• Non ci sono risultati.

Retoriche e miti dello sviluppismo tunisino

1. Prima e dopo la Rivoluzione, la Tunisia (neo)liberale

1.2 Retoriche e miti dello sviluppismo tunisino

Il prossimo capitolo tratterà delle profonde conseguenze che le politiche liberali producono sulle esistenze quotidiane di giovani attori sociali perennemente ‘in attesa’ (Honwana 2013; 2012), in grado di poter accedere solo parzialmente alle aspettative di autonomia sociale e significanza politica le cui immagini ricorrono senza sosta nei consumi massmediali e nei sogni di accesso all’età adulta. È in particolar modo il ceto medio ad essere stato tradito dalle promesse liberali pre- e post- rivoluzionarie. La considerazione delle diseguaglianze regionali e della stigmatizzazione territoriale delle aree interne e rurali della Tunisia non deve far passare in secondo piano le traiettorie dei giovani urbani impoveriti, attaccati alle aspirazioni di una cittadinanza globale e deterritorializzata, condizione considerata come necessaria per l’accesso alla ‘modernità’.

La presentazione del quadro economico della Tunisia dei nostri giorni è propedeutica all’innesto del lavoro di ricerca che ho condotto negli ultimi due anni nell’area urbana della Grande Tunisi. I soggetti, le persone, gli interlocutori incontrati non aleggiano su uno sfondo neutro, astratto, sovrapponibile a qualsivoglia altro contesto. Essi sono invece situati in un campo di rapporti sociali di diseguaglianza e di rapporti di potere asimmetrici di cui avverto l’esigenza di rendere conto.

L’‘economico’ – inteso nell’accezione demartiniana di valorizzazione inaugurale, e incardinato in un orizzonte domestico di ‘cose’ e di ‘nomi’

44

(De Martino, 200218) – mi è parso una dimensione necessaria, ma non

auto-sufficiente, come si vedrà oltre, ai fini della comprensione delle dinamiche di produzione del risentimento sociale e di germinazione di nuove soggettività politiche nella Tunisia post-rivoluzionaria.

Tuttavia, questa presentazione contiene in sé rischi e vantaggi.

Il vantaggio consiste nel fatto che i processi di crescente pauperizzazione cui vanno incontro ampie sacche di corpo sociale è collocato entro strategie politiche e decisioni economiche ben determinate, su scala globale. In ciò, questa lettura è debitrice degli apporti di derivazione marxista dei teorici della dipendenza e dei sistemi mondiali, al netto delle loro inflessioni deterministiche, in quanto considera la marginalizzazione di determinate aree economiche come un processo di periferizzazione e di inclusione differenziata entro la riarticolazione globale del capitale (Chase-Dunn, Hall 1991; Wilk 2007).

Inoltre, vengono evitate tanto le secche mitizzanti della narrativa sviluppista, quanto le tentazioni di impronta culturalista di ricondurre la povertà a tratti e maccanismi psico-culturali sovente intravisti nelle cosiddette società arabo-musulmane (Rodinson 1968): il tradizionalismo, il fatalismo, la predisposizione alla criminalità, l’assenza di ambizione, l’inadattabilità al cambiamento. In questo modo, la povertà viene ridotta, anzi, addebitata, a un ‘tipo’ culturale essenzializzato, di derivazione weberiana, sul modello teorizzato da Oscar Lewis (1959; 1966) nel suo lavoro etnografico nei contesti suburbani portoricani e messicani.

Come tutti i miti, anche quelli dello sviluppo forniscono immagini e categorie con cui le persone immaginano e modellano la propria esperienza nel mondo. I processi mitopoietici (Wunenburger, 2008) offrono una chiave di lettura della storia e della realtà sociale funzionale alla risoluzione simbolica delle sue contraddizioni più evidenti e difficilmente tollerabili – come la persistenza e addirittura l’estensione del sottosviluppo nonostante i piani per lo sviluppo (Ferguson 1999; 2006).

18 Mi riferisco alle pagine de La fine del mondo, in cui Ernesto De Martino richiama l’economico nel suo valore inaugurale di prima – e non certo unica – base della vita culturale: «l’economico è l’orizzonte del domestico, della datità utilizzabile, di un mondo di ‘cose’ e di ‘nomi’ relazionato secondo un progetto comunitario della utilizzazione possibile o attuale […] (De Martino 2002: 656)».

45

In realtà, se la globalizzazione si nutre di connessioni finanziarie e produttive è anche vero l’inverso (India, 2017): benché la modernità venga correntemente rappresentata, nel discorso comune e nelle scienze sociali, in termini di flussi globali, i percorsi del capitale nell’economia capitalistica globalizzata assumono piuttosto una traiettoria puntiforme, che unisce i singoli nodi caldi dello sviluppo (delle vere e proprie

enclaves) lasciando tuttavia ‘scoperte’ le immense porzioni di mondo che

intercorrono tra di essi. L’immaginario sviluppista naturalizza i processi di globalizzazione attraverso un linguaggio che li rende analoghi ai processi della natura: il termine ‘flusso’ richiama lo scorrimento incessante dell’acqua, che lambisce tutto ciò che incontra durante il suo percorso. Ma la globalizzazione non ‘scorre’, seleziona la materia che le interessa ‘lambire’ e accresce condizioni di evidenti disparità e asimmetrie (Ferguson, 2006), come verrà evidenziato nei prossimi paragrafi a proposito delle disparità territoriali nel contesto tunisino.

Il rischio dell’insistenza sui caratteri recessivi dell’attuale situazione economica tunisina è di riprodurre discorsi e rappresentazioni che istituiscono una differenza valutativa tra il pre- e il post-rivoluzione, quasi che il movimento rivoluzionario abbia costituito una cesura tra un regime capace di coniugare strumenti di controllo disciplinare e alte performance economiche e una sequela di governi democratici incapaci di assicurare il benessere alla popolazione.

In effetti, il regime di Ben Ali ha fatto ampiamente ricorso al mito dello sviluppo, condensato in una retorica politico-rituale performativa fondata sulla discorsività del ‘miracolo’ economico tunisino (Hibou, 2011 b). Non è questa la sede per approfondire la configurazione clientelare e neocorporativista di un capitalismo di Stato bilanciato tra corruzione e regolamentazione (crony capitalism) (Rijkers, Freund, Nucifora, 2014). Il ‘miracolo economico’ tunisino, cuore del processo di legittimazione del regime di Ben Ali e vero e proprio dispositivo di potere, era il frutto di una complessa elaborazione tecnico-propagandistica, incentrata esclusivamente sull’aggregato macroeconomico, i cui dati – sapientemente trattati – certificavano crescita e stabilità monetaria. Contemporaneamente, i rapporti e i proclami degli attori politico-

46

finanziari del regime, ma anche di organizzazioni straniere o internazionali, provvedevano all’occultamento o alla manipolazione di altri tipi di dati, come quelli relativi all’economia informale o transfrontaliera (Meddeb, 2015). Ad esempio, la sapiente manomissione delle informazioni e delle statistiche economiche nazionali emendava le cifre sulla disoccupazione delle variabili di età, regione di origine o genere, così da sorvolare sulle discriminazioni territoriali o sulla franosità della mobilità sociale. Astute comparazioni, ribaltamenti di senso, intercambiabilità tra proiezioni e dati: tutte operazioni che Béatrice Hibou (2011 b) riconduce al disegno egemonico di costruzione di un’immagine della Tunisia riconoscibile dai partner occidentali quale allievo modello –

bon élève – capace di realizzare una governance pragmatica e moderna e

di implementare politiche economiche di senso neoliberale. Inutile rimarcare che il movimento rivoluzionario che ebbe il suo culmine nel 2011 originava proprio da quel ‘non-detto’ lungamente taciuto e oscurato. Ciò che importa qui considerare è che la ‘naturalizzazione’ del miracolo economico tunisino, costantemente sganciato dal Paese ‘reale’ (Mbougueng, 1999; Bécet, 2004) e prodotto di quell’ideologia dello sviluppo e della modernizzazione sulla cui irrevocabile e fatale traccia la Tunisia si immetteva, sortiva un effetto incantatorio su istituti finanziari transnazionali19, donatori finanziari internazionali e sulla popolazione tunisina stessa20. Prima della fuga del dittatore, l’‘eccezione’ tunisina era celebrata dalle democrazie euro-americane, silenti sulla sistematica violazione dei diritti umani, civili e politici perpetrati dal regime di Ben Ali, in nome della sua performance macroeconomica, degli intenti riformisti dei suoi dirigenti e della repressione indirizzata a ogni forma di islam politico21. In poche parole, la Tunisia era un alleato da tenere ben stretto, ancor di più considerando la sua collocazione geopolitica, stretta

19 Sempre Hibou (2011 b) ricorda come almeno dalla seconda metà degli anni Novanta la Tunisia fosse per il Fondo Monetario Internazionale un riferimento per i manuali di programmazione finanziaria del continente africano. 20 In poche parole, il ‘discorso’ sul miracolo economico si nutriva di quelli che potrebbero essere definiti atti linguistici performativi, aventi la funzione di produrre determinate condizioni di realtà nel momento stesso in cui esse vengono enunciate (Austin, 1987).

21 È a questa storia ‘sconosciuta’ di repressione e fiera dissidenza nel Maghreb che Mohsen-Finan e Vermeren hanno consacrato il volume Dissidents du Maghreb. Depuis les indépandances (2018).

47

tra un’Algeria economicamente forte e sconvolta dalla guerra civile e una Libia soggiogata dal tutt’altro che malleabile colonnello Gheddafi. Per vasti strati della popolazione, invece, unirsi alle voci inneggianti al miracolo tunisino significava ‘voler’ credere in esso, condividere e financo partecipare alla formulazione di un discorso autoritario, sostiene audacemente Béatrice Hibou; in poche parole, integrarsi in un’economia politica bifronte, la cui efficacia riposava nell’unire la potenza della repressione alla lungimirante disponibilità al compromesso e all’accomodamento continui.

E tuttavia, al pari di ogni struttura sociale di potere, anche il discorso egemonico può essere affetto da ricezioni ambivalenti, solo apparentemente consensuali, e da interpretazioni sovversive (de Certeau, 2010), armi dei deboli per eccellenza (Scott, 1987), capaci di ribaltare ogni senso imposto, come in effetti si sarebbe presto manifestato nelle rivendicazioni di shoghl, hurrîya, karâma al-wataniya (lavoro, libertà, dignità cittadina).

Ma la fine di Ben Ali ha realmente comportato l’estinzione di retoriche e pratiche fondanti quell’economia politica e morale? Le scelte di politica economica dei governi della Tunisia post-rivoluzionaria, le quali si inscrivono nel solco dell’austerity, inducono a ravvisare una continuità nell’ortodossia macroeconomica, senza che vi sia stata una riflessione sistematica su un modello alternativo di sviluppo da intraprendere. La traiettoria dello Stato sviluppista univa l’attenzione spasmodica nei confronti del dato macroeconomico alla produzione di un’eccedenza sacrificabile: la popolazione delle regioni interne affette da sottosviluppo cronico e i giovani urbani sempre più deprivati. Non è certo che il sollevamento del 2011 abbia impresso un radicale cambio di paradigma. A ciò si aggiunga il rischio che osservatori e analisti rivolgano oggi alla Tunisia lo stesso sguardo ‘eccezionalista’ risalente ai tempi di Ben Ali. Da questo punto di vista, «il discorso sul carattere esemplare della transizione democratica tunisina presenta un’omologia strutturale sorprendente con quello della ‘buona governance’ degli anni di Ben Ali (Allal, Geisser, 2018:23)». Ieri come oggi, la celebrazione di efficacia, ordine, stabilità e consenso rischia di applicare lenti deformanti a una

48

lettura idealizzata e preconcetta della complessa vicenda tunisina contemporanea (Hmed, 2016).