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2. Fantasmi della gioventù, tra inquietudini e anomia sociale

2.3 In cerca di categorie

Urbanizzati, esposti ai messaggi dei nuovi media e istruiti, il rapporto tra giovani ‘arabi’ e cambiamento sociale costituisce senz’altro una delle prospettive di ricerca privilegiate da un’ampia schiera di studiosi e osservatori. Una parte cospicua di questa letteratura (Davis, Davis 1989; Al Tawila, Wassef, Ibrahim, 2001) concorda nel postulare l’inevitabilità del conflitto tra generazioni, dato che la rapidità dei mutamenti sociali e la differenza culturale ed educativa tra ‘genitori’ e ‘figli’ generano malessere identitario, stress, autonomizzazione del giovane individuo contro le strutture sociali imperanti. Tuttavia, a proposito di quest’ultimo punto, numerosi sono gli inviti alla cautela da parte di autori che suggeriscono di collocare la cosiddetta ‘individuazione’ dei soggetti giovani delle società arabe entro strutture, dispositivi e quadri di socializzazione ben definiti, espressione di trame normative ampiamente collaudate entro la/le comunità di appartenenza (Farag, 2007).

Il nodo critico pare essere l’attribuzione di un ruolo necessariamente trasformativo ai giovani. Seguendo Asef Bayat (2010 b), è evidente che ampi segmenti giovanili, in ogni società, possono essere accostati al conservatorismo politico e al conformismo morale. Le persone in età giovanile divengono ‘gioventù’ – intesa come categoria sociale – quando assumono una postura riflessiva sui caratteri cognitivi e comportamentali dell’‘essere giovani’, rivendicando e difendendo quella specifica stagione situata tra l’infanzia e l’età adulta in cui si sperimenta una relativa autonomia dagli adulti e un certo grado di irresponsabilità15.

Tuttavia, non va sottovalutata la capacità con cui i giovani provano a trarre vantaggio da norme e codici culturali prevalenti, di cui si riappropriano. Si pensi al matrimonio orfi (informale), non del tutto illegittimo per la religione – benché l’istituzione di al-Azhar lo abbia formalmente proibito – ma privo di validità legale, dato che viene contratto in segreto (Abaza,

15 Ma associare la gioventù all’irresponsabilità sociale e politica non rivela un larvato etnocentrismo o rinvia a universali transculturali?

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2001). In questo modo, i giovani ricorrono a un’istituzione ‘tradizionale’ per attivare scenari di sessualità e romanticismo non perseguibili per via dei vincoli politici ed economici che ricadono sul matrimonio formale. Il matrimonio consuetudinario orfi in Tunisia, dove contravviene al matrimonio civile, è ritornato ad essere praticato già alcuni anni prima della Rivoluzione (Kilani, 2014). Se la sua utilizzazione pare preminente negli ambienti studenteschi, la ragione del suo ritorno in auge risiede nella sua «praticità, per facilitare e accelerare i matrimoni, ma sempre di più anche per eludere la questione dell’astinenza sessuale conferendo un carattere halâl a questo tipo di relazioni (Ivi: 236)». Il dibattito sul matrimonio orfi è esploso in Tunisia negli anni della transizione post- rivoluzionaria, tra un’inaspettata reviviscenza religiosa (salafismo compreso) da un lato e, dall’altro, le voci insistenti relative a una jihâd

ennikah (jihâd del sesso, da al-nikâḥ, contratto di matrimonio) in cui

sarebbero state coinvolte giovani tunisine inviate in Siria a concedersi ai combattenti jihadisti.

Quale che sia l’interpretazione adottata in merito all’attitudine contestataria o conservatrice della gioventù, non è più proponibile, oggi, allontanare lo spettro della crisi o del conflitto da contesti un tempo incatenati, dall’analisi e dal pensiero comune, alla ‘santa trilogia’ di famiglia, scuola e società (Mahmoud, 1995), deputata al mantenimento dell’ordine e al rispetto dell’autorità (in primis quella parentale).

Certo, già dagli anni Ottanta in Tunisia studiosi come Abdelkader Zghal (1984) rilevavano la perdita dei riferimenti simbolici sino ad allora più solidi, come l’autorità parentale. La mistificazione della madre si accompagnerebbe a una periferizzazione del padre, all’interno di una flessibilizzazione dei ruoli sessuali in cui la figura paterna arriva a essere sospettata di perturbare il processo di identificazione maschile dei figli16. Senza dover necessariamente ricorrere all’espulsione del tema della paternità operata dall’edificio dottrinale dell’Islam (Benslama, 2004), è

16 Ma l’ambiguità dei ruoli parentali e sessuali è davvero un fatto contemporaneo? Forse che l’immaginario maghrebino dei racconti orali per bambini (i khurrâfat), ben diverso da quello selezionato dalla tradizione orientalistica, non trasuda di madri falliche e potenti capaci di proteggere i figli respingendo l’assalto di padri-orchi ridicolizzati, devalorizzati, demascolinizzati (Boudhiba, 1994)?

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comunque certo che vari autori ravvisano nelle attuali strutture familiari tunisine una sostanziale assenza del padre (Ben Ismail, 2018), effetto di una crisi del paradigma ‘classico’ di autorità intimamente legata, peraltro, alla crisi di autorità dello Stato post-coloniale (Kerrou, 2017).

E tuttavia, le cautele e le precauzioni dovute al carattere storico-politico e relazione della definizione di ‘gioventù’ non devono condurre a una sorta di ‘ipocondria epistemologica’ (Geertz, 2010) che paralizzerebbe l’analisi e la sua portata euristica. Preso atto della sua variabilità storico-culturale e della sua eterogeneità interna, la ‘gioventù’ può comunque assurgere a utile categoria di analisi, avente una certo livello di realtà sociologica. Nel presente lavoro ci si è dedicati a giovani uomini tunisini, confluenti in un’ampia fascia anagrafica tra i 19 e i 35 anni, nei quali il posizionamento intermedio tra l’età dell’infanzia e l’età adulta – e dunque tra i due poli dello spettro ‘indipendenza’-‘responsabilità’ – genera una certa coscienza generazionale, alla cui produzione concorrono senz’altro esperienze e sensibilità comuni (dagli effetti dell’istruzione di massa e dei

new media all’esperienza del prolungamento forzato – o ‘stallo’ – della

condizione giovanile).

Si tratta, a ben vedere, di una gioventù le cui visioni culturali su ruoli, obbligazioni e diritti si nutrono di ben precise aspettative sociali, e la cui cornice preminente è senz’altro quella della waithood (Honwana, 2012), ovvero un periodo di sospensione in cui i giovani sono incapaci di raggiungere i marcatori sociali dell’età adulta – cioè impiego stabile, matrimonio, sussistenza – e contribuire alla riproduzione sociale in quanto pieni cittadini. In questo limbo, i giovani tunisini non sono né ‘questo’ né ‘quello’; né bambini bisognosi di cure né adulti in grado di assumersi delle responsabilità sociali.

Badiamo bene che siamo in presenza di una condizione a tutti gli effetti paradossale vissuta da un’ampia parte di giovani tunisini. Non riuscire ad accedere all’età adulta comporta allo stesso tempo l’impossibilità di vivere pienamente la condizione giovanile di cui, come emerge dalle testimonianze raccolte nel corso della ricerca, a protrarsi non è tanto la spensierata creazione di spazi sociali e (sub)culturali autonomi, quanto l’assenza di indipendenza economica, l’accesso a istituti che normano e

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regolarizzano il rapporto con il genere femminile (matrimonio, famiglia), l’aspirazione al prestigio e al riconoscimento sociale.

I giovani tunisini fanno la stessa esperienza della modernità comune ai loro coetanei di tutto il pianeta, benché questa esperienza si situi in contesto di incertezza economica ed esistenziale crescenti e sorveglianza e/o censura da parte di apparati repressivi e securitari nazionali. Le istanze di libertà individuale e ‘apertura’ sul mondo, supposti tratti culturali della cosiddetta cultura cosmopolita globale, non trascendono le relazioni sociali precisamente situate in rapporto a status e posizioni economiche (Friedman, 2004). In poche parole, la mobilità culturale – e geografica – di cui tutti i miei interlocutori tunisini fanno esperienza si colloca sullo sfondo di un’imprescindibile dimensione ‘locale’ e di classe, dai riferimenti identitari tutt’altro che liquidi. Del resto, Zygmunt Bauman (2001) ha ampiamente sostenuto come i ripiegamenti identitari non rappresentino la negazione della mondializzazione ma anzi ne costituiscano il corollario inevitabile.