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2. Fantasmi della gioventù, tra inquietudini e anomia sociale

2.4 Modernità e cultura globale

I giovani tunisini con cui ho costruito la presente etnografia possono essere genericamente ascritti alla classe media, tenendo ben presente che oggi questo segmento sociale va restringendosi per effetto della crisi economica e delle politiche neoliberiste attuate dai governi degli ultimi anni. In tal modo, all’interno della classe media troviamo famiglie in cui i genitori lavorano nel settore pubblico (professori, impiegati, funzionari, ecc.) e privato in quelle mansioni emerse all’indomani dell’indipendenza (Sebag, 1998), e i cui livelli di reddito e di consumo si attestano su valori medio-alti. Ma oggigiorno la classe media ‘vacillante’ (floating class), che consta di quella parte di popolazione dal reddito non regolare e il cui salario medio è inferiore agli 800 dinari mensili dispone di un potere d’acquisto pericolosamente prossimo alla soglia di povertà. La stessa fascia di reddito tra i 700 e gli 800 dinari mensili, tradizionalmente associata al reddito della classe media, non basta più a condurre una vita relativamente agiata e priva di insicurezza economica, come rileva

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l’Economiste Maghrebin17. I dati dell’Osservatorio per la protezione del

consumatore e del contribuente anzi certificano come sempre più famiglie non possano consumare carne, arrivare senza patemi a fine mese (nel 2012 quasi la metà dei lavoratori salariati consumava il proprio stipendio tra il 12 e il 13 del mese), indebitandosi.

Questa classe media, dunque, condivide sempre più punti di affinità con le classi popolari, al punto che ho deciso di ricondurre le categorie di giovani incontrati nel corso del lavoro etnografico alle classi medio- popolari. Il sintagma medio-popolare obbliga a tener presente la fluidità e la reversibilità delle categorizzazioni, imponendo di ricordare le condizioni di vita rischiosamente volatili dei miei interlocutori, la cui

securitas materiale ed esistenziale è lungi dall’esser stabilita una volta per

tutte. Inoltre, il costrutto ‘medio-popolare’ si impone nella considerazione degli spazi vissuti dai miei giovani interlocutori tunisini: i quartieri e le municipalità che ho attraversato con maggior intensità nel corso del lavoro etnografico (Ben Arous, Mohammedia, Kabaria) sono comunemente rappresentati come ‘popolari’, benché sia ormai acclarato che vi risieda una popolazione i cui indici socio-economici e professionali sono quelli delle classe medie, e ciò in considerazione del carattere più sfumato delle linee di demarcazione e distinzione del quadro abitativo ed edilizio tunisino contemporaneo (Chabbi, 2016).

Allo stesso modo, ‘medio-popolare’ consente di rifuggire da qualsiasi tentazione patologizzante o essenzialista con cui si è soliti connotare le classi popolari maghrebine, di cui si suppone la permeabilità all’estremismo religioso e alla criminalità. Invece, ‘medio’ e ‘popolare’ sono state due categorie sincreticamente legate nel mio percorso di ricerca; l’una poteva scivolare nell’altra e viceversa, esortandomi così a diffidare da categorizzazioni certe e fissiste.

‘Medio’ e ‘popolare’ non formano una contraddizione ma una combinazione che rinvia alle vite dei giovani tunisini ‘tradizionalmente’ associabili alla classe media e che tuttavia mancano attualmente dei mezzi per approfittare delle condizioni e delle possibilità presentate dalla

17 Cfr. https://www.leconomistemaghrebin.com/2013/06/04/classe-moyenne-en-tunisie-realites-et-perspectives/, consultato il 14/04/19.

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globalizzazione politica ed economica contemporanea. Sono ‘marginali’ nella misura in cui non riescono ad accedere ad autonomia ed indipendenza economica, a soddisfare del tutto le aspettative di consumo promosse dal mercato e dall’ecumene globale in cui sono immersi, a inverare pratiche di mobilità spaziale e geografica, quale che sia il motivo. Eppure, allo stesso tempo, provano a condurre uno stile di vita e e ad adottare abitudini di consumo tali da poter accedere a uno status sociale altro da quello dei genitori e dei nonni.

La proletarizzazione economica cui vanno incontro questi giovani non corrisponde affatto a una povertà culturale. Anzi, oltre a ‘medio- popolare’, per definire i miei interlocutori ricorrerei a un altro aggettivo: ‘cosmpoliti’, per indicare attori sociali capaci di decontestualizzare e ricontestualizzare continuamente conoscenze acquisite e capacità maturate (Hannerz, 2004).

Da questo punto di vista, sì, è possibile parlare di una generazione ‘globale’, cresciuta durante l’età della rivoluzione comunicativa e tecnologica, imbevuta di ideali di scambio e interazione ‘a distanza’, capace di saggiare e comprendere la complessità e la diversità culturale per trascenderla nell’immediatezza di un collegamento telematico. Nell’ecumene globale di cui parla Ulf Hannerz (1998) le connessioni tra significati particolaristici e significanti planetari (Amselle 2001) raggiungono livelli di consapevolezza e intensità inediti18. Enfatizzare questa dimensione ‘globale’ è un modo per ovviare alle prevalenti rappresentazioni in cui ai soggetti non occidentali viene ascritto un feroce localismo foriero di arcaismo, immutabilità, tradizionalismo.

A tal proposito, può risultare significativo il pensiero di Zied, studente ventisettenne di cinema, attualmente in Polonia per uno stage, iscritto peraltro all’istituto di lingua italiana ‘Dante Alighieri’ di Tunisi. Originario di Sfax, abita al Bardo, quartiere non lontano dal centro di Tunisi, con altri studenti. Di tendenze progressiste, i suoi interessi culturali vertono principalmente su cinema e musica – di genere ‘world music’ ed etno-jazz (Dhafer Youssef, Ibrahim Malouf, ecc.). Quando era

18 Va comunque specificato che Amselle (2001) contesta che l’ecumene globale sia un prodotto specifico e inedito dell’età contemporanea.

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studente di scuola ha partecipato ad alcune manifestazioni indette dalla sinistra studentesca, benché non si definisca un attivista. Nel corso della nostra frequentazione etnografica, non perdeva occasione per ostentare la sua identità culturale quasi provocatoriamente anti-conservatrice, come quando mi invitava a trascorrere la serata con lui e i suoi amici anticipandomi che avremmo visto dei film, bevuto birra e fumato erba. Il campo dell’arte merita senz’altro attenzione: nel corso del lavoro sul campo diversi miei interlocutori mi hanno messo al corrente della loro abilità nel suonare uno strumento (chitarra, fisarmonica, percussioni), disegnare, scrivere poesie o testi di canzoni – generalmente rap19.

L’‘apertura’ cosmopolita in Zied è maturata durante il periodo degli studi, quando ha scelto di studiare cinema non accontentando i desideri del padre, che avrebbe preferito una scelta più ‘tradizionale’:

[…] Quando ho deciso di fare cinema a Tunisi mio padre avrebbe voluto che anch'io facessi diritto, visto che è avvocato, per potermi aiutare negli studi, ma io ho insistito e lui ha capito che questa era una scelta per il mio futuro. […] Ho fatto la scuola di cinema all’istituto superiore di arti multimediali a Manouba. Ho passato il primo anno al foyer studentesco. Era qualcosa di nuovo, perché c'erano giovani che amavano il cinema, qualcosa di inconsueto nella società... Eravamo molto affiatati, un bel gruppo, non ho avuto problemi di integrazione. [...] C'era questa atmosfera di diversità che era bella, abbiamo avuto istruttori dal Belgio ad esempio (Tunisi, 14/02/2017)...

L’atmosfera di diversità in realtà fa il paio, contraddittoriamente, con una certa omologazione globalizzante dei gusti e delle aspettative che a suo dire caratterizza i giovani tunisini.

Penso [che la gioventù] sia la stessa un po' in tutto il mondo, per via della globalizzazione: tutti vogliono del denaro, una macchina, una compagna, tutti vogliono bere, da fumare... Non ci sono specificità tunisine... Io ho un'immagine generale positiva comunque, conosco gente simpatica. Nonostante i problemi della società tunisina, trovo che i tunisini abbiano comunque un grande spirito: nonostante i problemi di povertà, disoccupazione, cattivo sistema educativo, con

19 Sul rapporto tra arte, pedagogia e formazione di una sensibilità politica alternativa, cfr. Gandolfi (2012); Le Vine (2010).

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tutti i mezzi di distrazione, trovo che i giovani tunisini restino buoni in fondo, anche con tutti i cambiamenti radicali. Gli estremisti sono una minoranza...

È come se l’esperienza della ‘mondializzazione’ passasse per una maggiore abitudine alla diversità culturale, nella quale farsi strada attraverso stili, posture, aspettative condivise e riconoscibili.

In questo scenario, può emergere però la bruciante consapevolezza che i frutti della ‘modernità’ – intesa come cultura globale cosmopolita – non sono pienamente accessibili.

Le diseguaglianze economiche e il quadro politico contemporaneo – specie nel campo delle migrazioni – producono un’esclusione strutturale da cui può generarsi un sentimento di frustrazione, la percezione di un affronto moralmente inaccettabile. I giovani istruiti dei ceti medi vanno incontro a privazioni sociali del tutto analoghe a quelle di cui fanno esperienza i ceti medi. Vedremo successivamente come attorno alle idee di giustizia e ingiustizia prendano forma economie morali del risentimento e del riscatto, connotate talvolta in senso religioso.

La percezione di un ordine di cose ingiusto, marcato da una dilagante corruzione che rende selettivo l’accesso al benessere e alle opportunità economico-lavorative, inficia il riconoscimento nello Stato e nel corpo della nazione.

Le conseguenze manifeste sul piano politico sono spesso poco evidenti, a meno che non sfocino in movimenti sociali. Ma nella maggior parte delle volte dilagano reticoli di ‘rivoluzione passiva’, resistenze silenziose rinoscibili dalla condivisione di stili (abbigliamento, pratiche e politiche del corpo – barba, velamento, zabîba sulla fronte20) attività, pratiche

sociali e spazi convissuti (stare ai caffè, seguire gli eventi sportivi, ecc.) (Bayat, 2010 b). Attorno a questa presenza collettiva si sedimentano saperi condivisi, afflizioni e problemi comuni.

Un giovane venticinquenne, disoccupato, di Mohammedia, mi diceva, a proposito dell’istituto della migrazione clandestina, harqa, che tutti

20 La zeziba è la macchia scura che si viene a creare sulla fronte di chi prega prostrandosi a terra. Essa è allo stesso tempo un marcatore diacritico che permette di riconoscere immediatamente il fedele/praticante. Se ne fa riferimento nella Sura al Fath.

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conoscono le modalità con cui realizzarla. Si sa a chi rivolgersi, quanto costa il viaggio, da dove partire e cosa fare appena arrivati in Europa, “perché si sta insieme ai caffè, ci si vede sempre, si sta sempre insieme…”. Queste culture giovanili, capaci di generare attitudini e pratiche critiche, contestative, sovversive (come la migrazione clandestina, cfr. oltre), non si collocano fuori o contro il regime morale e politico esistente, ma entro di esso, pur trascendendolo lateralmente, surrettiziamente.

E qui ritorna l’interesse per la classe media: come suggerisce Asef Bayat in Life as politics (2010 a), sono proprio questi settori mediani della società, in particolar modo i giovani, a ideologizzare più frequentemente il risentimento attorno a esclusione e marginalizzazione. Mentre i subalterni farebbero ingresso nei circuiti dell’islamismo perlopiù per motivi strumentali (fruire di beni e relazioni messi a disposizione dalla carità islamica, ad esempio), i giovani dei ceti medi, in Egitto come in Tunisia, elaborano dei veri e propri quadri morali di ingiustizia e rancore nei confronti dello Stato. Ancora, Linda Herrera (2010) scrive che né la disoccupazione né gli indicatori socio-economici differenziano in modo deciso ‘radicali’ e ‘moderati’. Ne consegue la necessità di andare oltre le prospettive economiciste per comprendere le traiettorie e le scelte dei giovani.

Dale Eickelman (2018) rimarca a tal proposito che la più profonda trasformazione nel mondo musulmano contemporaneo passa per l’azione delle classi medie, che attraverso le nuove tecnologie della comunicazione, l’accresciuta mobilità e la diffusione dell’educazione superiore di massa popolarizzano idee, pratiche e concetti inerenti alla religione e persuadono vasti e vari segmenti di sfera pubblica, sottraendo ampi campi del sapere religioso al monopolio dell’autorità colta. Novelli

bricoleurs, le nuove generazioni delle classi medie riescono a re-

immaginare la religione fuori dai confini tradizionali e al di là dei canali autorizzati, specialmente in virtù delle nuove tecnologie della comunicazione (prima videocassette e DVD, poi satellite, oggi i media digitali e gli smartphone) che hanno prodotto un impatto straordinario sull’immaginazione religiosa. Si tratta, a ben vedere, dell’emergenza di un’ampia e differenziata sfera pubblica, in cui sempre più persone – non

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solo le più colte – prendono parola su questioni di ambito politico e religioso, pervenendo al ripensamento di categorie e concetti quali ‘pubblico’, ‘privato’, ‘bene comune’.

Se di cosmopolitismo è lecito parlare in virtù dell’ampiezza degli immaginari geoculturali degli attori sociali (Hannerz, 2007; Copertino, 2010), ancor di più lo è se si pensa a come questi ultimi incarnino il corto circuito tra cultura, nazione e territorio che contraddistingue in misura dirompente l’età contemporanea (Appadurai, 2001) e siano straordinariamente sensibili nel ricamare affiliazioni politiche e culturali deterritorializzate, immaginarie eppure tangibili, reali.

Questa cultura globale costituisce lo sfondo su cui vasti strati giovanili della società ricavano espressioni culturali e linguaggi con cui affermare e richiedere il riconoscimento di sé. In effetti, se di ‘cultura dei giovani’ si può parlare, è solo attraverso il riconoscimento di linguaggi identitari distintivi impiegati da soggetti che si distanziano dalla cultura degli avi. Questa politica dello stile e della distinzione (Bourdieu, 2001) non può ridursi all’integrazione passiva nei circuiti del consumo di massa21,

essendo facilmente enumerabili esempi di giovani ‘manipolatori/imprenditori’ capaci di manovrare spazi autonomi di accumulazione economica e agibilità politica ai margini delle politiche liberali nazionali e transnazionali. Si pensi alle bush economies di Camerun e Chad o alle economie del traffico di armi e diamanti in cui in ampie parti di Africa centroccidentale sono attivi degli adolescenti, o ancora ai giovani muridi senegalesi che danno vita a network imprenditoriali transnazionali (Roitman, 1998).

Ciò che desta maggior interesse da una prospettiva etnoantropologica è che a un’azione di incorporamento della popolazione giovanile nei flussi culturali ed economici globali corrisponda una risposta ‘culturale’ e creativa, che si articola secondo un doppio livello locale e, appunto, globale. Se così non fosse, scrivono i Comaroff (2000), questi segni

21 Risulta comunque fruttuoso sottoporre al vaglio etnografico l’uso e il consumo delle merci, cui del resto negli ultimi decenni sono stati dedicati pregevoli studi che hanno avuto il merito di riorientare uno sguardo tradizionalmente volto agli stadi della produzione e della distribuzione su grammatica e semantica delle scelte di consumo, anche all’interno dei confini dell’economia di mercato. Per citarne solo due, cfr. Appadurai (1986) e Miller (1998; 2001).

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perderebbero gran parte della loro densità. Una volta appropriati e ricontestualizzati, i segni ‘globali’ sono tradotti in linguaggi ibridi che permettono il trattamento di problemi locali. Così, pratiche ed esperienze di socializzazione locali si connettono a ordini simbolici e identificazioni culturali più ampie (Friedman, 2004). Il tifo ultras, la moda, la musica, la religione sono tutti esempi di flussi di significato che viaggiano su reti di comunicazione non univocamente ancorate a uno specifico territorio (Hannerz, 1998) dal quale purtuttavia transitano, impregnandosi di densità semantiche contestuali.

Giovani donne poco più che ventenni come Oumaima, che frequenta un’associazione a Mohammedia, che vela il suo corpo con l’abaya, lasciando intravedere solo il viso, e ama la lingua inglese e la cultura angloamericana; o Amal, diciassettenne, che consuma fumetti giapponesi e si diletta nella slam poetry, in cui tratta il rapporto tra donna e uomo, la situazione della Tunisia, i giovani, e si esibisce alla Maison des Jeunes del depresso quartiere di Ibn Khaldoun. Piccoli mondi globali germinano nelle vite locali di giovani donne e uomini.

Marouen e Jasser sono due giovani amici iscritti all’istituto di lingua italiana ‘Dante Alighieri’ di Tunisi. Il primo, ventiseienne, studia design all’università di Manouba; il secondo, un anno più giovane, discipline sportive. Entrambi vorrebbero proseguire i loro studi in Italia, dove risiedono peraltro amici e parenti. Per questo sono stati incoraggiati dalle rispettive famiglie a studiare italiano, in modo da poter avere una possibilità formativa e occupazionale in più.

Quando gli chiesi perché si fosse iscritto in design, Marwen mi diede la seguente risposta, apparentemente banale.

Non ho scelto veramente di studiare design. Non è stata una mia scelta. Ma dopo aver iniziato, ho trovato che il design fosse capace di aprire lo spirito, di pensare alle cose in un modo diverso (Tunisi, 30/03/2017).

Questa risposta coincide con la definizione di ‘cosmopolitismo’ proposta da vari autori, tra cui Ulf Hannerz (2004), per il quale esso è «un’apertura

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verso esperienze culturali divergenti, una ricerca del contrasto piuttosto che dell’uniformità», inerente anche alla sfera delle competenze (p. 70). Marouen e Jasser seguono molto la moda nel campo dell’abbigliamento. Le volte in cui li ho incontrati, a Tunisi, li ho accompagnati nelle loro ricognizioni in negozi di abbigliamento che facevano parte di catene internazionali, come Zara, Berskha, Stradivarius e altri, presenti lungo le principali strade del centro cittadino. I prezzi delle merci lì disponibili sono più bassi di quelli riscontrabili in Italia, ma non troppo, rivolgendosi a un’utenza di riferimento non certo popolare.

Quando sono a Tunisi – vengono entrambi da municipalità periferiche della Grand Tunis – i due non rinunciano quasi mai a un giro nei negozi per sondare gli ultimi arrivi e provare capi d’abbigliamento sempre diversi. A tal proposito le parole di Jesser confermano come la moda sia un sistema simbolico che permette di partecipare alla costruzione e alla condivisione di significati su scala globale.

La moda mi piace, la seguo, mi sento parte del mondo, mi piace pensare che quello che indosso lo indossano anche in altre parti del mondo (Tunisi, 30/03/2017).

A ben vedere, la distinzione bourdieusiana coesiste con una ricerca della condivisione su scala globale, in cui le peculiarità individuali non sfumano ma si riassestano su un orizzonte più ampio.

Anche nel campo alimentare si assiste al progressivo sviluppo di nuove tendenze, abitudini, pratiche sociali. I giovani che ho frequentato mangiano quasi sempre fuori casa, e non solo per esigenze logistiche. Da una parte, molti di loro esprimono una nota di dubbio rispetto alla salubrità di piatti tradizionali (come il cous cous, ad esempio) il cui apporto calorico e nutrizionale viene rimesso in discussione dalle conoscenze salutistiche e scientifiche oggi largamente a disposizione. Hossem, ad esempio, trentatreenne di Ben Arous da poco laureato in ingegneria e alle prese con la difficile ricerca del lavoro, criticava sovente l’alimentazione dei genitori. Nelle tante occasioni di incontro dovute alla frequentazione

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etnografica del suo quartiere di Hay Lesken, ebbe modo di manifestarmi una presa di distanza dal regime alimentare tradizionale tunisino:

Nella cucina tradizionale tunisina ci sono tante cose che fanno male alla salute (il sale, molte spezie). I nostri genitori non prestavano molta attenzione a queste cose una volta, erano più attenti a considerare il gusto e non la salute (Tunisi, 14/04/2017).

Questo distacco dalle scelte alimentari dei genitori sancisce forse una separazione più profonda, una frattura intergenerazionale culturale? D’altra parte, proliferano fast food che ricalcano in tutto e per tutto le omologhe catene occidentali, dove è possibile consumare panini e sandwich di vario tipo, con molteplici abbinamenti di salse. I quartieri maggiormente battuti dal ceto medio per passeggiate domenicali o cene fuori casa con la famiglia sono zeppi di locali di questo tipo, in cui oltre alla pizza è possibile sedersi ai tavolini per consumare fish and chips, hamburger, ecc.

I fast food sono il corollario di un’altra trasformazione, indirettamente legata al mutamento delle pratiche alimentari, ovvero la crescente presenza di supermercati. L’elemento di maggior differenza rispetto ai mercati o ai negozi ‘tradizionali’ (‘attar) consiste nel riempire il proprio carrello a piacimento dopo un giro tra i reparti del supermercato (senza dipendere dalla direzione impressa dal mercante o commerciante) potendo controllare il prezzo prima di scegliere, senza dover negoziare col venditore (Mechken Ouenniche, 2012).

Un aspetto fondamentale da cogliere è che queste nuove pratiche alimentari, specie giovanili, non riguardano solo la preferenza di un alimento al posto di un altro, bensì rivelano scelte culturali più profonde. Prediligere i fast food, allora, significa «consumare in conformità a codici e modelli culturali specifici». Cosa ancor più importante, tali scelte «favoriscono lo sviluppo di una socialità esogena completamente estranea alla vita familiare (Ivi: 285)». Il desco familiare cede il posto a luoghi di socialità altri, basati su ritmi più rapidi, accentuati, adatti alla flessibilità

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degli orari frenetici di lavoro e di studio e non al ‘tempo profondo’ della convivialità e della condivisione domestici.

Eppure, durante i miei soggiorni in Tunisia, ho potuto constatare come mangiare ‘fuori’, specie quando il ‘fuori’ corrisponde alla ‘strada’, non implichi necessariamente atomizzazione e individualismo, caricandosi talvolta di inattesa commensalità. In giro, anche per la medina, all’ora di pranzo è frequente imbattersi in carrette ambulanti in cui viene preparato il pane, condito con tonno, olive, harissa, uovo. La maggior parte delle volte sono i consumatori – di tutte le età – a condire il pane, rompendo l’uovo e versandone il tuorlo. Anche il rapporto tra venditore e consumatore non è asfittico e compreso unicamente nello svolgimento di una impersonale e anonima transazione economica. Inoltre, il tempo dedicato alla preparazione o al consumo del prodotto non è privo di densità relazionale. Mentre si mangia o si prepara il cibo, si creano dei capannelli di persone. È uno street food che presuppone il contatto, lo