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2. Fantasmi della gioventù, tra inquietudini e anomia sociale

2.6 Culture giovanili e sacro

Occorre specificare che il mio obiettivo non è descrivere i tratti di un’omogenea cultura giovanile tendente all’universale, ma legarne le manifestazioni ed espressioni simboliche (ciò che Herrera e Bayat (2010)

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definirebbero ‘politiche culturali’, considerata la loro implicita pregnanza politica e il loro potenziale contestativo) a una posizione sociale ben precisa, che un tempo non si sarebbe esitato a denominare ‘classe’. Negli anni in cui, nello studio delle cosiddette culture giovanili nate nell’alveo della società dei consumi e del tempo libero del secondo dopoguerra europeo, il concetto di ceto (inteso come matrice di una stratificazione flessibile e multipla, basta sulle variabili dell’educazione, dell’impiego, del consumo, dello status) soppiantava gradualmente quello di classe, le pionieristiche riflessioni del gruppo del Center for

Contemporary Cultural Studies di Birmingham (2006) reintegravano

quest’ultimo. L’invito, sempre valido, era a legare le forme culturali alle ‘problematiche’ comuni alla formazione sociale che i giovani ‘ereditano’, pur tra mille differenze, dai loro genitori.

Ne consegue l’obiettivo di pensare ai giovani tunisini e alle espressioni culturali in cui essi sono attivi tenendo bene a mente il contesto materiale in cui vivono e l’orizzonte di aspettative, desideri e possibilità esistenziali che prende forme negli interstizi tra habitus, classe sociale e agency. Dirimente, ai fini del discorso sviluppato in queste pagine, è comprendere che questa cultura globale giovanile non prescinde in alcun modo dal sacro e da forme peculiari di religiosità, a differenza di ciò che alcune letture vorrebbero invece lasciare intendere. Benché varie rappresentazioni – perlopiù mediatiche, ma non solo – assegnino a questa gioventù globale uno statuto secolare, celebrato puntualmente in occasione di manifestazioni culturali dallo stile più o meno occidentale (dai festival artistici in poi) e considerato minacciato da incipienti forme esplicite di religiosità (Bennani-Chraïbi, 2010), connotate in senso patologico, l’islam è pienamente parte di questa cultura globale.

Ancora una volta sono esemplificative le parole di Zied, il giovane amante del cinema di cui abbiamo fatto conoscenza nelle pagine precedenti. A proposito del suo rapporto col sacro, si esprimeva così:

La religione è importante. Credo che il lato spirituale sia importante per l'individuo. Sentirsi in contatto con Dio e avvertire la presenza di Dio in se stessi… Ma non credo nella religione... Credo nella religione ma la cosa

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più importante è conoscere che Dio esiste e perché esiste... La spiritualità è il primo contatto tra le persone... […] Io non rispetto i principi della religione: bevo l'alcool, non faccio la preghiera, non vado alla moschea... L'ultima volta è stata sei, sette anni fa, forse prima... Nel periodo del BAC l’ho fatta per una settimana, una settimana e mezza, poi non più. La mia famiglia è praticante, ma non sempre. Mio padre fa la preghiera ma ogni tanto. Mia madre la faceva quotidianamente ma ora no...

[…] L’Islam, e la religione in generale, dice alla gente di amarsi, di condividere, di essere in pace. Amare le persone e Dio, aiutare le persone. Sono consigli di vita che sono importanti. La maggior parte prende l'Islam come una religione complicata, cerca su dei libri cosa fare, cosa non fare, ma non è così… è più semplice. Bisogna essere individui migliori, per se stessi e per gli altri (Tunisi, 14/02/2017).

La descrizione di Islam avanzata da Zied rientra in quella standardizzazione delle religioni contemporanee che prevede in particolar modo la convergenza nella religiosità, ovvero nell’accentuazione del rapporto individuale tra credente e sacro, rapporto espresso nei termini di una ricerca spirituale personale (Roy, 2017).

Ricordo che durante una conversazione pomeridiana con due studenti universitari di Ben Arous, Bilel (cugino di Abdelaziz) e Fathi, entrambi ventiquattrenni, traspariva come la religione fosse tema di riflessione e discussione tra pari, oggetto di rappresentazioni culturali e pratiche sociali condivise nei gruppi di giovani che si frequentano più o meno quotidianamente. Notavo anche una certa capacità a ‘giocare’ con l’elemento religioso, ricorrendo talvolta a un’ironia che lascia intendere una disincantata messa a distanza del ‘sacro’, come emerge dallo stralcio di intervista qui riportato.

Bilel: Una volta rispettavamo tutto della religione, abbiamo abbandonato l'alcool... E poi abbiamo abbandonato la preghiera e abbiamo solo bevuto... Scusa Dio! Dipende dai periodi... Ma rispettiamo la dignità della religione...

I vostri genitori fanno la preghiera?

A una certa età ritorni a Dio, fai sempre le preghiere... […] Quando siete tra voi, tra amici, parlate della religione?

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ai nostri obblighi, ci motiviamo reciprocamente. Ma talvolta per motivarci portiamo un po' di birra (Ben Arous, 24/02/2017).

Il divertito riferimento all’alcol testimonia la consapevolezza del suo statuto ambiguo, ma costituisce anche un’abitudine di consumo nei momenti di convivialità tra amici. Bilel possiede anche un piccolo studio che utilizza per riunirsi con gli amici e trascorrere il fine settimana. Ancora più significativo il ragionamento di Hichem, ventiseienne di Mohammedia, laureato in lingua e civiltà inglese all’università di Manouba, che impartisce lezioni di inglese via web per guadagnare qualcosa. Hichem è tra i leader di un’organizzazione della società civile locale di Mohammedia, e per questo concepisce l’impegno politico e associativo secondo un radicamento affettivo nella realtà locale della municipalità. Il suo proposito è di superare le tradizionali ideologie politiche, per ricomprendere nella pratica e nel pensiero militante anche marcatori culturali e identitari altri, a partire da quello religioso. Come vedremo nel prossimo capitolo, non si tratta solo di opportunismo, volto ad avvicinare strumentalmente la popolazione religiosa, ma di uno sforzo emotivo e cognitivo di stabilire un’unità di azione e di sentimento con la gente del luogo. Ciò che qui ci interessa, comunque, è la definizione di ‘religione’ cui Hichem perviene nel corso di un’intervista, realizzata al termine di una lunga frequentazione di terreno a Mohammedia.

Io sono credente, ma non in modo convenzionale. In un periodo della mia vita, anni fa, ero praticante per davvero. Il problema è l'essenza dell'Islam di oggi, che non è l'Islam che c'era in Tunisia cinquanta, sessant'anni fa. Questo è un islam che viene dall'Arabia Saudita, è un'altra 'setta' dell'islam che si è propagata in Tunisia. In Tunisia noi siamo malikiti, siamo al- ‘ashâ‘ira22. Ci sono poi anche delle persone che sono al-mu‘tazila23. Danno a ogni parola un senso, una ragione. Credono di dover mettere in discussione ogni cosa nella religione. Altrimenti è come se facessero altre cose rispetto a quanto ha detto Dio: è come seguire un cieco. […] la

22 Il Malikismo è la scuola giuridico-teologica sunnita (madh’hab) prevalente in nord Africa. L’al-‘ash‘arîya è invece un movimento teologico che afferma l’eternità del Corano e rifiuta il principio del libero arbitrio. A esso aderisce gran parte dell’universo sunnita.

23 Il mutazilismo è una scuola teologica risalente al IX secolo e fondata in Iraq. La dottrina mu‘tazila postulava il primato dell’indagine razionale nel confronto con la parola divina (kalām Allâhî).

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religione non è solo il cuore, ma anche il cervello. È mettere in discussione ogni cosa. È come Cartesio. Lo conosci? Il concetto 'cogito ergo sum'; riflettere per determinare cosa è giusto e cosa non lo è. Questo è l'Islam della Tunisia.

[...] La religione dovrebbe essere basata su cosa è giusto e cosa non lo è; non sulla punizione. Dio non esiste per punire, ma indicare la giusta via. La punizione incorre quando commetti qualcosa di sbagliato a danno di altri, un crimine: rubare, uccidere, adulterio... Ma anche se commetti uno di questi crimini, Dio è pronto a darti il suo perdono, se lo chiedi. Questo è il vero punto dell'Islam. Quello che vediamo oggi è invece è incentrato sulla punizione. Io preferisco l'Islam 'vecchio'. Dio non esiste per punire; se è così tu non ami Dio, ma lo temi, ne hai paura.

L'Islam convenzionale è quello che trova nella 'scrittura' il suo senso totale. Dimenticando che la cosa più importante nella religione è la sua abilità di essere compresa secondo una certa percezione, interpretazione. Se incentri tutto sulla 'scrittura', perderai il vero senso della religione, che è fare del bene, cercare il bene che va fatto. Per esempio, sai che tutti pensano che se rubi qualcosa in un paese musulmano, ti verrà tagliata la mano. Ma dai tempi del profeta, fino a recentemente, non c'è alcuna registrazione di un fatto del genere. Mai accaduto. Perché l'Islam è ragionevole. Hai la scrittura da un lato, ma il cuore dall'altro, ugualmente importante. Devi seguire il cuore. Per esempio, Umar al Ibn al Khattab, il secondo califfo, disse che non ci sarebbero più state punizioni per chi rubava, perché in quel periodo c'era una grande carestia. Quindi non era una problema di chi rubava, ma del sistema politico che non garantiva la sicurezza per le persone. Le persone, in quel tempo, parlavano dell'Ijtihâd, del 'pensare' prima del 'fare'; riflettere sul senso delle scritture prima di comportarsi di conseguenza. Non si tratta di prendere il 100 per cento delle cose scritte nei libri, ma piuttosto di fare ciò che sembra giusto in certe condizioni. L'interpretazione. Questa è la differenza tra l'islam convenzionale e non convenzionale. È l'islam scientifico, o filosofico. È molto vicino al sufismo. Uno dei più grandi imam della storia dell'islam è al Ghazali, sufi. Poi certo c'è molto estremismo anche nel sufismo: come in quelli che puniscono il proprio corpo per dimostrare... […] Certo, il sufismo tunisino è molto incentrato su musiche, su persone che vi hanno dedicato l'intera vita... Per esempio, Sidi Ben Arous è una persona che ha dedicato la sua vita a fare del bene; le persone gli hanno dedicato un mausoleo, gli hanno dedicato della canzoni per ricordarlo. [...]

Io faccio il digiuno al Ramadan, prego di tanto in tanto, leggo il Corano a casa… L'interpretazione, e la religione in generale, non è l'imam che te ne

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parla, che te la impone. Non c'è un clero specifico di imam. È molto individuale. La religione in Tunisia è molto individuale, è tutta incentrata su di te. Le persone possono accettare una tradizione di pensiero, ma dopotutto è una relazione tra te e Dio. Se non vado in moschea, per esempio, non c'è quello stigma sociale che è presente in Arabia saudita. Se qualcuno non va in moschea non viene percepito come un non- musulmano. In Tunisia diciamo Rabbi yainek, Dio ti guiderà [Dio ti benedica] (Mohammedia, 21/11/2018).

L’approccio di Hichem alla religione è ‘scientifico’, nella misura in cui prevalgono lo studio, la conoscenza, l’attitudine razionalista a riflettere e interpretare la scrittura. Eppure, non viene a mancare l’evidenziazione del rapporto individuale tra Sé e Dio e, pertanto, della spiritualità come elemento caratterizzante dell’esperienza religiosa.

Dale Eickelman e James Piscatori (1996) hanno definito ‘oggettivazione’ dell’Islam contemporaneo l’attitudine degli attori sociali a formulare il significato dell’essere musulmani e a definire ‘oggettivamente’ cosa l’Islam sia o non sia. L’oggettivazione dell’islam è una conseguenza della frammentazione dell’autorità in campo religioso (Eickelman, 2001) e dell’individualizzazione della pratica e della conoscenza religiose nell’età contemporanea (Merzouk, 2012). Essa comporta che idee precedentemente implicite divengano esplicite, assumendo la forma di pensieri e riflessioni, prodotte e condivise dai credenti, specie in seno alle classi medie, maggiormente toccate dalla massificazione dell’educazione superiore e dalla diffusione delle nuove tecnologie comunicative, contribuendo all’emergenza di una ‘sfera pubblica’ plurale e sensibile a temi politici e religiosi – ciò che Dale Eickelman e Armando Salvatore definiscono ‘public Islam’24(2004). In questo senso, l’oggettivazione

dell’islam è un fenomeno eminentemente moderno.