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1. Prima e dopo la Rivoluzione, la Tunisia (neo)liberale

1.6 Potenza dello Stato

Le politiche urbane, sin qui appena accennate, sono uno strumento formidabile per pervenire alla comprensione dei meccanismi di funzionamento dello Stato.

Nel già citato lavoro di Vincent Geisser e Michel Camau (2003), gli autori, pur non aderendo del tutto a una definizione dell’apparato statuale tunisino in termini di Stato neo-patrimoniale, in cui la fonte dell’autorità risiede nella personalizzazione del potere, condividono tuttavia l’assunto

58 Le migrations intérieures et le risque social en Tunisie, https://www.leconomistemaghrebin.com/2013/10/10/les- migrations-interieures-et-le-risque-social-en-tunisie/, consultato il 13/03/2019.

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che il clientelismo, inteso come sistema di mediazione, ne sia il presupposto, al punto da ridurre o rendere del tutto ininfluente lo sviluppo di ogni altro spazio civico (Sharabi, 1996).

Tuttavia, un conto è ricostruire la genealogia storica della centralizzazione e della clientelizzazione dei rapporti sociali all’interno della società tunisina già a partire dal XVIII secolo, come appunto fanno Camau e Geisser; altra cosa è istituire tipologie essenzialiste tra Occidente e paesi arabo-musulmani, nei quali il patronage politico e le pratiche clientelari fonderebbero lo Stato e renderebbero lo spazio pubblico, a partire da quello cittadino, sottomesso alle reti familiari e politiche che convergono in un capo autoritario (Badie, 1986)59. Da qui deriverebbe l’impossibilità di sviluppare una società civile autonoma, non cannibalizzata dalla ‘società politica’. La stessa cultura della rivolta, già richiamata nelle precedenti pagine, non sarebbe altro che il sintomo di un tentativo disperato e disorganico di ricostruire una scena politica all’esterno di un sistema politico impenetrabile e incancrenito (Chabbi, 2016).

Certo, è evidente che durante i regimi di Ben Ali e Bourguiba lo spazio pubblico fosse occupato, appropriato dai due presidenti, sottoposto a una continua egemonia semiotica (Fenniche, 2013). Lo stesso Camau (1984) scriveva che durante l’età dell’oro dello Stato-tutelare, negli anni Sessanta, nessuna istituzione sociale poteva scampare al controllo diretto dello Stato-Partito unico, al punto che ogni mediazione tra sfera pubblica e privata – ciò che Habermas (1996) chiama in effetti società civile – non aveva diritto di esistere.

In generale, come già scritto, l’articolazione delle relazioni tra Stato e popolazione non assumeva quasi mai connotazione di negoziazione. Si tratta semmai di una dipendenza univoca da parte della popolazione, obbligata a cercare forme di mediatori e intercessione che, «in un contesto di Stato neo-patrimoniale, fanno intervenire diverse forme di patronage e conducono di conseguenza a differenti forme di fedeltà [politica] (Chabbi, 2016:125)».

59 Patronage e clientelismo non sono due costrutti teorici equivalenti: per Li Causi (2011) il primo è un rapporto sociale in cui i termini dello scambio sono prettamente ideologici (in senso marxiano); nel secondo gli elementi dello scambio sono più chiari e la transazione ha un netto aspetto economico.

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L’enfasi sullo Stato che emerge da svariati studi sociologici e politologici, nonché da diverse ricerche etnografiche, non appare quantomeno ridondante se consideriamo le potenzialità offerte dalla globalizzazione economica e le possibilità culturali e immaginative insite nei mezzi di comunicazione contemporanei?

Benché le risorse attingibili per elaborare progetti politico-identitari alternativi e anzi oppositivi allo Stato nazione (Appadurai, 2001) siano oggi molteplici, sottoscrivo la tesi di quanti attribuiscono all’istituzione statuale un ruolo ancora preminente nel modellamento dei flussi culturali e dell’esercizio dell’egemonia, così come nel potere di esclusione e nella forza disciplinare (Riccio, 2004). Gli Stati-nazione detengono tuttoggi un ruolo critico nel sottoporre a regolamentazione politica – materializzata nei confini, virtuali o reali, della nazione – flussi transnazionali di capitale, lavoro, tecnologia (Gregory, 2004).

La letteratura post-weberiana dello Stato, piuttosto che enfatizzare l’accentramento burocratico e il monopolio coercitivo dell’apparato statuale, si focalizza su aspetti e tecnologie del potere che vanno oltre ciò che convenzionalmente viene ascritto allo Stato, operando una distinzione tra processi governamentali e strutture statuali (Nugent, 2004).

A pochi mesi dalla fuga di Ben Ali, Béatrice Hibou (2011 a) si chiedeva, quasi ‘a caldo’, se la cacciata del dittatore potesse autorizzare a celebrare la conclusione di un sistema politico e morale incancrenito. Sistema la cui forza non risiedeva esclusivamente nella violenza e nella coercizione, ma nell’articolare meccanismi disciplinari-repressivi e strategie di inclusione selettiva della popolazione in circuiti economico-sociali gratificanti, all’interno di un ‘patto di sicurezza’ tra dominanti e dominati da cui prendeva forma lo ‘Stato di ingiustizia’ tunisino (Bono, Hibou, Meddeb, Tozy, 2015).

Lo Stato riusciva così ad assurgere ad attore imprescindibile per il soddisfacimento del bisogno di protezione sociale e per l’accesso alla modernità e alla società dei consumi. «La dominazione non può essere analizzata semplicemente in termini di modi di governo da parte dei dominanti; essa è anche un processo di soggettivazione che produce al contempo il soggetto e l’assoggettato (Hibou, 2011 a: 8)». Assumendo

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una prospettiva foucaultiana, l’autrice si interroga se la rivolta sociale tunisina del 2010-2011 possa essere considerata fondatrice di uno spazio politico altro, immune alla pedagogia implicita ed esplicita propalata dai regimi precedenti.

Ne consegue una fotografia complessa del dominio durante gli anni del regime, benché ciò non possa e non debba autorizzare a obnubilare la sua fitta trama coercitiva.

Nel mese di settembre del 2018 è stata allestita nella cornice del club culturale Tahar Haddad, nella medina di Tunisi, un’esposizione sulla violenza e la tortura nella Tunisia pre-rivoluzionaria: Les Voix de la

Mémoire, imbastita sulle testimonianze dei prigionieri e delle loro

famiglie. Dopo l’indipendenza, la prigionia politica è stata massicciamente brandita da Bourguiba e Ben Ali contro nazionalisti, oppositori di sinistra e islamisti60.

Simbolo della prigionia esibito nel corso dell’esposizione è il cestino con gli alimenti che le famiglie dei reclusi preparavano affinché venisse poi consegnato ai prigionieri. Il cibo costituiva il loro unico contatto possibile. Non avendo altri mezzi a disposizione, inoltre, i reclusi potevano provare a scrivere qualche messaggio tessendo delle frasi sui propri indumenti. Tra queste parole prigioniere consegnate a una memoria postuma e riportate nell’allestimento espositivo, ne ricordo alcune in particolare, rivolta da un prigioniero alla sua famiglia. Su una sciarpa, aveva ricamato la seguente frase: “Noi qui siamo in una piccola prigione, ma voi vivete in una prigione ancora più grande”: la Tunisia. Nel 2013 l’Assemblea Nazionale Costituente ha ratificato una legge sulla giustizia transizionale, il cui organo attuativo è l’Istanza di Verità e Giustizia, perennemente a corto delle risorse finanziarie necessarie al suo funzionamento, chiamata a raccogliere le testimonianze delle vittime della repressione dal 1955 alla data di promulgazione della legge. Inoltre, dovrà quantificare gli indennizzi da versare a chi ha subito abusi e violenze durante la dittatura di Bourgouiba e Ben Ali61.

60 Cfr. su questo punto http://www.ossin.org/tunisia/970-la-polizia-politica-in-tunisia-da-bourghiba-a-ben-ali, consultato il 19/03/2019.

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In ogni caso, se il dominio necessita di letture maggiormente complesse, lo stesso va detto per la rivolta. Quest’ultima, lungi dall’essere una mera ribellione ‘del ventre’62, è stata resa possibile per via del venir meno di

quelle promesse e illusioni di modernità paventate dalla macchina propagandistica di Ben Ali. Le speranze e le attese, cuore del ‘patto di sicurezza’ tra regime e governati, si sono tramutate in frustrazioni, a riprova della possibilità di interpretazioni sovversive della semiotica del potere, dell’ambivalenza della partecipazione – solo apparentemente convinta – della popolazione ai rituali del regime e della discrepanza tra il ‘verbale pubblico’ e quello ‘segreto’ delle relazioni di potere (Scott, 2006), ovvero l’elusività della condotta politica dei gruppi subordinati. La distruzione del partito-quasi-unico comporta automaticamente la rimessa in causa di principi, valori e norme precedentemente sostenuti? Riprendendo l’esempio della stessa Hibou, quell’economia dell’arrangiarsi e della negoziazione continui (solo in parte coincidente con l’istituto del trabendo63), in cui l’accesso a certi segmenti di mercato

– quei circuiti paralleli il cui ammontare corrisponde a circa la metà del prodotto interno lordo – permetteva la riproduzione sociale degli strati sociali medio-popolari (Kerrou, 2018), specie nelle regioni frontaliere (Meddeb, 2011), e la crescita di veri e propri cartelli del contrabbando, può considerarsi esaurita entro la critica della corruzione del partito RCD? No, se la corruzione è intesa come pratica governamentale capace di generare un processo di soggettivazione attorno ai sentimenti della protezione, dell’inclusione nel mercato e in un sistema di scambio e di privilegi cui ampie porzioni della popolazione, e non solo i funzionari del regime, erano parte integrante. In questo senso, la corruzione non era e non è oggetto solamente di una critica, ma anche di una rivendicazione. L’ambivalenza del sentimento attorno alla corruzione è del resto presente nelle rappresentazioni sulla Tunisia di oggi così come emergono dalle testimonianze di vari attori sociali coi quali mi sono confrontato.

62 Il riferimento è alla ‘politica del ventre’ di Bayart (1989).

63 Queirolo Palmas e Stagi (2017) definiscono il trabendo, forma di commercio originaria dell’Algeria ma estesa a tutto il Mediterraneo, come una configurazione di capitalismo mercantile agita da «soggetti che vivono e costruiscono la loro cittadinanza economica e culturale sul pendolarismo, unendo in sé distinte mitologie, habitus, figure: hoboes, imprenditori schumpeteriani, venditori dei bazar, dealer nelle banlieu. […] un capitalismo dei paria (p. 21)»

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Molti, anche se disoccupati, riescono ad avere il visto turistico con il denaro sporco, ar-rashwa(h). La corruzione. È un tipo di ingiustizia sociale, la corruzione. Se passi col semaforo rosso, e la polizia ti ferma, ti dicono se vuoi pagare subito irregolarmente un po' di meno, tu gli dai qualcosa e finisce lì. 10-20 dinari invece di 100 e più dinari con le cose regolari. Ci sono quelli che conoscono chi lavora in banca, alla CNSS [la previdenza sociale], ti propongono che se vuoi avere il visto turistico, e allora ti fanno i documenti, ti fanno addirittura il conto in banca! È difficile, ma possono farlo.

Con la corruzione in Tunisia tu puoi fare tutto quello che vuoi. Io conoscevo un uomo che faceva il ladro di autovetture di lusso, aveva ben tre Mercedes e altre cose... Anche se ricercato, ha pagato e corrotto più volte la polizia e può girare tranquillo, fa una vita bella, beato lui (El Mourouj 4, 24/06/2018)!

L’autore di questo stralcio di intervista, Boubakar, è un giovane trentaduenne diplomato in informatica e da anni disoccupato, originario di Tataouine e residente al El Mourouj 4, nel governorato di Ben Arous, con la sua famiglia.

La percezione ambivalente della corruzione risalta quando alla denuncia dell’ingiustizia sociale che consente a chi paga di evitare punizioni e ottenere premi immeritati si accompagna una lapidaria quanto indicativa esclamazione di invidia nei confronti di un noto delinquente, che si è arricchito col crimine ma che riesce egualmente a fare la ‘bella vita’. Un’ambivalenza di fondo che ci esorta a esplorare in profondità le economie morali (Fassin, 2009) dei giovani tunisini.

La sfera pubblica tunisina è sempre sussunta dalla discorsività (Foucault, 1971) dello Stato, non essendoci spazio per sfere pubbliche subalterne o per cittadinanze insorgenti (Holston, 1999)? La scena politica tunisina attuale ben si presta a valutare la pertinenza di nuove chiavi di lettura, così come ad allentare l’affatturazione dello sguardo etnografico dalla pregnanza dei rapporti di potere e di diseguaglianza, allargando lo spettro epistemologico delle ‘resistenze’ in una discorsività complessa (Simonicca, 2017; Ortner, 1995), contraddittoria, prodromica alla

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formazione di una soggettività capace di resistere all’addomesticamento di apparati ideologici althusseriani e immaginare nuove comunità e appartenenze (Anderson, 1991; Gupta, 1995).

Nei prossimi capitoli attenzione verrà accordata a campi sociali suscettibili di generare retoriche e pratiche la cui pensabilità non è necessariamente riconducibile allo Stato, benché in rapporto con esso. L’insegnamento maggiore che possiamo ricavare dall’apporto di Hibou all’analisi dello Stato contemporaneo in Tunisia è che questa istituzione, quand’anche ammantata di provvidenzialità e corporativismo – attraverso la cooptazione di sindacati organizzazioni della società civile (Pratt 2007), può andare incontro a una graduale quanto sorprendente perdita dell’egemonia.

Lo sviluppo economico perseguito con progetti infrastrutturali e industriali su vasta scala e la tensione modernista ravvisabile nell’elaborazione di identità nazionali, furono tratti che accomunavano le traiettorie di gran parte dei Paesi arabi appena usciti dalla stagione delle decolonizzazione. Questi elementi concorsero all’istituzione di un’egemonia pervicace, in grado di assicurare la coagulazione del consenso popolare attorno ai progetti di State building di Paesi come la Tunisia negli anni Sessanta dello scorso secolo (Statema, 2012).

Tuttavia, nei decenni successivi il consenso si incrinò, all’interno dello sfaldamento del progetto nazionalista, travolto dalla disfatta del nasserismo e dalle prime turbolenze economiche richiamate all’inizio di questo capitolo.

L’effetto domino delle Primavere arabe – al netto dei suoi esiti – proverebbe l’esistenza, secondo Lynch (2002), di un’identità politica condivisa soprattutto dalle fasce sociali giovanili, una nuova generazione cresciuta guardando al-Jazeera e le stazioni televisive satellitari del Qatar, interconnettendosi attraverso i social media e prendendo posizione su fatti politici come l’invasione americana dell’Iraq nel 2003 o l’intifada palestinese del 2000. Ne consegue che «virtualmente qualsiasi arabo, ovunque nella regione, potrebbe immaginare se stesso nei panni di quei tunisini improvvisamente mobilitati (2012:8)». Piuttosto che nascondersi dalla politica, questi giovani attori, protagonisti della stagione

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rivoluzionaria, avrebbero così per anni covato rancore e ordito la protesta che avrebbe sconvolto un’intera regione. Nelle pieghe di regimi autoritari prendevano così forma ‘spazi di non governabilità’, conseguenze non volute delle politiche liberali e liberiste, e che hanno generato eccedenze di partecipazione e capacità organizzativa (Rivetti, 2019; Haugbølle, Cavatorta, 2012).