Anomia sociale e paura di futuro

Sono gli allievi della formazione professionale a palesare, sebbene non subito, le inquietudini e le incertezze in merito alla ricerca di un lavoro, dopo il diploma. Dietro questi sentimenti, la progressiva perdita di fascinazione della società nei confronti di un diploma cui comunque continuano ad aspirare famiglie e giovani studenti e studentesse, la cui

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paura più grande è che dopo anni di studio e investimento economico non potranno autonomizzare la propria posizione sociale nel mercato del lavoro.

Era Yahia, matricola e originario del Kef, regione interna e rurale della Tunisia, a fare emergere i fantasmi dell’insuccesso, durante un focus group di presentazione della ricerca in una classe della specialità di ‘climatizzazione’ in cui Arbi, che infatti provava a ribattere le argomentazioni del ragazzo, insegna.

Io voglio andare poi in Francia da mio fratello. Lui lavora ma è irregolare. È da sei anni in Francia. Ho anche una zia che abita lì e loro possono mandarmi un invito e andare come turista, e poi magari trovare un contratto di lavoro. [...] Con questo diploma in Tunisia non posso fare nulla come lavoro...

Arbi: Perché? Voi potete lavorare in un'azienda o fare lavoretti soli e fare soldi, perché siete così negativi?

Yahia: Loro non ti fanno progredire, resti nella tua dimensione di operaio... Gli imprenditori, i capi di impresa non ti fanno progredire, ti vogliono piccolo... In occidente hai i tuoi diritti di lavoratore, qui di sfruttano. Io ho fatto uno stage in un'impresa, in un cantiere in un'autostrada, mi facevano montare solo nelle scale. Io non ho appreso il mestiere, io facevo il mulo che portava il carico pesante (Ben Arous, 11/11/2016)...

O ancora, Ibrahim, ventiduenne di Gafsa, bacino minerario della Tunisia, rimarcava come dopo il diploma potrebbe esserci dietro l’angolo un’amara sorpresa:

Noi qui per ora studiamo, impariamo qualcosa. Ma sappiamo che dopo nessuno può assicurarci il lavoro. Anzi, è molto probabile. Tante persone qui non lavorano, stanno ai caffè, per strada, non sono nessuno. Ognuno è per la sua strada. In Tunisia il lavoro non c’è, la paga comunque è molto bassa. Ti sfruttano. Qui impariamo a fare un mestiere, a usare le mani, ma poi è difficile che potremo usarle come vogliamo (Ben Arous, 11/11/2016).

Dietro le solide aspettative della manualità si celano angosce, paure di anomia sociale. “Essere nessuno” è la prospettiva di non poter soddisfare

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alcuna delle aspettative paventate da Arbi, e si lega con straordinaria e inquietante continuità all’altro postulato, “ognuno è per la sua strada”. L’assenza di lavoro e soprattutto la corrispondente impossibilità di accedere a uno statuto definito di persona, col suo carico di obblighi prescritti e di significati sociali riconosciuti, conducono a un’anomia profonda, il cui sintomo maggiormente morboso risiede in quell’assenza di cooperazione, contatto, regolamentazione sociale (Durkheim, 1962) rinvenibile nello stare “ognuno per la sua strada”. Ne Il Suicidio (1977), in cui Émile Durkeim considera questo atto come un prisma per caratterizzare la temperie morale della società (Boltanski, 2014), l’anomia ‘cronica’ viene descritta in termini di assenza di riferimenti nell’universo sociale. Anomia generata dalla dolorosa constatazione, riprendendo proprio le parole di Durkheim, di essere ricacciati sempre indietro nei faticosi tentativi di progredimento sociale. Secondo il Forum Tunisino dei Diritti Economici e Sociali nel 2018 il tasso dei suicidi ha raggiunto quota 281 (tra atti realizzati e tentativi); la classe d’età maggiormente toccata è quella tra i 20 e i 25 anni39.

Nell’inverno del 2018, durante una stagione che in Tunisia è tradizionalmente associata al conflitto sociale e alla turbolenza politica, la supposta autoimmolazione del giornalista Abderrazak Zorgui, che pare volesse protestare contro le pessime condizioni socio-economiche in cui versa il Paese40, dà l’avvio à un’ondata di tentativi di suicidio, specie nelle regioni interne, di cui danno notizia i media tunisini41. Del resto, qualche mese prima aveva avuto luogo un attentato suicida, per fortuna senza ulteriori vittime, lungo la centralissima Avenue Habib Bourguiba, realizzato da una giovane disoccupata di Mahdia, diplomata in management e lingua inglese42.

39 Cfr. https://www.shemsfm.net/fr/actualites_tunisie-news_news-nationales/204258/ftdes-plus-de-6-mille- mouvements-sociaux-et-281-suicides-et-tentatives-de-suicide-au-premier-semestre-de-2018, consultato il 7-05- 2019. 40 Cfr. https://www.repubblica.it/esteri/2018/12/25/news/tunisia_giornalista_si_da_fuoco_per_protesta_contro_il_governo -215070842/?ref=RHRS-BH-I0-C6-P20-S1.6-T1&fbclid=IwAR303QbBmkLmx20mxaoFyEOmIM6hnUMMcNilj- NHr6wHqU36aIPLFKfs7us, consultato il 7-05-2019.

41 Si rimanda alla consultazione del portale web Tunisia in Red.

42 Cfr. http://www.rfi.fr/afrique/20181029-tunisie-attentat-suicide-avenue-bourguiba-femme, consultato il 7-05- 2019.

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Nel corso della ricerca, tanti sono stati i miei giovani interlocutori ad avermi raccontato di suicidi da parte di loro coetanei, di estrazione sociali diversa e per ragioni non sempre chiare, il che complica terribilmente la tracciatura di un filo esplicativo capace di rendere conto di questo fatto sociale43. Studenti della formazione professionale; giovanissimi scolari che ogni anno si gettano nell’Ain El Morra, il canaletto – gonfio d’acqua nella stagione invernale – che segna l’inizio della municipalità di Mohammedia, in più d’un caso per aver riportato la bocciatura al maktab, la scuola; cadute accidentali da tetti di grandi – e alti alberghi – della capitale. Qual è la ragione ultima che li smuove, senza cadere in culturalismi posticci? Ed è legittimo legare i suicidi privi di esplicite rivendicazione di carattere politico o protestatario alle immolazioni con cui hanno avuto inizio le primavere arabe?44?

Nel suo saggio dedicato alle torce umane nel Maghreb, Annamaria Rivera (2012) scrive che l’atto suicidario, in particolare quello compiuto in pubblico, non è alternativo ma consustanziale al ciclo storico della rivolta. In Tunisia, dunque, il suicidio non è solo un simbolo sacrificale che, con la sua aura evocativa, è in grado di fondare una fase politica nuova, ma è «espressione e parte integrante di un ciclo storico di crisi economica, sociale, politica, forse anche identitaria, quindi di turbolenza sociale e politica, probabilmente associate a stress collettivo, anomia e disgregazione sociale (p. 35)».

Ma torniamo al punto da cui questa digressione suicida è originata, ovvero le contraddizioni, ravvisabili nelle produzioni discorsive degli studenti della formazione professionale, tra l’affermazione dell’utilità di un percorso formativo volto a un più facile inquadramento lavorativo e la percezione di pesanti incertezze che gravano sul futuro. Questa discrasia si innesta su un’altra incoerenza, tra volontarietà della scelta della formazione professionale e la sua ‘obbligatorietà’, determinata da un lato

43 Alcuni media chiamano in causa, in maniera assai poco convincente, il nichilismo mortifero di Daesh o addirittura il satanismo, cfr. https://www.huffpostmaghreb.com/farouk-ben-ammar/vague-de-suicides- alarman_b_13007786.html (consultato il 7-05-2019).

44 Va da sé che queste considerazioni sul suicidio non possono che essere frammentarie e incomplete: uno studio sul suicidio dovrebbe, ricavando proprio l’apporto durkheimiano, legare l’atto suicida ai quadri normativi e morali espressi dalla società (al tempo stesso locale e globale in cui i soggetti si muovono) che esprimono valori standardizzati verso cui tendere e le relative degenerazioni (Stavrianakis, 2016).

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da pregressi fallimenti scolastici, dall’altro dalle pressioni familiari di parenti che, in alcuni casi, lavorano nei medesimi ambiti dei giovani studenti. Per questo motivo non posso ricondurre questi percorsi formativo-professionali a un’adamantina consapevolezza ‘politica’, generata a sua volta dal fallimento scolastico, che vari autori hanno considerato come cruciale nell’elaborazione di un pensiero politico critico (Ashton, Field, 1976).

Contraddizioni, si diceva. È legittimo impiegare questo termine? Possono essere contraddittori gli attori sociali? O si tratta piuttosto di un abuso del ricercatore, che pretende di fissare dei dati oggettivi, incontrovertibili, trasparenti, eredità di un’attitudine positivista?

Il modello etnografico non può che essere lo studio di Paul Willis,

Learning To Labour (2012), dedicato ai lads, giovani studenti britannici

che negli anni Settanta sceglievano volontariamente, al termine del loro ciclo di studi, di interrompere la formazione e iniziare a lavorare. La tesi di Willis era dirompente all’epoca – e in parte ancora oggi: i figli degli operai non sono ‘obbligati’ a divenire operai; non è il sistema, attraverso implacabili dispositivi di riproduzione sociale e culturale, a forzarli a collocarsi nelle posizioni subalterne dell’organizzazione sociale. Erano loro, semmai, a rinunciare alla mobilità sociale promessa dalla scuola. I giovani ‘etnografati’ da Willis sono soggetti complessi, la cui soggettività non è meccanicamente inferibile dalla loro collocazione sociale ed economica (Simonicca, 2012). Si tratta, a ben vedere, della dialettica tra agency e struttura, tra egemonia e resistenza, tra autodeterminazione del soggetto e sua sussunzione in strutture di potere (Vignato, 2010) che apre ogni lavoro etnografico a un sotto-testo di conflitti, alle anomalie del vissuto indagato, alle incoerenze tra retoriche e pratiche degli attori sociali.

Queste contraddizioni, emergenti dalle produzioni discorsive dei giovani allievi della formazione professionale – ma anche dell’università – si focalizzano sul pericolo della disoccupazione, uno stato sempre meno liminale e temporaneo (Kwon, Lane, 2016), come essi apprendono dalla condivisione di storie e percorsi di vita nei gruppi di pari. E quand’anche non se ne parli esplicitamente, l’evidenza della disoccupazione giace tutta

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in un indesiderato prolungamento di una (com)presenza prolungata negli spazi aggregativi dei caffè, dei bordi delle strade. In questi spazi, in cui la frequentazione di giovani soggetti è massiccia, l’invisibilità sociale e politica dei giovani disoccupati è compensata da una sovra- rappresentazione fisica nello spazio pubblico.

La disoccupazione è oggetto di rappresentazioni nelle quali essa è tematizzata come una condizione ab-norme che produce stress emotivo e inazione, secondo quanto testimoniava sconsolato Firas, venticinquenne disoccupato di Ben Arous che attualmente aiuta la madre a gestire un piccolo fast food a conduzione familiare. Ricordo l’atmosfera deprimente di quell’incontro, nel quartiere Hay Lesken di Ben Arous. Mentre Firas – che si considera disoccupato pur aiutando la madre – parlava, altri suoi conoscenti seduti al tavolino del fast food bevevano il caffè e annuivano, confermando amaramente le sue parole.

La cosa peggiore della disoccupazione è lo stress. Pensi tutto il giorno, rifletti, sul futuro... Io ci penso tutti i giorni... Tu non puoi fare cose di 'piacere' come viaggiare... Tutto ciò che puoi fare è mangiare, e basta […]. Ora sono disoccupato. Per ora non cerco nemmeno. Ho molte idee, ma per il momento... Ho progetti di uscire verso il Kuwait... Perché lì il modo di vivere, i salari - in confronto alla Tunisia - sono un'altra cosa... Le persone, le infrastrutture... Tutto. Ma ovviamente ci andrei per guadagnare denaro (Ben Arous, 03/07/2018)...

La stagnazione della condizione di disoccupazione conduce in effetti a una certa autoesclusione – almeno così come emerge da incontri e interviste. Un amico di Firas, Taoufik, seduto lì con noi e taciturno, aveva lavorato come cameriere a un piccolo caffè di Ben Arous e, come avviene di consueto nei piccoli esercizi commerciali, senza contratto, fino a quando il datore di lavoro non trova qualcun altro disposto a essere pagato di meno. Disoccupato da due anni, Taoufik ha dei cugini in Francia, ma non è facile trasferirsi. “Purtroppo sono nato qui”, chiosava fumando. Hichem, ventiseienne di Mohammedia laureato in lingua linglese, impegnato nell’emergente società civile tunisina post-rivoluzionaria alla testa di un’associazione locale, e di cui approfondiremo la conoscenza nel

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prossimo capitolo, non aveva dubbi a tal riguardo:

I ragazzi qui non lo cercano nemmeno il lavoro, perché hanno visto che altri prima di loro non lo hanno trovato, o comunque la loro vita non è cambiata poi tanto. L’esperienza si condivide nei quartieri, e riproduce lo stato di cose presente. Un’esperienza di fallimento. Le famiglie, poi, supportano i ragazzi disoccupati, dandogli anche del denaro, perché ‘sperano’ che la situazione cambi prima o poi (21/11/2018).

Siamo forse in presenza di un habitus del fallimento personale, incorporato attraverso la condivisione di esperienze, retoriche, pratiche sociali e che a sua volta alimenterebbe, come una coazione a ripetere, la non ricerca del lavoro?

È come se nel pensiero di Hichem la disoccupazione negasse la personalità sociale dei disoccupati, incapaci di integrarsi nella struttura sociale aderendo a obbligazioni e ruoli prescritti. Perdere il posto nella società equivarrebbe a perdere la propria visibilità (Mauss, 2016).