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2. Fantasmi della gioventù, tra inquietudini e anomia sociale

2.1 Prologo

Mentre l’estate volge al termine, nel mese di settembre 2018, uno slogan risuona davanti all’ambasciata italiana a Tunisi: “Winhom âwlâdna?”, “Dove sono i nostri ragazzi?”. È scandito dalle madri dei giovani ḥarrāga, termine con cui nelle varianti maghrebine dell’arabo vengono designati coloro che emigrano ‘clandestinamente’. Queste madri, supportate dall’associazione ‘La terre pour tous’, chiedono verità in merito alla sorte dei propri figli, di cui non hanno più avuto notizie dopo la loro partenza. Più di mille persone, prevalentemente sotto la trentina d’anni, sono scomparse dopo la Rivoluzione, dirette in Europa. Non sono scomparse solo in mare. La maggior parte di loro pare sia arrivata in Europa, e lì se ne sono completamente perse le tracce. L’associazione si batte perché i governi italiano e tunisino intervengano per dare una risposta alle famiglie. In alcuni casi, i volti di questi giovani migranti sono stati visti in

1 Il brano riportato in esergo è tratto da Emna Belhaj Yahia, Sadok Boubaker, Rappresentare il Mediterraneo. Lo sguardo tunisino, Messina, Mesogea, 2003, pp. 21-22.

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televisione, nelle riprese di quelle imbarcazioni ‘fantasma’ che di tanto in tanto, ma con una frequenza cresciuta nel corso del 2018, solcano il Canale di Sicilia. Le ‘madri’ portano con sé ed esibiscono le foto dei figli dispersi, riportando storie e cronache in cui il registro della lotta al terrorismo si sovrappone a quello della bieca repressione sociale e politica. Una vera e propria violenza strutturale perseguita dallo Stato, che, secondo quanto riportato dalle madri, deterrebbe nelle patrie galere molti dei potenziali migranti, arrestati in procinto di partire, senza farli vedere alle rispettive famiglie.

I giovani disparus (mafqûdîn) non sono più degli esseri sociali. Sono andati incontro a una morte simbolica e sociale, non ci sono più. Sono al centro di una doppia assenza (Sayad, 2002) bipartita tra le due società di immigrazione e di emigrazione, benché sopravvivano e agiscano in complessi circuiti di vita ed economia informale di cui però non giungono che echi sporadici, frammentati, indiretti, opachi. La vicenda dei disparus è esemplare e insieme paradossale: nell’epoca in cui l’impatto della distanza generata dalla mobilità transnazionale pare poter essere annullata grazie alle tecnologie della comunicazione digitale (Kaufmann, 2005) e l’assenza diviene risorsa politica suscettibile di riconoscimento istituzionale (Gourir, 2018), il loro trattamento giuridico e la loro condizione sociale richiede un affinamento delle categorie analitiche e interpretative. Se l’assenza non è solo il contrario di ‘presenza’ ma «un’istituzione di senso che definisce un sistema di luoghi e modalità relazionali tra i membri geograficamente lontani di una data comunità (De Gourcy, 2018)», l’assente è una figura mediana tra lo ‘straniero’ e lo ‘scomparso’, che mantiene dei legami col gruppo di origine al fine di non maturare la sua ‘estraneità’ nei confronti di quell’appartenenza, e non essere così considerato svanito, sparito. Non è evidentemente questo il caso dei giovani ḥarrāga tunisini scomparsi nel Mediterraneo, di cui la società di origine non ha più notizie e si ritrova costretta ad elaborarne un’assenza oramai costitutiva.

Si tratta di una partita in cui a figurare c’è anche lo Stato italiano, che non dà risposte circa i giovani tunisini arrivati sulle coste italiane tra il 2008 e il 2011, e l’Unione Europea.

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Oltre a brandire le foto dei volti dei giovani figli scomparsi, le madri portano con sé dei grossi fogli, su cui è appuntato l’elenco dei ragazzi divenuti invisibili, con tanto di luoghi di nascita, situati principalmente nella Grand Tunis.

È la nullificazione di intere generazioni; giovani individui che improvvisamente spariscono dalle loro comunità, portando via con sé l’idea stessa di futuro. Tuttavia, quelle stesse comunità partecipano alla messa a punto del progetto migratorio, in particolare le famiglie dei partenti, che investono in un’economia dell’assenza (Mabrouk, 2012) fatta dell’attivazione di reti sociali e forme di solidarietà affinché il percorso migratorio possa generare mobilità sociale e arricchimento generalizzato (Smida, 2013).

Molti di questi giovani potenziali migranti sono in prigione con l’accusa di emigrazione clandestina ma anche di terrorismo, come mi dice la madre di un ragazzo arrestato a Siliana nell’ambito di oscure operazioni militari. Imed Soltani è il presidente di La terre pour tous. Cinquantenne, ha un’officina di riparazione di ciclomotori, dove lo incontrai la prima volta dopo averlo contattato attraverso la sua pagina Facebook, nel quartiere popolare di Bab Jdida, adagiato sulla parte meridionale della medina di Tunisi.

Imed è toccato personalmente dal problema dell’emigrazione, e non solo perché ha un figlio ventenne che è attratto dall’idea di partire. I suoi due nipoti, figli della sorella, sono anch’essi partiti per l’Italia e poi dispersi. Mi dice che a Tunisi non c’è ragazzo che non coltivi l’idea di partire e che ha dovuto più volte far desistere svariati giovani dalla messa in pratica dell’harqa2.

Recatosi nel 2012 presso il ministero degli interni per sollecitare un intervento in merito ai due nipoti dispersi, lì ha scoperto di non essere solo, ma di condividere la medesima inquietudine con altre famiglie angosciate. Nel 2012 partecipò, insieme ad altre cinque famiglie tunisine, a un viaggio in Italia volto a realizzare una ricerca dei giovani dispersi. In quell’occasione, ospite del consolato tunisino di Palermo, la delegazione

2 Harqa è, in arabo maghrebino, la migrazione ‘clandestina’, perseguita dagli ḥarrāga, con cui si indicano anche i facilitatori dell’emigrazione. Un approfondimento sarà contenuto nel prossimo capitolo.

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visitò i centri di accoglienza della regione siciliana, tentando di ritrovare i giovani disparus mostrandone i volti agli ospiti delle strutture di accoglienza, fino a quando il consolato non decise che la ricognizione doveva terminare. Imed e gli altri si ritrovarono così per strada, ma non per questo scelsero di rientrare in Tunisia. Manifestarono per giorni di fronte alla sede consolare, incassando la solidarietà di organizzazioni solidali ed esponenti della società civile italiana, con cui da allora vengono condotte in sinergia campagne e mobilitazioni.

L’associazione esercita pressione politica sul tema degli ḥarrāga e sensibilizza la cittadinanza tunisina al riguardo. Secondo Imed è il sistema politico a produrre gli ḥarrāga, attraverso l’asimmetria nel capitale di mobilità che rende possibile ad alcuni di andare via dal proprio Paese e ad altri no. A suo dire i veri passeurs, le ambigue figure mediane che facilitano gli ḥarrāga a partire e a cui nella semplicistica e strabica retorica politica dominante viene attribuita la responsabilità dell’ingente migrazione giovanile degli ultimi anni, sono proprio i politici del cursus post-rivoluzionario.

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Nel 2017 in Tunisia inizia a imporsi un tema scottante: quello del rientro dei giovani jiahdisti da Siria (principalmente) e Libia, dove si sono uniti al Daesh, il cosiddetto Stato Islamico. Lo Stato tunisino è chiamato a scegliere tra il respingimento e la clemenza, l’accoglienza. A Tunisi numerose sono le manifestazioni pubbliche contro il rientro dei ‘figli’ che hanno abbracciato le sirene dell’Isis. Ma anche chi manifesta nutre dei dubbi difficilmente dissipabili. Arbi Ben Abdallah, insegnante di lingua inglese in diversi centri di formazione professionale di Tunisi, ne condivideva alcuni con me durante uno degli svariati incontri in cui discutevamo di educazione e gioventù.

Quei ragazzi sono il prodotto della nostra società, sono figli di questo mondo malato, possiamo girarci dietro e non accogliere i figli? No. Ma è garantito un controllo, un recupero di questi soggetti? Gli sarà impedito di frequentare moschee, di andare incontro nuovamente a cattive frequentazioni (Tunisi, 11/02/2017)?

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Se Arbi serbava qualche esitazione, numerosi coetanei di quei combattenti pentiti erano contrari al loro reintegro nella società, come si evince da questa breve testimonianza estrapolata da una intervista a Bilel, trentunenne originario di Kairouan, in cerca di occupazione dopo aver conseguito un diploma in climatizzazione presso un centro di formazione professionale della capitale – già incontrato nel capitolo precedente.

Se tornano sono delle bombe a orologeria. Alla prima occasione attaccheranno. Per questo sono contrario al loro rientro. [...] I musulmani non hanno un Paese proprio cui appartengono. Piuttosto, hanno un’idea. Per questo non vogliono liberare la Palestina; il loro obiettivo non è la terra, è la moschea El Aqsa di Gerusalemme (Tunisi, 16/02/2017).

Ho deciso di avviare questo capitolo con due quadri etnografici emergenti dalla raccolta del materiale di campo, che ritengo contengano dei tratti strutturali rivelatori del trattamento culturale e politico cui la categoria analitica e al contempo sociale della gioventù è sottoposta nella Tunisia contemporanea.

I giovani sono dei significanti complessi, che recano insieme le inquietudini del presente, gli errori del passato, le previsioni sul futuro, vecchie speranze e nuove sfide (Comoraff, Comaroff, 2000). Categorie dell’immaginario – e dell’immaginazione – popolare, il trattamento politico e culturale che ricevono è particolarmente indicativo degli assetti storico-culturali di una determinata collettività. Subito dopo la Rivoluzione, i giovani tunisini sono stati oggetto di una mitizzazione dalle frequenti connotazioni martirologiche: celebrati dalla stampa di tutto il mondo e cooptati, laddove possibile, nel nuovo corpo istituzionale (Honwana, 2013) per legittimare il corso post-rivoluzionario, come toccò alla cyber attivista Lina Ben Mhenni. A ben vedere, si trattava già allora di una predilezione per una determinata categoria di giovani, espressione della middle class urbana, istruita e digitalizzata.

In pochi anni, parallelamente alla disaffezione di gran parte dei giovani tunisini alla vita politica formale del Paese e alla diffusione di un risentimento legato alla riappropriazione della Rivoluzione da parte delle

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vecchie élite, il trattamento culturale della gioventù tunisina è mutato di segno.

La minaccia di cui essa diviene portatrice oscilla tra una declinazione delinquenziale e generatrice di disordine nei periodici sollevamenti delle regioni interne martoriate dal sottosviluppo e un’altra di coloritura terrorista e jihadista, evincibile dall’allarmante dato che riporta come circa seimila tunisini avrebbero abbandonato il Paese del gelsomino per recarsi in Siria o in Iraq3. Non che l’affiliazione all’Isis non costituisca un problema politico o sociale, peraltro degno di ricevere attenzione scientifica, dato che in quasi tutti gli incontri etnografici della mia ricerca emergeva la conoscenza da parte dei miei interlocutori di un ragazzo partito quasi improvvisamente per la Siria o la Libia e lì morto, lontano dai suoi cari. Chiamati a interrogarsi su come sia stato possibile abbandonare di punto in bianco la propria terra, il bled [dall’arabo blâd, terra] natio, e abbracciare forme totalizzanti di religiosità, così si esprimevano alcuni miei conoscenti:

Donia: Gli vengono insegnate quelle cose [relative al jihâd]. C'è chi si rivolge a loro... Avevo un cugino che è andato in Siria ed è morto, e non c'è nemmeno il suo cadavere... Prima era così aperto nella sua mente, ballava... Era di Gafsa anche lui. Poi è cambiato a 360 gradi. Forse gli hanno insegnato queste cose (Manouba, 23/11/2016) ...

Hichem: Io avevo un vicino, un ragazzo che è partito per la Siria. Era pazzo. È pazzo. Anche lì, l'obiettivo di unirsi al Daesh è avere del denaro. Uccidere i bambini, gli altri, non è l'Islam… I giovani che lo hanno fatto non hanno seguito l'islam... La verità è che l’hanno fatto unicamente per il denaro (Tunisi, 18/11/2016) ...

Karim: Per me non è questo il problema, se tornano o no. Il problema è capire perché sono divenuti terroristi. Non è una scelta il terrorismo. Non è una moda. Non ti svegli una mattina e dici di essere terrorista. È una cosa che ha a che fare con l’educazione. In facoltà ho conosciuto dei ragazzi che sono partiti per la Siria. Erano giovani creativi, che volevano vivere, volevano le ragazze, perché sono divenuti terroristi? La ragione qual è? È un crimine dello Stato, che ha trasformato

35500 Tunisiens combattraient aux côtés des djihadistes selon l'ONU, https://francais.rt.com/international/4181-

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i tunisini in terroristi. Prima di Ben Ali, Bourguiba ha deciso di distruggere le risorse del vero islam. La moschea Zytouna, per esempio era l'università del vero islam, niente a che vedere col terrorismo. Bourguiba voleva comandare da solo la Tunisia. Ha prodotto una mancanza di religione nella società. Le persone si sono allontanate dalla religione. Ben Ali ha fatto la stessa cosa. C'era un bisogno del sapere, nel campo religioso. Le persone, giovani soprattutto, si sono rivolte alla televisione. Ai canali satellitari. E hanno scoperto l'islam wahabita, jihadista. Questo ha distrutto la Tunisia, fino a oggi. Per questo ci sono i terroristi (Tunisi, 16/02/2017).

La ricettività dei giovani alle sirene incantatorie del califfato islamico non viene generalmente negata dai miei interlocutori; tutt’al più i terroristi asserragliati sulla dorsale montuosa al confine con l’Algeria o che partono verso la Siria e la Libia vengono privati della comune identità e appartenenza nazionale4: “Non sono tunisini, loro” è un avvertimento assai ricorrente quando in svariate conversazioni si tocca questo ambito. È semmai la percezione del fenomeno a differire, dato che il terrorismo non viene unanimemente considerato un vero e proprio problema, diversamente dal registro emergenziale con cui esso viene trattato in occidente:

Conosci delle persone che sono andate in Siria?

Sì, due persone forse, non di più. Non li conosco che per il nome. Ma non penso che sia un problema. Penso ci siano altre preoccupazioni: il lavoro, la disoccupazione. Ci sono molte persone che sono partite dopo la Rivoluzione. Dopo, le partenze sono diminuite […] Voi europei siete ossessionati dalla nostra religione, pensate che tutti gli arabi siano dei matti che mettono la religione al primo posto. Tu parli di religione, di Daesh, ma io parlo della miseria, della povertà, del fatto che mi sveglio in un quartiere con la strada di sabbia, sporco, invaso dall’acqua della fogna, e resto una giornata senza lavoro perché qui non c’è futuro (Ben Arous, 11/11/2016)…

A richiamare la mia intenzione sono in particolar modo queste ultime parole, le sole pronunciate durante da un giovane studente di un centro di

4 L’area del monte Chambi, la vetta più alta del Paese, è oggetto dal 2012 di continue e sanguinose operazioni militari che l’esercito tunisino conduce contro formazioni jihadiste lì arroccate – tra cui Anṣâr al-Sharî‘ah e Al Qaeda nel Maghreb islamico.

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formazione professionale privato di Tunisi, Habib, durante un focus group nel quale sono stato presentato agli allievi del primo anno di corso in ‘climatizzazione’ e ho potuto prendere i contatti con cui organizzare gli incontri etnografici successivi. Oltre alle frasi riportate, si/mi chiedeva cosa volessero concretamente indicare concetti come ‘terrorismo’ o ‘democrazia’, e chi avesse il potere di determinare il loro significato, a sottolineare dunque l’assenza di univocità nella definizione del terrorismo.

Il rimprovero indirizzato al ricercatore tocca un nervo scoperto della coscienza antropologica che dall’ultimo quarto dello scorso secolo è stata spazzata in lungo e in largo da venti di riflessività epistemologica e metodologica. Non avrà ragione Habib a sostenere che l’ipertrofica attenzione al religioso, specie nelle sue varianti fondamentaliste o vagamente morbose, è il segno perverso della predilezione occidentale per quelle metonimie teoretiche (Abu-Loghud, 1989) che riconducono forzatamente tutto all’islam? Ci muoviamo nella direzione dell’immaginazione etnografica di età coloniale presente ad esempio in Edward Westermarck (1926), per il quale la dimensione sovrannaturale impregnava la società maghrebina (e marocchina in particolare) al punto che i segni del divino erano ovunque e continuamente colti dalle comunità locali?

Questa digressione sul Daesh non si propone di amplificare la risonanza di un’emorragia del giovane corpo sociale tunisino che, per quanto reale, pare al momento essersi arrestata. Né il discorso sullo Stato Islamico di Siria e Iraq può fagocitare indistintamente ogni ragionamento su forme di religiosità le quali, pur radicali nelle loro premesse ed espressioni, come il salafismo, mantengono un’attitudine quietista e ben distinta dal jihadismo.

Molto è stato detto sui giovani jihadisti (Migotto, Miretti 2018; Roy, 2017), e anche i discorsi dei miei interlocutori tunisini assumevano sovente una curvatura ermeneutica allorquando provavano a interpretare le scelte mortifere dei loro coetanei. Del resto, tanti “amici d’infanzia”, con cui si giocava alla playstation da piccoli, sono partiti per Libia e Siria senza più tornare.

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Rached, giovane salafita di Ben Arous, sulla trentina e tecnico informatico presso un’azienda di trasporti, del quale approfondiremo la conoscenza nei prossimi capitoli, citava la storia di un amico il cui padre aveva passato venti anni in carcere durante il regime di Ben Ali, dato che si era rifiutato di far parte della sua guardia personale. Uscito dal carcere, era morto quasi subito. Il figlio si è recentemente unito al Daesh, trovando la morte quasi subito dopo l’arrivo in Siria.

L’aneddoto serviva a concepire un quadro esplicativo del terrorismo nel quale un peso considerevole è giocato da chi, specie attraverso i canali satellitari, chiamava i ragazzi tunisini a unirsi all’ISIS, ‘valorizzando’ – questo il verbo impiegato – dei giovani altrimenti ridotti a niente, nullificati.

Nel febbraio del 2017, la stampa italiana riporta che la famiglia di Anis Amri, l’autore dell’attentato ai mercatini di Natale di Berlino del dicembre del 2016, ha chiesto sedici volte la restituzione della salma del giovane stragista tunisino, ucciso dalla polizia italiana a Sesto San Giovanni, mentre era in fuga5. Per sedici volte, la richiesta di rimpatrio della salma

non ha avuto risposte, né dal ministero degli esteri tunisino, né dal governo italiano. Questa notizia di cronaca mi pare emblematica circa i silenzi, le omissioni e le ambivalenze attorno allo statuto e alle percezioni sociali sui ‘giovani’. L’emigrazione in Italia, Lampedusa, la detenzione in carcere – comune a tanti tunisini – portatrice di radicalizzazione, la strage: Anis Amri è un figlio diseredato della sua nazione, titolare di una cittadinanza negata fino all’ultimo dal suo Paese che alle autorità tedesche che volevano espellere il terrorista ‘in potenza’, opportunamente segnalato dai servizi di sicurezza, ha negato fino al giorno della strage di Berlino che Amri fosse cittadino tunisino. Una negazione strategica, certo, volta a evitare una ‘gatta da pelare’ in casa, ma che tradisce la stigmatizzazione e il rapporto di reciproco disconoscimento tra Stato e un materiale umano trattato mediante il registro dell’indifferenza se non della piena negazione dell’appartenenza politica. Un vuoto che la famiglia di Anis prova a colmare attraverso il ricorso al ‘lavaggio del cervello’ che il

5 Strage di Berlino, la famiglia di Amri reclama il corpo dell’attentatore, cfr. https://www.repubblica.it/esteri/2017/02/16/news/strage_berlino_amri_famiglia_corpo-158480663/?ref=HREC1-6

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ragazzo avrebbe subito prima di lanciarsi nel delirio terrorista, in modo da operare una parziale riabilitazione del giovane: il “figlio” e “fratello” – con queste parole lo definisce la famiglia – non è l’attentatore ma un giovane corrotto da cattivi maestri che ne hanno alterato tragicamente l’identità.

L’adesione al demone califfale su cui ci si è attardati in queste pagine è il fantasma più inquietante per il quale passa con maggiore nettezza l’attuale mostrificazione dei giovani in Tunisia.

Ma cosa intendiamo quando parliamo di giovani? Qual è l’inevitabile e sottesa operazione di découpage, in cui potere e sapere articolano la loro connessione più intima (e forse inconsapevole), attorno alla produzione della categoria di ‘gioventù’ (Farag, 2007)?

Nella paradigmatica trattazione di Pierre Bourdieu (1992), la frontiera tra gioventù e vecchiaia è il terreno di una lotta simbolica e politica per la definizione di un ordine sociale in cui l’accesso al potere sia regolamentato e guidato dalla classe dirigente. ‘Giovane’, ammonisce Bourdieu, non è che una parola. Ogni divisione in classi di età o in generazioni è una manipolazione, e l’evidenza biologica attorno alla quale ‘gioventù’ e ‘vecchiaia’ traggono la propria legittimità è una condizione necessaria ma non sufficiente alla loro perpetuazione, trattandosi di complessi costrutti sociali.

Bourdieu non solo ci ricorda come l’età sia un dato biologico socialmente manipolato e manipolabile, ma avvisa che rappresentare la gioventù in termini di gruppo sociale dagli interessi comuni evidentemente legati al dato anagrafico costituisce di per sé una lampante manipolazione.