• Non ci sono risultati.

Rivoluzione o transizione democratica?

1. Prima e dopo la Rivoluzione, la Tunisia (neo)liberale

1.4 Rivoluzione o transizione democratica?

Categorizzare, denominare, identificare persone, luoghi ed eventi costituiscono operazioni necessarie a una messa in ordine del reale (Candau, 2002) eppure rischiose, dal momento che il gioco di rimandi, uniformità e differenziazioni che le caratterizza altro non sono che procedure, esplicite o inconsapevoli, di delimitazione del discorso – scientifico – e di messa in opera del sapere, fino a esondare nella cristallizzazione di regimi di verità (Foucault, 2004).

Il processo politico che è sfociato nella conclusione del regime di Ben Ali, in piedi per ben ventitré anni, implica realmente la decomposizione di un’economia politica e morale incistata in tutti gli ingranaggi dell’organizzazione sociale, tanto nello spazio pubblico quanto in quello privato (Hibou, 2011)? In poche parole, a venir meno è stato il regime o il sistema? Come ricorda Mohamed Kerrou (2018 a), il vocabolo arabo – di origine turco-persiana – nidhâm, presente nello slogan fragorosamente risuonato nelle fasi centrali del moto rivoluzionario tunisino, ash-shaʻb

yurīd isqâṭ al-nidhâm (“il popolo vuole la caduta del regime”) detiene un

ampio spettro semantico che comprende tanto il significato di ‘regime’ quanto quello di ‘sistema’. Qual era l’obiettivo di un movimento sociale tanto efficace nel dar rapidamente vita ad alleanze tra diversi gruppi sociali ed economici – prodromi di una contro-egemonia – quanto caduco

62

di fronte allo scenario complesso e, per certi versi, deprimente della transizione post-rivoluzionaria?

La scelta terminologica è, in questo caso, quanto mai dirimente. Già all’indomani della liberazione da Ben Ali – scandita dalla creativa ingiunzione rivolta al dittatore, dégage, riappropriazione linguistica popolare ‘francoaraba’ (Dakhlia, 2011; Jerad, 2011) –, Annamaria Rivera (2012) si chiedeva se fosse idoneo applicare al contesto tunisino un concetto – quello di Rivoluzione – che, nella sua genealogia storico- culturale occidentale – implica necessariamente le fasi dell’autogoverno e dello smantellamento di tutte le istituzioni preesistenti, condizioni che in Tunisia non si sono certo verificate. Un bilancio sul momento rivoluzionario e sulla complessa transizione democratica susseguente non può che dipanarsi tra continuità e discontinuità rispetto al recente passato (Cavatorta, 2015): da una parte, come verrà approfondito oltre con maggior dovizia, la rivolta ha permesso l’emergenza di un inedito regime di soggettività, connesso a una nuova condizione di esperienza della cittadinanza politica. D’altro canto, si sarebbe tentati di ricomprendere i passaggi successivi alla caduta di Ben Ali sotto la griglia analitica concepita da Max Gluckman (1977) nella sua trattazione del conflitto e dell’equilibrio presenti nelle dinamiche politiche delle società africane del XX secolo. In particolar modo, l’avvicendamento tra Ben Ali e il suo ex primo ministro Mohamed Gannouchi, all’interno di un gabinetto in cui erano compresi dodici membri dell’RCD – il Rassemblement

Constitutionnel Démocratique, il partito al potere sino al 2011 e attorno

alla cui struttura orbitava l’intera complessa economia politica della dominazione (Hibou, 2011 b) –, così come la difficoltà ad avviare un autentico processo di democratizzazione (Allal, Geisser, 2018) in grado di dischiudere politiche radicalmente altre in campo sociale ed economico, indurrebbero l’osservatore a scorgere nella cosiddetta rivoluzione tunisina nient’altro che un processo di un’alterazione «nel personale delle posizioni sociali ma non nel modello delle posizioni (Gluckman, 1977:141; Fabietti, 2011)», ove la struttura politica – ed economica – resta sostanzialmente inalterata.

63

Anche sul versante dei diritti umani e politici il cambiamento è lontano dall’essere effettivo: il caso della giornalista e blogger Fadhila Belhaj, condannata nel febbraio 2019 a due anni di carcere per ‘insulti sui social network’ è solo l’ultima operazione maturata in un clima sempre più securitario in cui è difficile distinguere la lotta al terrorismo dalla repressione del conflitto sociale (Bouagga, 2018)30.

Del resto, lo ‘Stato di emergenza’, che dà ad esempio alla polizia il potere di disperdere o vietare gli assembramenti spontanei nello spazio pubblico, si è di fatto eternizzato. Prorogato mese dopo mese a partire dagli attentati del 2015, si può calcolare che dopo la Rivoluzione la Tunisia ha vissuto un totale di 7 anni di ‘eccezione’31. La visibile manifestazione di questa

condizione di emergenza è osservabile nelle ingenti porzioni di spazio pubblico che nella capitale costituiscono uno spazio ‘rimosso’, interdetto com’è alla circolazione, alla sosta (anche pedonale), transennato e blindato da camionette di militari e carri armati. Una sottrazione dello spazio e della sua possibile fruizione pubblica.

Hamadi Redissi (2017) propone di superare le secche del dibattito ‘rivolta’/‘rivoluzione’, per inscrivere la Primavera tunisina del 2011 nel quadro delle transizioni democratiche contemporanee, aventi per oggetto la fine di un regime autoritario e l’instaurazione e il consolidamento di un regime democratico. Per Redissi, le primavere arabe rappresentano una transizione politica post-autoritaria, che combinano – l’autore impiega il verbo bricoler – i fondamenti del diritto all’insurrezione delle rivoluzioni moderne – a partire da quella francese del 1789 – e il diritto alla rivolta presente nella filosofia politica musulmana medioevale.

E la Tunisia rientrerebbe perfettamente nel quadro delle transizioni democratiche anche per via della sua condizione economica: se la democratizzazione conta maggiori possibilità di realizzarsi nei Paesi

30 Tunisia, blogger condannata a due anni di carcere:

https://www.agenzianova.com/a/5c6a85f85cd1f9.62369584/2314216/2019-02-18/tunisia-blogger-condannata-a- due-anni-di-

carcere?fbclid=IwAR10I_lwwCwImwGROqOdvxU9g5whUGNCDkjNYeR8qPOoXcUyCfTCtHK_nSo, consultato il 21-02-2019. Sul tema delle carceri va ricordato inoltre che la metà dei detenuti tunisini (23553 nel 2016) ha meno di trent’anni. Quasi un terzo di chi si trova in prigione, poi, sconta una pena legata a sostanze stupefacenti, nella maggior parte dei casi consumo di cannabis (Bougga, 2018).

31 Tunisie, l’état d’urgence, une mesure qui se normalise, in « Jeune Afrique », https://www.jeuneafrique.com/406230/politique/tunisie-letat-durgence-mesure-dexception-se-normalise/.

64

collocati su di un livello intermedio di reddito, la Tunisia si attesta – stando alle valutazioni della Banca Mondiale – su un indice medio-basso di reddito (Przeworski, Adam, Fernando Limongi, 1997)32. Stando all’economista tunisino Mahmoud Ben Romdhane (2011), gli elevati tassi di urbanizzazione, le variabili demografiche (tasso di fertilità e speranza di vita) e l’elevata scolarizzazione, concorrerebbero a promuovere una cultura civica necessaria a perseguire una transizione democratica. Tuttavia, la percezione di un cambiamento rimasto congelato allo stato di promessa emerge del resto da una sintetica ricostruzione della situazione politica tunisina offertami da Boubakar, componente del bureau del Forum Tunisino dei Diritti Economici e Sociali (FTDES):

[…] ci aspettavamo che ci sarebbe stata una lotta per cambiare il modello di sviluppo, le scelte economiche… Ma ci siamo trovati immersi in un altro dibattito: il ruolo dell'islam nello Stato, nella politica... Soprattutto dopo le elezioni del 2011, il confronto è stato monopolizzato da due clan: quello degli islamisti e quello dei progressisti. […] Nel periodo tra il 2011 e il 2014 il conflitto è stato soprattutto 'politico'; anche i movimenti sociali stessi sono stati strumentalizzati, fagocitati da questi partiti politici. […] Questa classe politica continua con le stesse pratiche. Lo si vede dal tasso di astensionismo tra i giovani alle ultime elezioni [municipali]33. La voglia dei giovani di impegnarsi nei partiti o nelle ONG inizia a essere più debole che un tempo, oggi. C'è una situazione di blocco. […] No, la situazione non è veramente cambiata a livello economico, degli investimenti pubblici e privati. Il tasso di disoccupazione è sempre elevato. Ora ci sono delle proteste su diritti che una volta sembravano acquisiti in Tunisia: il diritto all'acqua, alla salute, all'educazione. La sicurezza sociale. Lo Stato si ritira e non assicura l'acqua, l'elettricità, l'educazione; non c'è il numero di

32 Gli Stati rentiers, il cui reddito nazionale deriva quasi interamente dalla rendita di risorse endogene, come il petrolio, tenderebbero a essere autoritari perché la loro ricchezza non deriva dal lavoro dei cittadini (la ricchezza ‘prodotta’ attraverso il lavoro), ostacolando così la partecipazione politica di questi ultimi e il conseguimento di una piena cittadinanza politica. È il caso dei Paesi del Golfo.

33 Le elezioni cui si fa riferimento sono quelle dei consigli municipali, le prime elezioni locali nella Tunisia post- rivoluzionaria. Il tasso complessivo di partecipazione è stato del 33,7%, ma se si annoverano i tunisini maggiorenni che non si sono iscritti alle liste elettorali, condizione necessaria per poter votare a una tornata elettorale, il tasso di partecipazione precipita al 23% (Fonte: Fondation Jean-Jaures, https://jean-jaures.org/nos-productions/tunisie-une- election-sans-vainqueur-analyse-des-elections-municipales-du-6-mai-2018, consultato il 12/02/19).

65

insegnanti necessario nelle scuole... Rivendicazioni che erano considerate acquisite in Tunisia. Monta la collera.

Questa testimonianza di lucido disincanto rispetto ai proclami entusiastici con cui gran parte del discorso mediatico e politico, specie in Europa, ha elogiato la Rivoluzione Tunisina, risente della fagocitazione della ‘società civile’ e delle rivendicazioni espresse dal movimento rivoluzionario da parte della ‘società politica’ (Sebastiani, 2014). Tale operazione ha condotto allo sterile instradamento del dibattito politico sull’esclusiva contrapposizione tra ‘islamisti’ e ‘anti-islamisti’, gradiente fondamentale della «conoscenza immaginativa (Said, 1991:59)» con cui un’altra contrapposizione, ontologica ed epistemologica, viene eretta: quella tra Oriente e Occidente34. Quest’ultima risulta presente tanto nelle letture sclerotizzate dei media euro-americani, insistenti sull’oramai prossima (o avvenuta, secondo gli osservatori) islamizzazione della società tunisina, quanto nelle ‘zone di teoria’ attorno alle quali si condensa la riflessione antropologica sul mondo arabo, secondo la già citata espressione di Lila Abu-Lughod (1989).

Il faro delle istanze sociali rivoluzionarie – imperniate sulle tremende difficoltà di accesso al mercato del lavoro, sulle crude diseguaglianze territoriali, sul rapporto insano tra cittadini e istituzioni in un Paese affetto da sindrome autoritaria e securitaria nonché sull’impossibilità, per una consistente fetta di popolazione giovanile, di pervenire a una condizione di autonomia economica e di dignità sociale – ha in breve tempo esaurito il suo potenziale emancipatore, premessa per la germinazione di un nuovo paradigma di cittadinanza, clamorosamente traslato in un’ossessiva attenzione al religioso e all’islamizzazione della Tunisia, rea – al pari delle altre società ‘islamiche’ o ‘mediorientali’ – di non riuscire a emancipare in maniera liberale la politica dalla religione, secondo un noto topos orientalista. Così, in breve tempo, il messaggio ‘universale’ di cui era portatrice la ‘Rivoluzione della libertà e della dignità’, comprensibile pertanto in ogni contesto al di là di peculiarità culturali o religiose, ha

34 Mi piace riportare la poetica ed evocativa definizione della maturazione dell’orientalismo nel XIX secolo ad opera di V. G. Kiernan: «sogno a occhi aperti collettivo dell’Europa sull’Oriente (1969:55)», citato da Edward Said (1991).

66

perso la sua vocazione di piena ed estesa intellegibilità (Dakhlia, 2016)35,

come confermato da Monia, giovane studentessa di italianistica presso l’università di Manouba che conobbi durante le prime fasi della ricerca situate nei contesti educativi.

Dopo la Rivoluzione, la situazione nella mia famiglia è cambiata. Mio padre ha perso il lavoro. Nei due anni senza studio, ho lavorato in un call center francese per aiutare la mia famiglia. Anche oggi la situazione è molto molto difficile. Ma non posso scegliere di lavorare e non studiare; studiare è più importante comunque. […]

Certe persone hanno finito di studiare, hanno lavorato in posti che non c'entravano con i loro studi... Hanno fatto una rivoluzione per lavorare, per poter mangiare, per potersi sposare... Perché non è possibile che a 40 anni... Anche per dormire con una ragazza, loro non hanno una casa... Hanno fatto la rivoluzione in modo che quelli che hanno il potere possano trovare una soluzione per quelli che hanno finito gli studi… È molto chiaro. Da Kasserine e Sidi Bouzid hanno fatto la Rivoluzione... Anche le donne... A causa della miseria... Per questo fanno i clandestini in Italia e in Francia. Poi piano piano è cresciuta l'idea della religione, di essere vicini a Dio, perché prima chi faceva sempre la preghiera veniva ucciso direttamente...

La nostra rivoluzione dopo ha preso una parte importante, diciamo l’80%, del contesto religioso, ma se parli con quelli che hanno fatto gli studi e non lavorano, loro dicono che hanno fatto la rivoluzione per poter mangiare...(Manouba, 23/11/2016)

Ma quale differenza intercorre tra l’‘universalità’ della Rivoluzione tunisina postulata da Jocelyne Dakhlia e l’‘universalismo’ delle categorie d’analisi con cui le scienze umani e sociali pretendono di spiegare la realtà? Affermare l’esistenza di un messaggio universale, trasversale e comprensibile a tutti nella sua pienezza di significato, implica l’esistenza di paradigmi e costrutti – come democrazia, diritti umani, libertà – la cui evidenza di razionalità non necessita di ulteriori mediazioni culturali? La

35 Secondo Jocelyne Dakhlia, lo stesso premio Nobel per la pace assegnato al Quartetto Tunisino (ordine degli avvocati, sindacato UGTT, confederazione degli industriali e Lega per la difesa dei diritti dell’uomo) nel 2015 risente di una lettura che espunge il conflitto sociale premiando una visione pacificata e consensuale della storia tunisina, in linea con la dottrina dell’unanimismo che ha segnato la stagione di Ben Ali.

67

compenetrazione tra significanti universali e significati ‘particolari’ non è piuttosto costitutiva dell’intrinseca connessione di gruppi, campi sociali, dinamiche storico-politiche con ambiti spazio-temporali più ampi (Amselle, 2001)? Senza avviare, in questa sede, una disamina dei concetti di relativismo etico ed epistemologico (Dei, 2012; Dei, Simonicca, 1990), si intende solo richiamare i rischi connessi alla postulazione di un universalismo inteso quale sostanza capace di ammantare di un telos ineluttabile – ciò che Appadurai (2014) definisce traiettorismo – processi storici, aree del pianeta e gruppi umani variegati. L’universalismo invece andrebbe concepito come tendenza o aspirazione a corroborare connessioni globali, improntate a rapporti pacifici e solidaristici.

Se la Rivoluzione è un accadimento che determina un cambiamento improvviso e radicale del corso della storia, sul modello del 1789 o del 1848, la primavera tunisina certo non lo è, per i motivi richiamati nelle precedenti pagine. Ciò comporterebbe declassarla ad evento politico minore. Senza contare che sarebbe vano pretendere di trovare un modello invariante di rivoluzione. La velocità e l’imprevedibilità degli accadimenti storici inficiano la pretesa ‘invariantiva’ di ogni modello teorico precedente. A complicare il quadro, vi è certamente la considerazione che il richiamo al malcontento popolare sempre maggiore – al punto da non giustificare più i ‘costi’ dell’obbedienza al despota – non riesce a illuminare in modo esplicativo il passaggio dalla frustrazione alla mobilitazione (Dobry, 2009).

Se invece rivoluzione e transizione sono congiunte nella medesima prospettiva temporale, dilatando le etnocentriche traiettorie lineari e irreversibili con cui siamo soliti mettere in ordine gli eventi, riusciremo a collocare questi ultimi nel tempo profondo della ‘durata’ in cui passato e presente si intrecciano intimamente (Bachelard, 1989).

Vari autori sostengono che l’affiliazione politica nella Tunisia contemporanea passi per la ricomposizione di strutture sociali nebbiose (Broeders, Engbersen, 2007) in cui riprendono forma i vecchi rapporti clientelari, con la differenza che se ieri questi si nutrivano sfacciatamente delle risorse pubbliche, oggi attingono a risorse di altra natura, come il supporto allo sviluppo proveniente da ONG internazionali, dalle agenzie

68

della cooperazione allo sviluppo, dalle fondazioni filantropiche (Perez, 2018). La personalizzazione del legame politico e la difficoltà di discernimento tra risorse e attori pubblici e privati, costituiscono il segno evidente di come la redistribuzione delle risorse costituisca ancora modalità preferenziale dell’esercizio del potere nella Tunisia contemporanea.

Eppure, secondo Mohamed Kerrou (2017) sono proprio alcune continuità strutturali riscontrabili nel modello politico istituzionale tunisino e nell’ethos del compromesso incorporato da ampi strati della popolazione ad aver garantito il sucesso della transizione post-rivoluzionaria democratica, a differenza che in altri Paesi arabi. La Tunisia vanterebbe da questo punto di vista una tradizione statuale antica, con un solido ceto burocratico impegnato nell’amministrazione pubblica e nella distribuzione di beni e servizi (Bourdieu, 1994) che ha protetto l’edifico statuale dal prolasso che altrove, in primis in Egitto, si è verificato (anche per via della scelta dell’esercito di non reprimere il dissenso popolare). In particolare, il compromesso – che ha permeato anche il non facile bilanciamento tra parti opposte nell’elaborazione della nuova costituzione – sarebbe il risultato di una cultura politica che valorizza l’attitudine, estesa all’intero corpo sociale, alla contrattazione e alla negoziazione di tipo familiare e cortese. Non ultimo, la storica vocazione tunisina di

carrefour mediterraneo tra culture e civiltà differenti rafforzerebbe questa

disposizione.

Le considerazioni di Kerrou non sono certo infondate. È possibile rintracciare, a partire dal XIX secolo, una postura riformista eterogenea all’opera nella pratica e nel pensiero politico, che promuove il rinnovamento politico e culturale nel quadro dei valori dell’Islam, anzi, nel recupero degli originari valori della religione islamica. Tale linea di pensiero derivava dall’opera dell’egiziano Muhammad ‘Abduh, vissuto nella seconda metà del XIX secolo e che sosteneva la necessità di un ritorno alle basi della fede, da cui ricavare una morale sociale adeguata ai tempi moderni (Hourani, 1998). Taluni si spinsero oltre, sino a postulare la separazione tra religione e vita sociale.

69

In ogni caso, va assunto che il riformismo è un complesso tutt’altro che omogeneo, e che va declinato nelle sue accezioni del riformismo musulmano così come del riformismo repubblicano, coloniale e nazionalista. Al di là della mistificazione che esso ha assunto in particolar modo sotto il regime di Ben Ali, è innegabile che a partire dalla stagione coloniale, sotto l’egida del riferimento identitario alla tradizione del riformismo tunisino, diversi segmenti delle élite tunisine avanzassero una comune rivendicazione costituzionale, il cui modello era a sua volta il Patto fondamentale del 185736: salafiti, panislamisti, nazionalisti destouriani e neodestouriani, tutti rivendicavano l’eredità modernista di Kheireddine e consideravano l’Islam come parte irrinunciabile dell’identità tunisina (Tlili, 1984)37. L’elemento religioso non costituiva

all’epoca un fattore discriminante e divisivo. Persino durante i governi di Bourguiba e Ben Ali gli oppositori politici riconoscevano ai due presidenti un volontarismo erede della tradizione riformista tunisina, al punto che nel 1988 anche gli oppositori al regime di Ben Ali (compresi i cosiddetti islamisti) firmarono il Patto Nazionale, un testo in cui tutte le forze politiche convergevano nell’attribuire al riformismo tunisino carattere fondativo dell’identità nazionale38. In esso, inoltre, i firmatari del patto

chiedevano allo Stato di impegnarsi affinché la razionalità – derivazione post-coloniale e moderna dell’Ijtihâd – permeasse l’insegnamento pubblico, le istituzioni religiose e i mezzi di informazione (Zghal, 1989)39. Tuttavia, l’attitudine al compromesso, quand’anche riscontrabile attraverso un’analisi storico-sociale del posizionamento politico di élites urbane e classi mercantili, può essere oggetto di una generalizzazione tale

36 Il patto del 1857 tendeva a ridefinire le relazioni tra i soggetti (i cittadini) e il Bey di Tunisi, volgendo anche all’instaurazione dell’eguaglianza nei diritti tra musulmani e non musulmani.

37 Kheireddin è comunemente considerato il più influente riformatore tunisino precoloniale, primo ministro tra il 1873 e il 1877.

38 Il paradigma sviluppista sotto cui può essere inquadrata l’intervento dello Stato durante il regime di Bourguiba è la messa in pratica post-coloniale dell’eredità riformista (Zghal, 1993).

39 Secondo l’Oxford Dictionary of Islam, L’Ijtihâd – letteralmente ‘sforzo mentale o fisico’ – designa il ‘ragionamento indipendente’, opposto all’imitazione (taqlîd). Fonte del diritto sunnita, i dotti possono ricorrervi limitatamente a quelle questioni su cui il Corano e la Sunna non si esprimono e non vi è consenso tra gli studiosi. Albert Hourani scrive che «una massima ripetuta spesso sosteneva che a partire dal X secolo non sarebbe più stato possibile esercitare un giudizio individuale: dove era stato raggiunto il consenso, «la porta dell’Ijtihâd è chiusa». Non sembra però concretamente provato che questo concetto sia mai stato formulato o abbia mai riscosso un consenso generale, all’interno di ogni madh’hab (scuola giuridica) di fatto si praticava l’Ijtihâd (1998:162)».

70

da pervenire all’affermazione di una configurazione culturale omogenea e rappresentativa dell’intero Paese? Qual è l’attitudine al compromesso ravvisabile nelle cicliche ondate di ribellione che coinvolgono le regioni sottosviluppate e i ceti sociali impoveriti, anche dopo la rivoluzione del 2011? Infine, la solidità del ceto burocratico che ha amministrato la cosa pubblica nel solido quadro della configurazione statuale può essere oggetto di una valutazione indipendente da quell’economia politica che ha lungamente soggiogato la Tunisia combinando autoritarismo, spregio dei diritti umani e integrazione economica della popolazione attraverso reti clientelari, affiliazione politica all’RCD (per limitare l’analisi alla stagione benaliana) e porosità del discrimine pubblico-privato a tutti i livelli della macchina dello Stato? L’analisi di Kerrou, benché fondata, pare inserirsi nel solco della celebrazione entusiastica dell’eccezionalità tunisina, imperniata sul modello del ‘consenso’ e dell’unanimismo, tratti di una cultura politica che, oggi, come ieri, stigmatizza la conflittualità nella società, riattualizzando il riferimento al patrimonio riformista