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2. Fantasmi della gioventù, tra inquietudini e anomia sociale

2.5 Faccia chiusa

In tema di gioventù globale, emblematico è il caso di Abdelaziz (per gli amici Abdel), mio interlocutore privilegiato durante la ricerca, col quale ho costruito un rapporto intenso e di qualità, sconfinante in una sincera amicizia etnografica.

Ventottenne di Ben Arous, ho conosciuto Abdelaziz quando aveva da poco iniziato un corso di formazione professionale in climatizzazione, nel medesimo governatorato. Da subito disponibile ad aprirsi, sia in occasione di interviste etnografiche che di vari incontri realizzati durante il lavoro sul campo, la storia di Abdelaziz non è molto diversa da quella di tanti altri che, come lui, scelgono la formazione professionale non per vocazione ma in seguito a un fallimento al BAC, che comporta l’impossibilità di proseguire l’istruzione superiore.

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Non ho ripetuto il BAC, dopo averlo 'cassato', perché non avevo più l'età, ero troppo adulto... Ora ho 24 anni. Avrei potuto ancora passarlo o non passarlo. Era un rischio, per il futuro (Tunisi, 18/11/2016).

Chitarrista e fisarmonicista, amante del genere blues, di cui indossa il caratteristico cappello durante le esecuzioni musicali, scrive testi in inglese e subisce anch’egli, al pari di tanti suoi coetanei, la fascinazione incondizionata di un’altrove in cui trascorrere la sua vita. Va quasi ogni giorno in palestra, e cura molto il suo aspetto fisico.

Brillante nella padronanza dell’inglese e del francese, un po’ meno dell’arabo classico, al cui esame ha riportato qualche difficoltà al centro di formazione professionale, ha lavorato in call center francesi impiantati in Tunisia. Qui poteva arrivare a guadagnare 700 dinari in nero se ogni giorno stipulava un contratto e se aveva successo nel convincere i clienti belgi a cambiare fornitore di servizi di gas e elettricità.

Il suo nome di battaglia (di ‘commercio’) era Samuel, nome proprio cui l’utenza francese – a dire di Abdelaziz – attribuisce un’identità italiana, il che gli è utile dato che si evince facilmente che lui non è veramente francese. Per questo preferisce fingersi un italiano che parla il francese. Non vuole pesare sulla famiglia, anche perché la madre non lavora (e le mancano tre anni per ricevere la piena pensione, altrimenti questa sarà decurtata). Non appena ha ricevuto 450 dinari di stipendio ha comprato qualche vestito ed ha festeggiato a Gammarth, località chic nei pressi di Cartagine, in discoteca.

L’ultima volta che ho incontrato Abdel, durante l’ultima fase della ricerca, era molto cupo. Ha trovato un nuovo lavoro a Rades, e lavora come tecnico in una società di climatizzazione. Ha inviato il curriculum e l’hanno assoldato. Guadagna 450 dinari al mese e lavora tutti i giorni dalle 8 di mattina fino alle 18, ma gli capita di dover continuare fino alle 23. Ancora non ha un contratto stabile.

Anche per questo motivo lui è ossessionato dall’idea di recarsi in Europa o in Canada. Dice che dovrà trovare il modo di inviare curriculum altrove. “Qui non posso vivere”, sosteneva perentorio. “Devo andare via di qui”. Al punto che affermava di dover iniziare anche lui a occuparsi di avviare le pratiche per il visto, come se fosse arrivato il momento di accendere

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quella piccola eventualità che finora aveva provato a tenere lontana dal suo percorso ma che inesorabilmente arriva per tutti. Più che il dato economico a infastidirlo è che lavora tutto il giorno e non ha più il tempo di suonare o di fare altro. Il lavoro in Tunisia c’è: dice in dialetto tunisino che el khedma mawjouda (in arabo al-ḵadma mawğuda, “ce n’è di lavoro). Il problema è che è sottopagato.

La prima volta che mi ero recato a casa di Abdel, ricordo di averne ricavato un’impressione più che positiva, in particolare dello splendido salone marocchino. Anche l’organizzazione della vita domestica mi sembrava incarnare perfettamente il ceto medio tunisino. La madre tornava a casa dal lavoro (era segreteria in un’azienda a Tunisi) per mangiare e poi rientrava in ufficio al pomeriggio, a differenza di padre e fratello – di un anno più grande di lui – che mangiano al lavoro per tornare a casa direttamente a sera. C’era anche la donna di servizio, un’amica di famiglia. La casa era del nonno paterno, originario del Sahel tunisino, che ha lasciato la casa ai tre figli. Il padre di Abdel l’ha ereditata interamente, pagando ai fratelli le loro parti di quota. Oggi cugini e zii vivono a La Marsa e a Nabeul. La famiglia della madre invece è originaria di Fez, da dove lei si è trasferita quando era ventenne circa.

Il salone è la parte di accesso alla casa, che media tra l’esterno e il resto della casa, dove ci sono le stanze dei componenti della famiglia. C’è il divano disposto a circolo, con il Corano appoggiato su un leggio, e rappresentazioni di musicisti gnawa sulle pareti.

Nei mesi successivi, avrei trovato la casa di Abdel meno ordinata del solito. La pioggia arrivava ad allagare molte stanze, e ovunque regnavano trasandatezza e disordine. Scoprii ben presto il motivo di questo cambiamento: la madre di Abdel aveva perso lavoro, e la famiglia non poteva più permettersi la donna di servizio.

Riporto un estratto dal diario di campo, relativo alla mia prima visita a casa di Abdelaz.

La stanza di Abdel è essenziale ma accogliente. Oltre a chitarre e fisarmoniche, ad attirare la mia attenzione sono tre oggetti, appesi al muro l’uno accanto all’altro: un cappello da bluesman, con cui Abdel suona l’armonica e la chitarra e

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un cappello in paglia molto simile al tradizionale ‘mdhalla, appartenuto al nonno, di cui è appeso anche il bastone. Un arco temporale che attraversa più generazioni, condensato nella cultura materiale dell’artigianato locale e nei consumi culturali globali.

Mi chiedo subito cosa accadrà se i giovani dei ceti medi non potranno emanciparsi dalle condizioni di vita dei loro genitori o dei nonni, che sono arrivati in una desolata terra come quella di Ben Arous decenni e decenni fa, quando di case ve n’erano poche. Il richiamo a quella storia di fatica può risultare accettabile a livello simbolico e immaginifico, come testimonia la parete della stanza di Abdel, ma non quando si paleserà la necessità di reiterare quel destino materiale. Noto anche un poster affisso alla parete, su cui viene tratteggiato il suo futuro prossimo: “Lasciare la Tunisia” è il titolo che campeggia centrale.

A sinistra, una colonna riguardante il Canada, con indicati i passaggi da intraprendere (acquisire informazioni; contattare l’ufficio canadese di Tunisi per l’immigrazione, ecc.). A destra, la strada più semplice del Marocco, di cui è originaria la famiglia della madre, e in cui potrebbe recarsi approfittando di un sostegno logistico non indifferente (Ben Arous, 30/03/2017).

Lasciare la Tunisia è l’obiettivo ultimo di questo giovane della classe media: il poster in camera sua gli ricorda tutti i giorni che ciò che costruisce nel suo Paese è volto ad assicurargli un futuro fuori da quel contesto. Questo sentimento pervasivo dell’altrove, come vedremo, si carica di una critica sovversiva al ‘qui’ (Fouquet, 2007), sebbene non germini nella costruzione di un’alternativa politica esplicita.

Il cosmopolitismo che anima la sua traiettoria esistenziale, a ben vedere, è la matrice di una cittadinanza che non può non definirsi subalterna. Un’espressione cui Abdel ricorreva spesso quando parlavamo di futuro era ‘Msakkra fi wejhu’, che vuol dire letteralmente ‘la mia faccia è chiusa’, a indicare il non avere possibilità di riuscita quando le strade sono tutte bloccate. Un’espressione che ben si adatta ai giovani tunisini nelle loro immagini del futuro.