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1. Prima e dopo la Rivoluzione, la Tunisia (neo)liberale

1.1 Buco nero

Inflazione, disoccupazione allarmante, indebitamento, abbassamento delle riserve in valuta: a otto anni dal 2011, la Tunisia è un «buco nero economico, sociale e politico da cui nessuno sa come uscire (Brésillon 2018)». Le ricette del Fondo Monetario Internazionale, cui i governi della transizione si sono appellati per tentare di uscire da una crisi economica e sociale incancrenita, ripercorrono le direttrici del piano di aggiustamento strutturale degli anni Ottanta: liberalizzazione e deregolamentazione. Tuttavia, senza un miglioramento delle capacità produttive del Paese, la liberalizzazione apre la strada a maggior disoccupazione, deteriorando ulteriormente il bilancio finanziario e commerciale nazionale, già ampiamente deficitario, provocando l’incremento dell’indebitamento

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dello Stato tunisino nei confronti dei creditori internazionali4,

principalmente Fondo Monetario Internazionale, Banca Europea degli Investimenti, Banca Mondiale, Stati nazionali come Francia, Germania e Giappone5.

Di fronte alla paralisi economica e sociale, lo Stato ha tentato di mantenere la pace sociale mediante insostenibili assunzioni nella funzione pubblica,

inizialmente per reintegrare i beneficiari dell’amnistia generale che ha interessato i prigionieri politici con il decreto del febbraio 2011, poi per regolarizzare i circa 50.000 lavoratori impiegati nelle ditte in subappalto – cioè con prestazioni esternalizzate – e, in maniera generale, per riassorbire la disoccupazione. Fra il 2011 e il il 2017 si è arrivati ad avere un effettivo di 200.000 funzionari, elevando la massa salariale dal 10,8% al 15% del prodotto interno lordo: uno shock senza precedenti e un tasso fra i più alti al mondo. Per calmare le ricorrenti esplosioni di proteste, il governo ha fatto ricorso anche ai “cantieri”, cioè ad assunzioni in società dette “ambientali” o di giardinaggio, posti di lavoro il cui unico merito è di distribuire magri salari (meno di 100 euro al mese) alle famiglie povere. Invece di portare vere soluzioni alla questione sociale, tali spese hanno asfissiato la capacità d’investimento dello Stato e aperto le porte a un ciclo di grave crisi delle finanze pubbliche (Brésillon, 2018).

La questione del debito appare centrale, non solo perché oggi la Tunisia ha bisogno di nuovi prestiti per far fronte al debito accumulato per la concessione dei prestiti passati, a partire dalla prima tranche degli anni Ottanta. Miliardi di dinari che non si traducono in investimenti e crescita economica ma in affossamento ulteriore del budget statale per ripianare debiti pregressi. Un circolo vizioso aggravato dalla torbida configurazione assunta dai modelli predittivi, elaborati per conto del Fondo Monetario Internazionale dalla stessa agenzia, Eurostat, responsabile della

4 Stando alle stime del Fondo Monetario Internazionale, il debito corrisponde al 68,6% del prodotto interno lordo tunisino. Cfr. https://www.theguardian.com/commentisfree/2018/jan/17/imf-tunisia-people-rioting-2011-economic- reforms (ultima consultazione: 27/09/2019).

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manipolazione dei dati relativi alla situazione finanziaria greca per giustificare le draconiane misure di austerità6.

Al di là delle sue immediate ricadute sul piano economico, il debito assurge a forma governamentale prediletta nel contesto globale neoliberista contemporaneo, assumendo così una rilevanza antropologica che permea non solo i rapporti tra comunità e stati nazionali, ma anche le istituzioni politiche e il modello di relazioni sociali all’interno di una comunità (Graeber, 2012; Solinas, 2007).

La ricetta neoliberale pretesa dai creditori internazionali e dagli istituti finanziari che tengono in mano le sorti della Tunisia presenta gli stessi ingredienti che hanno portato alla crisi economica e sociale su cui la rivoluzione si è innestata. In cambio delle due linee di prestito ottenute dal Fondo Monetario Internazionale nel 2012 e nel 2016 (più del 20% del budget finanziario nazionale tunisino vanno consacrati al rimborso dei creditori), la Tunisia deve impegnarsi nel ripianamento dei conti pubblici, aumentare il gettito fiscale, ridurre la massa salariale nella funzione pubblica, congelare le assunzioni nella pubblica amministrazione, riformare il sistema pensionistico, rimuovere o ridurre le sovvenzioni statali sui beni di prima necessità. Queste ultime rientravano nel quadro redistributivo delle politiche sociali tunisine intraprese all’indomani dell’indipendenza, come strumento di protezione sociale e meccanismo di lotta contro la povertà7. La riforma del sistema delle sovvenzioni riguarderà soprattutto il campo energetico (il consumo dell’energia elettrica) e tutti i settori industriali.

Da un punto di vista macroeconomico, la subordinazione della crescita e dello sviluppo al controllo dell’inflazione ha comportato una progressiva svalutazione del dinaro tunisino (al punto che il suo valore rispetto

6 Secondo Nathan Legrand, le previsioni di crescita stimate dal Fondo Monetario Internazionale costituiscono a ben vedere degli obiettivi chimerici. Lo stesso tasso di indebitamento previsto al 51% del prodotto interno lordo per il 2019, così come previsto dalla legge finanziaria tunisina del 2016, ratificata in accordo ai dettami dell’FMI, è stata clamorosamente smentita. Cfr. https://latunisiededina.blogspot.com/2016/01/la-dette-etrangle-toujours-le- peuple.html (ultima consultazione il 27/09/2019).

7 Secondo l’istituto nazionale di statistica (INS), il tasso di povertà nel 2010 era del 15,5%. Si calcola che le sovvenzioni statali sui beni di prima necessità (in particolare i generi alimentari come semola, cous cous, farina, latte, pane, pomodoro industriale e olio vegetale) comportino un abbassamento del tasso di povertà di quasi cinque punti di percentuale. Cfr. a questo proposito questo studio dell’INS relativo al 2013 http://www.ins.tn/sites/default/files/publication/pdf/note_technique_subvention_2013_03_14.pdf (consultato il 13/02/2018).

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all’euro si è quasi dimezzato in quattro anni), misura suggerita da creditori e istituti finanziari internazionali per rendere le esportazioni più competitive: in realtà, gli effetti immediati del deprezzamento della valuta nazionale hanno comportato la crescita dell’inflazione e un’ulteriore contrazione dei consumi (Brésillon, 2018).

Ma la ricaduta più preoccupante dell’austerità è data dall’impoverimento vertiginoso cui è andata incontro la classe media, formazione sociale che ha costituito, almeno dai tempi dell’indipendenza, la cartina di tornasole di un Paese da sempre bramoso di autorappresentarsi come ‘moderno’ e assai vicino agli standard politico-economici e culturali occidentali (Abassi 2003; 2005). Stando alle stime del Forum Tunisino dei Diritto Economici e Sociali, se nel 2010 la classe media tunisina costituiva il 70% della popolazione (andando indietro nel tempo al 1984 la percentuale cresce in maniera mastodontica all’84%), nel 2018 essa rappresenta poco meno della metà della popolazione. Questo abbassamento rivela l’impoverimento di 1,9 milioni di lavoratori della classe media (ulteriormente scomponibile in frazioni interne secondo il livello economico), di cui il 60% riceve un salario inferiore ai mille dinari mensili (poco più di 285 euro), mentre il 33% percepisce meno di 500 dinari8.

Il dato colpisce e atterrisce, ancor più perché la classe media tunisina corrisponde forse più a un mito che a un indicatore socio-economico rigoroso, come scrive Baccar Gherib (2012). Simbolo delle possibilità di ascensione sociale e del ruolo proattivo dello Stato nella promozione dello sviluppo e della crescita il disfacimento della classe media tunisina trova la sua espressione più dolorosa nella disoccupazione cui vanno incontro i giovani detentori di livelli di istruzione superiore. L’ascensore sociale è bloccato, e la forbice tra élites economiche e fasce ormai ridotte alla sussistenza va allargandosi sempre più9.

L’aumento dei livelli di povertà è facilmente constatabile a partire da una semplice passeggiata lungo la principale via di Tunisi, l’Avenue

8 Per maggiori dettagli rinviamo allo studio pubblicato sul sito del quotidiano tunisino Le Temps: http://www.letemps.com.tn/article/106615/la-classe-moyenne-en-chute-libre (consultato il 13/02/2018).

9 Le élites economiche tunisine, a suo tempo inglobate nel capitalismo clanico di Ben Ali-Trabelsi, sono sopravvissute al cambiamento di regime grazie a strategie di diversificazione dei rischi quali l’entrismo politico e il riposizionamento nella società come imprescindibili attori economici (Kchouck, 2017).

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Bourguiba, luogo in cui dal 2011 si esprime la rinnovata libertà nella presa di parola e la ritrovata agibilità politica nelle forme di manifestazioni e sit- in continui. Di sera, ai margini dell’avenue, sugli scalini di café, ristoranti e negozi chiusi, donne sole chiedono l’elemosina prima di dormire avvolte in una coperta striminzita. In alcune occasioni ho provato a indagare sulla provenienza di queste donne, contraddizione acuta dei dislivelli economici all’opera nella ricomposizione sociale tunisina dopo la rivoluzione. Passando in rassegna quella puntiforme sequela di esempi di indigenza, ponevo delle semplici domande in arabo tunisino, derja, sulla provenienza di quelle donne. Una di queste, stupita dalle attenzioni rivoltele da un ragazzo evidentemente straniero, mi rispose dopo qualche esitazione di essere originaria di Kairouan, governatorato della Tunisia centrale tra i più poveri del Paese10, e di vivere coi suoi cinque figli a Kabaria, distretto a una decina di chilometri da Tunisi, esempio di come lo Stato, negli anni Cinquanta, provvide alla regolamentazione urbana degli abitanti proveniente dalle regioni rurali tramite la creazione di conglomerati e quartieri edificati su porzioni di terreno a basso costo (Sebag, 1998). Col marito disoccupato, la donna mi disse in maniera spiccia che per dare da mangiare ai suoi figli doveva necessariamente trascorrere la notte a Tunisi, dove poteva racimolare qualche soldo con l’elemosina senza cadere nell’umiliazione di farsi vedere dai conoscenti di Kabaria. Un’altra donna, ipovedente, seduta sul gradino di un ristorante, mi disse di essere originaria di Sidi Bouzid, e di non avere famiglia, motivo per cui traeva dall’accattonaggio nella capitale le minime risorse per il suo sostentamento. Sebbene frammentari ed estremamente labili per poter avvalorare nessi causali e tesi esplicative inerenti alla volatilità e circolazione dei patrimoni (Delille, 2013)11, questi fugaci incontri restituiscono i contorni di una geografia intessuta di storiche diseguaglianze territoriali tra regioni interne e costiere, attorno a cui ha

10 Cfr. https://africanmanager.com/13_tunisie-kairouan-enregistre-le-taux-le-plus-eleve-de-pauvrete-avec-34/ (consultato il 13/02/2019).

11 L’etnologa francese Germaine Tillion ha rilevato la persistenza in Tunisia della diseredazione delle figlie uniche che non si sposano nella linea agnatizia (Délille, 2013).

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preso forma la configurazione statuale nazionale contemporanea (Gherib 2017, Pontiggia 2017).

Ho rilevato il progressivo deterioramento delle condizioni economiche di una parte dei miei interlocutori durante la fase della ricerca di terreno, giovani tunisini della classe media tra i 17 e i 35 anni, di cui verrà dato conto nei prossimi capitoli, alle prese con la perdita del posto di lavoro da parte di uno dei genitori e la conseguente contrazione delle possibilità di consumo e di spesa nella vita di tutti i giorni.

Collocare le dinamiche economiche sopra citate nel contesto più ampio del ‘sistema-mondo’ (Wallerstein 1982; Wolf, 1990), permette di legare la crisi economica strutturale della Tunisia alla sua integrazione nel più ampio quadro della divisione internazionale del lavoro, in cui il Paese ha avuto assegnato il ruolo di produttore di materie prima agricole e minerarie e di fornitore di manodopera non specializzata a basso costo (Brésillon, 2018). Il tema della dipendenza (Baran 1962; Frank 1969) permette di legare in un unico sguardo le rotte dello sviluppo che lambiscono in modo differenziato aree produttive ed economiche su scala globale e soggetti e comunità che ne vengono attraversate o escluse. Cosa ancor più importante, consente di ravvisare pervicaci forme di cripto- colonialismo (Herzfeld, 2002) in cui sono coinvolte tanto le vecchie potenze coloniali europee quanto gli stessi attori politici ed economici tunisini, che incorporano nel moderno ‘discorso’ sulla Tunisia motivi e tropi che attingono alla medesima retorica sviluppista e neoliberale il cui impianto risale ai tempi di Habib Bourguiba (Boularès, 2012).

Dopo le fallimentari politiche sviluppiste tunisine degli anni Sessanta (Zeghal, 2017; Zghal, 1967), nel decennio successivo si consumò un radicale ribaltamento di paradigma, quando il governo adottò una nuova politica di sviluppo industriale e di liberalizzazione economica, contrassegnata dall’apertura (infitah). Vennero stabilite agevolazioni fiscali per incoraggiare l’iniziativa privata straniera, specie nelle esportazioni. Con la legge 72-38 venne istituito «il regime di zona franca (extra-territorialité) per le imprese totalmente esportatrici. Questa zona amministrativa aveva ed ha tuttora per delimitazione geografica le cinte dell’impresa e favoriva l’insediamento di non-residenti (Lainati,

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2003:117)». Fu proprio in quegli anni che presero avvio le attività di decolonizzazione delle grandi imprese italiane in Tunisia (è il caso di Eni e Fiat, ad esempio).

Il Nuovo Codice degli Investimenti emanato nel 1994 e riservato soprattutto alle imprese totalmente esportatrici con almeno il 66% del capitale appartenente a un investitore straniero o tunisino non residente esemplifica limpidamente l’extraversione dell’economia tunisina. Nel 2008, l’esportazione di beni e servizi ammontava al 55,6% del prodotto interno lordo. Dopo la rivoluzione, il calo delle esportazioni (e degli investimenti stranieri) è stato netto, esercitando un duro colpo al sistema nel suo complesso: nel 2017 il volume era del 43,5%12. Su 1574 imprese a partecipazione straniera (di cui 966 a capitale interamente straniero) 1296 sono totalmente esportatrici. Similmente, delle imprese tunisine quasi un terzo è orientato all’esportazione di prodotti, principalmente nel campo dell’industria tessile13.

I dati appena elencati trovano giustificazione non in un certo gusto feticistico rivolto alla cifra, bensì nell’illustrare l’estroversione del modello di sviluppo tunisino.

Nel 2014, la Banca Mondiale denunciava la segmentazione dell’economia tunisina, stritolata tra un mercato interno controllato – fino al 2011 – dalle imprese inglobate nel network dei clan Ben Ali e Trebelsi e un mercato esterno in via di indebolimento, ridotto a un assemblaggio di prodotti le cui parti sono importate dall’estero e destinati prevalentemente a due Paesi europei, Francia ed Italia, verso cui è rivolto oltre il 55% dell’export totale. In questo modo, le esportazioni non contribuiscono in alcuna misura al miglioramento della capacità produttiva locale (World Bank, 2014).

Se per sviluppo locale o endogeno si intende un processo sociale attuato mediante il coinvolgimento di gruppi prima esclusi tanto dalla produzione quanto dalla distribuzione, al fine di dotare un territorio di autonomia,

12 Fonte: World Bank, https://data.worldbank.org/indicator/NE.EXP.GNFS.ZS?locations=TN&view=chart (consultato il 14/02/2019).

13 Fonte: Agence de Promotion de l’Industrie et de l’Innovation (2019), http://www.tunisieindustrie.nat.tn/fr/etrangere.asp (consultato il 14/02/2019).

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anche mediante la valorizzazione di conoscenze e saperi particolari locali, è chiaro che il caso tunisino non risponda a questa definizione (Garofali 1991). Questa politica economica basata sull’esportazione e sull’attrazione dei capitali stranieri desiderosi di delocalizzare secondo logiche di convenienza apporta «scarsi effetti moltiplicativi sull'economia locale. (Ivi, pp. 71)»; il territorio non è che «usato come ‘container’ per processi produttivi controllati dall’esterno (Id., 1992: 59)».

Del resto, che l’eccessiva dipendenza della Tunisia dallo spazio economico europeo fosse una miccia destinata a esplodere è stato confermato dalla rapidità con cui la contrazione – per non dire la caduta – della domanda europea in seguito alla crisi che ha sconvolto i mercati mondiali a partire dal 2007 ha sconquassato la fragile impalcatura su cui la crescita tunisina si appigliava (de Vasconcelos, 2014).

Ma il carattere di dipendenza permanente e strutturale dell’economia tunisina emerge con ancor più virulenza volgendo lo sguardo all’ALECA (Accordo di Libero Scambio Completo e Approfondito) che nel 2020, dopo sei anni di discussione e due di negoziati formali, dovrebbe giungere in dirittura d’arrivo. L’accordo, dalle conseguenze cruciali per il futuro della Tunisia, riguarda ambiti determinanti come il commercio dei prodotti agricoli e della pesca; le regole sanitarie e fitosanitarie; il commercio e lo sviluppo sostenibile; la commercializzazione dei servizi e dell’investimento; la regolazione delle dispute in materia di investimenti e sistema giurisdizionale degli investimenti; la protezione della proprietà intellettuale; le misure per la difesa commerciale; i mercati pubblici; le regole della concorrenza e degli aiuti statali; le procedure doganali; le regole di trasparenza; le Piccole e Medie Imprese; le disposizioni relative alla commercializzazione dell’energia e delle materie prime.

Cosa ancor più importante, per accordare i prestiti sanciti nel 2014 e 2016, l’UE ha imposto la condizione dell’adozione di progetti di legge e decreti che convergano con la normativa europea (è il caso dell’omologazione dei prodotti industriali). L’ALECA determinerà condizioni straordinariamente favorevoli ai partener commerciali europei della Tunisia: tutti i brevetti europei, ad esempio, verranno riconosciuti e validati nel paese nordafricano, proteggendo di fatto gli stessi prodotti da

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ogni forma di concorrenza. Così, attraverso la pressione del debito, viene lesa la sovranità legislativa ed economica della Tunisia.

Infine, le conseguenze nefaste dell’ALECA apporterebbero delle conseguenze anche al comparto alimentare: secondo Habib Ayeb, l’accordo aggraverebbe la già ingente dipendenza alimentare della Tunisia, attualmente valutata al 55% del fabbisogno giornaliero – un tunisino su due si nutre con prodotti che vengono dall’estero14. L’apertura

indiscriminata a produttori e distributori europei comporterebbe una perpetuazione dell’esportazione di frutta e verdura fuori stagione e dell’importazione massiccia di cereali, alimento base della dieta tunisina. I temi dell’agricoltura e della terra esulano dagli obiettivi di questo lavoro; tuttavia, già dall’esame dei contesti in cui il sollevamento popolare della stagione 2010/2011 ha avuto origine, ovvero le regione rurali e interne del paese (Sidi Bouzid, Thala, Kasserine), emerge la loro crucialità e pregnanza per qualsiasi ragionamento inerente alla Tunisia contemporanea (Miossec, 2012; Barrières, Kréfa, 2018). Come scrive Alia Gana, due grandi invariabili sono presenti nelle dinamiche dello sviluppo della Tunisia degli ultimi trent’anni: la regressione dell’agricoltura nella creazione di reddito per gli abitanti delle regione rurali e l’accentuazione della sproporzione tra zone litorali e regioni interne, di cui si darà maggior conto nelle prossime pagine (Gana 2018; 2013).

In tema di dipendenza, infine, giova ricordare che, come ricorda la storica Leyla Dakhli, specialista della storia sociale e intellettuale del mondo arabo, le élites politiche tunisine post-rivoluzionarie non sono il prodotto di una formazione politica e intellettuale riconducibile all’alveo della funzione pubblica statale, come avveniva in passato15. Gli itinerari formativi e professionali dell’attuale classe dirigente passano per quella macchina anti-politica (Ferguson, 1994) che consta di multinazionali, organizzazioni non governative internazionali, istituzioni finanziarie

14 Cfr., H. Ayeb, Uscire dall’ALECA e dal sistema alimentare mondiale per una nuova sovranità alimentare, http://www.tunisiainred.org/tir/?p=7862 (consultato il 14/02/2019).

15 M. Lakhal, Entretien avec Leyla Dakhli: «L’exception tunisienne», ses usages et ses usagers, https://nawaat.org/portail/2018/12/10/entretien-avec-leyla-dakhli-lexception-tunisienne-ses-usages-et-ses-usagers/, consultato il 17/02/2018.

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private. Per questo motivo, essa sarebbe più sensibile a inquadrare le priorità economiche della Tunisia entro l’orizzonte dell’estroversione e dei rapporti internazionali più che ad assumere responsabilità diretta in rapporto allo sviluppo regionale.

In ogni caso, la crisi economica certo non riguarda la sola Tunisia. Dalla fine degli anni Novanta, molti Paesi arabi hanno attuato politiche di liberalizzazione economica (riducendo sussidi statali e privatizzando servizi e settori fino ad allora preminentemente pubblici) trasformando lo Stato da un’istituzione paternalistica e provvidenziale a un modello di

governance ‘a welfare limitato’ (Heydarian, 2011). La deregolamentazione e l’apertura indiscriminata ai mercati fece sì che i prezzi di servizi e prodotti fondamentali fossero sempre più influenzati da fattori e variabili esterni. La galoppante disoccupazione, le laceranti diseguaglianze nel tessuto sociale e la crescita demografica drastica (con l’incremento esplosivo di popolazione giovane e adolescente compresa tra i 15 e 29 anni, il cosiddetto youth bulge (Pulikkalakath, 2019)), hanno contribuito a generare un diffuso clima di risentimento sociale e di sfiducia politica in Nord Africa e Medioriente (UNDP 2009; 2005). La percezione di una evidente asimmetria nelle relazioni politiche internazionali affiorava del resto correntemente nelle conversazioni e negli incontri che ho avuto sul campo con i miei interlocutori, perlopiù giovani. Talvolta essa assumeva una connotazione radicale, schiettamente contestativa e anti-imperialista, in cui la denuncia della dipendenza economica e politica tunisina nei confronti dell’Europa (e della Francia in particolar modo) veniva contrapposta alla necessità di un ritorno alle radici identitarie, la cui espressione più evidente è data dal recupero di una chiara identità religiosa estromessa dalle visioni e dalle politiche moderniste filo-occidentali delle classi dirigenti.

Nella maggior parte dei casi, tuttavia, è l’esperienza quotidiana a rendere la dipendenza e l’ineguaglianza dei rapporti storico-politici tangibili. I temi del valore e dei costi dei beni di consumo primari - come l’olio d’oliva – erano ricorrenti anche tra i giovani tunisini meno politicizzati:

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Noi produciamo l’olio d’oliva. Da sempre. La Francia importa dalla Tunisia l’olio d’oliva e lo vende a un prezzo molto più basso che in Tunisia. In Francia puoi comprare l’olio d’oliva tunisino a 6 euro; qui ti servono 30 dinari e più. Questo Paese è stato svenduto! Esiste un complotto per impoverire la Tunisia, e i nostri politici ne fanno parte (Ben Arous, 15/10/2017)16!

Se tu trovassi qui le condizioni giuste rimarresti. Ognuno vuole restare nel suo paese natale, è normale.

La gente se ne va perché non può avere una macchina, una casa, non può sposarsi, come gli animali, che se ne vanno perché non c'è cibo, così le