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Sollevarsi Una cultura della rivolta?

1. Prima e dopo la Rivoluzione, la Tunisia (neo)liberale

1.3 Sollevarsi Una cultura della rivolta?

Nel 1978 uno sciopero generale indetto dal sindacato tunisino UGTT (Union Générale des travailleurs tunisiens) per il 26 gennaio si trasforma in una rivolta per sedare la quale occorre l’intervento dell’esercito, al prezzo di centinaia di morti e feriti. Conosciuto come ‘giovedì nero’, quell’evento segnò un riassestamento dei rapporti tra sindacato e governo, nonché l’avvio di una fase in cui il socialismo nazionalista prese a cedere sempre più spazio all’adozione di politiche economiche liberali (Le Saout, Rollinde, 1999).

Nel gennaio del 1984, Bourguiba è costretto a far ricorso all’esercito per reprimere quella che è stata denominata la ‘rivolta del pane’: una rivolta popolare dovuta alla decisione del governo di raddoppiare i prezzi dei prodotti a base di cereali, misura poi annullata in seguito ai gravi disordini che paralizzarono il Paese tra il 27 dicembre e il 6 gennaio.

Nel 2008 un grande movimento di protesta si scatena nel bacino minerario di Gafsa (nelle località di Redeyef, Métaloui, Mdhila, Moularès, ecc.) contro i meccanismi clientelari e corrotti di assunzione della manodopera da parte della Compagnia dei Fosfati di Gafsa. Le rivendicazioni dei manifestanti, viene repressa con gli arresti dei leader del movimento. Come scrivono Gobe e Chouikha (2009), la rivolta toccò popolazioni collocate ai margini dello sviluppo socio-economico, abitanti di una regione (al confine con l’Algeria) essa stessa ai margini della Tunisia. I partiti di opposizione e la centrale sindacale, l’UGTT, non ricoprirono ruoli di primo piano nell’organizzazione della protesta. Né tantomeno sono riusciti a capitalizzare il conflitto sociale in una contro-egemonia durevole e significativa. Il repertorio della protesta è consistito prevalentemente, oltre a sit-in e scioperi della fame, nell’allestimento di tende e accampamenti spontanei per bloccare l’attività estrattiva del polo minerario. Gli attori coinvolti nella protesta sono diversi: diplomati disoccupati, lavoratori precari, studenti, familiari di operai vittime di incidenti sul lavoro. Tuttavia, nonostante la risonanza della mobilitazione,

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non solo essa non produsse risultati apprezzabili ma non condusse nemmeno al radicamento di un movimento sociale solido e duraturo. Quella intrinseca debolezza, che deriva dal carattere di ‘tumulto’ del movimento, si combinò alla repressione poliziesca e militare con cui venne arginata l’ondata di ribellione. Inoltre, le organizzazioni politiche e civili coinvolte nella protesta non riuscirono a intermediare tra attori che sino ad allora tendevano a ignorarsi reciprocamente, senza poter dunque pervenire a una sintesi politica in grado di far progredire il livello e la portata della ribellione (Tarrow, Tilly, 2009). Quest’ultimo punto è da tenere in considerazione, dacché, come si vedrà in seguito, viene tutt’oggi individuato come elemento di debolezza dei movimenti sociali e delle ondate di rivolta che scuotono periodicamente la Tunisia.

Eppure, il movimento del 2008 è straordinariamente illuminante rispetto alla crisi del ‘sistema Ben Ali’, al punto che Larbi Chouikha e Vincent Geisser (2010) traggono da esso delle ‘lezioni’ politiche: i meccanismi securitari di controllo sociale e integrazione disciplinare impiegati dal regime riuscirono a stento a contenere il conflitto; il sotto-testo economico della protesta scalfì impietosamente il mito della Tunisia ‘drago del Mediterraneo’ propagandato dal regime; i partiti politici e i sindacati furono sorpassati dall’audacia contestativa dei cittadini ordinari. I fatti di Gafsa vengono così collocati sulla stessa scia genealogica della stagione rivoluzionaria del 2010-2011, considerandoli retrospettivamente come il preludio a un imminente Primavera. In entrambi i casi, gli attori principali furono le popolazioni «rimaste indietro» nello sviluppo economico nazionale tunisino (Chouikha, Gobe, 2009: 3).

Anche negli anni successivi al 2011, le tensioni politiche e il conflitto sociale ebbero la loro origine nelle regioni dell’arrière-Pays: nel 2016 un movimento di protesta contro la miseria e la disoccupazione si è formato a Kasserine – dove è morto un giovane disoccupato che era salito su un palo della luce per protestare contro l’esclusione della sua domanda di impiego presso la locale pubblica amministrazione – per poi diffondersi ad altre regioni del Paese e raggiungere le principali città, tra cui Tunisi. Nel 2018 viene lanciata la campagna Fech nestannaw? (Cosa aspettiamo?), erede del movimento Menich msâmah (Non in mio nome),

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che protestava contro il progetto di legge di riconciliazione nazionale volto ad amnistiare alti funzionari del regime di Ben Ali.

Fech nestannaw invitava alla mobilitazione contro l’aumento dei prezzi

dei beni di prima necessità e la legge finanziaria inquadrata nelle politiche neoliberali del governo. Dopo un paio di settimane e alcune notti di scontri con le forze dell’ordine nelle regioni dell’interno del Paese, il movimento si indebolì inesorabilmente.

Questa superficiale presentazione cronologica delle principali rivolte avvenute in Tunisia negli ultimi trent’anni non esaurisce certo la totalità delle occasioni di fibrillazione politica e risentimento sociale che danno forma a una densa nebulosa di protesta, rancore, senso di estromissione, deprivazione, marginalità.

Nel maggio del 2017, ad esempio, nel sud della Tunisia (in particolare a Tataouine) prese piede una campagna, “Dov’è il petrolio?”, che rivendicava una più equa redistribuzione dei proventi derivanti dalle risorse naturali (gas e petrolio). Un fermento che si tradusse nella mobilitazione della popolazione locale, che impedì l’accesso alle stazioni di lavorazione delle risorse energetiche, comportandone la temporanea chiusura.

Il tema del petrolio, in particolare, è presente nelle dissertazioni di giovani tunisini con i quali ho avuto modo di interloquire varie volte nel corso del mio lavoro di ricerca e che gridavano al complotto di una fuoriuscita segreta dell’oro nero dal territorio nazionale, una volta lavorato, ed esportato altrove senza alcuna ricaduta positiva per il Paese.

Nei giorni in cui la protesta fu più intensa, un adolescente, Anouar Sakrafi, fu colpito ‘accidentalmente’ a morte da un militare. In occasione di un soggiorno nella regione sudoccidentale del Djerid, ho attraversato ampie porzioni di territorio toccate dal fermento di quel movimento di ribellione. Persino nelle ravvicinate porzioni di deserto del Sahara, presso Ksar Ghilane, sugli smartphone dei ragazzini del posto impegnati nel servizio di noleggio dei quad, a bordo dei quali i turisti si avventurano per le prime dune del Grande Erg orientale, circolavano freneticamente le immagini di ciò che stava accadendo a Tataouine.

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Le stazioni di lavorazione del gas lungo le desolate lingue di asfalto che conducono a Douz, porta del Sahara, erano presidiate dalla guardia nazionale. Nei pressi di queste stazioni sorgono alcuni isolati caffè, allestiti sotto tendoni e recinti di canna, in cui è possibile trovare momentaneo ristoro. Presso uno di questi mi fermai una mezz’oretta. Quella stessa notte, la camionetta della guardia nazionale ivi appostata venne data alle fiamme, come ebbi la possibilità di comprendere ripassandovi davanti il giorno successivo. I militari avevano inoltre abbandonato il presidio. A Douz, in seguito ai tumulti di Tataouine gli esercizi commerciali, le botteghe, i negozi, vennero chiusi. Per le strade, giovani e adulti erano seduti a gambe incrociate, in cerchio, a discutere in assemblea di quanto accaduto il giorno precedente.

Riporto queste note frammentate dal diario di campo benché in quell’occasione non abbia potuto raccogliere informazioni dettagliate sulla modalità dell’organizzazione della protesta, né sull’economia morale che l’ha sostenuta. Tuttavia, credo che – nella loro brevità e superficialità – esse possano essere utili per comprendere la rapidità e l’imprevedibilità delle forme che il movimento sociale assume in ampie aree della Tunisia, ma anche loro carattere tendenzialmente effimero22.

La rapida – e per nulla esaustiva – carrellata di ondate di protesta nella Tunisia degli ultimi quarant’anni ha l’obiettivo di introdurre un tema che già nel 1989 René Gallissot si proponeva di enucleare: il tumulto, che parrebbe scandire ciclicamente non solo la storia della Tunisia ma dell’intero Maghreb, è indice dell’ineluttabile frammentazione cui è destinata quest’area geografica, politica e culturale? È riscontrabile una ‘cultura’ della rivolta, non senza legami con l’anima contestataria della religione musulmana (Badie 1987; Burke III, Lapidus 1990)? O i movimenti di protesta contribuiscono piuttosto, per paradossale che possa sembrare, alla riproduzione dei regimi al potere?

22 Circa la spontaneità di queste proteste, molte voci della società politica e di quella civile sostengono che in realtà siano etero-dirette per destabilizzare il quadro politico tunisino. Cfr. Tunisie: lendamain de rage à Tataouine, http://afrique.lepoint.fr/actualites/tunisie-lendemain-de-rage-a-tataouine-23-05-2017-2129768_2365.php (consultato il 24/02/2019).

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Quanto all’esistenza di una ‘cultura del tumulto’ imbevuta del linguaggio politico dell’islam, questo aspetto verrà trattato nelle prossime pagine, e ad esse si rimanda.

L’irrimediabile frammentazione politica e sociale, di cui continui ed effimeri sommovimenti costituirebbero la cifra sotterranea, ripropone il tema della segmentarietà, nel cui paradigma è stata a lungo sussunta l’antropologia del Maghreb (ma più in generale, di gran parte dei Paesi arabi), almeno fino all’innesto geertziano.

Quando in antropologia si parla di ‘modello lignatico-segmentario’ viene in mente Edward Evans Pritchard, che nel suo imponente lavoro etnografico dedicato ai Nuer dell’attuale Sud Sudan (2016), dinamizzò il concetto durkheimiano di società segmentaria (2016) per descrivere i rapporti di fusione e fissione – alleanza e conflitto – tra i segmenti lignatici Nuer. L’oscillazione reversibile tra unione e opposizione intra-tribale era tale da conferire alla società una condizione di sostanziale equilibrio, pur in assenza di Stati ricalcati sul modello europeo.

La pregnanza del modello segmentario nelle rappresentazioni scientifiche che sono state a lungo applicate allo studio delle dinamiche politiche arabe e maghrebine è inequivocabile23, al punto che alcuni autori parlano di una

egemonia della teoria segmentaria (Roberts, 2003)24.

Non è questa la sede in cui dibattere approfonditamente della morfologia sociale tribale (Rachik, 2016), né delle effimere cristallizzazioni di potere endemiche al mondo tribale (Gellner, 1986), previa verifica e validazione dei concetti di tribu e tribalismo. Se, come nota brillantemente Stefano Pontiggia (2017), il discorso antropologico post-moderno consente al tema dell’appartenenza tribale di assumere una connotazione volontaria ed autoattribuita (James, 2006), la tribu resta un principio di affiliazione onomastica (Berque, 1972), referente identitario in cui le costruzioni

23 I primi riferimenti a un’organizzazione sociale costruita su gruppi segmentari sono contenuti nello studio di Robertson Smith sulle popolazioni beduine della penisola arabica (1985); i lavori di Masqueray (1886) e Montagne (1930) sono invece consacrati al Maghreb, rispettivamente all’Algeria e al Marocco. Persino gli esempi di società segmentaria contenuti in Durkheim sono debitori delle osservazioni cabile di Hanoteau e Letourneux (1886). E la stessa teorizzazione di Evans-Pritchard non sarebbe stata possibile senza i soggiorni dell’autore tra i beduini del deserto libico-egiziano tra il 1932 e il 1934 e, soprattutto, durante la Seconda Guerra Mondiale in Cirenaica tra i Senussi resistenti all’invasione coloniale italiana (Evans-Pritchard, 1979).

24 Va subito specificato che l’idea dell’esistenza di società puramente segmentarie trova ben altro che unanimi consensi (Amselle, 1999; Berque, 1978).

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ideologiche (Bourdieu, 2003) – i modelli culturali – della parentela e della solidarietà sono elementi fondanti (Sandron, 1998), anche in un Paese – come la Tunisia – in cui lo Stato post-indipendenza si è fortemente attivato per affievolire i legami di discendenza (Pontiggia 2017)25.

Il motivo per cui il richiamo alla segmentarietà non è feticistico risiede nel fatto che la tesi di Stati arabi sottoposti a turbolenti ed endemici fattori di ciclica dissidenza da parte di organizzazioni tribali che pur ne riconoscono potere e autorità è ancora oggi presente nelle letture dei rapporti tra ‘centro’ e ‘periferia’ e della costruzione della legittimazione politica. L’idea dell’esistenza di un blâd al-sibîa, terra dell’insolenza (contrapposta alla terra del governo, il blâd el-makhzen) è tutt’oggi ricorrente per indicare la propensione all’autonomia politica preponderante in alcune aree di nord Africa e Medio Oriente, in cui il legame sociale pregnante è di natura familiare e tribale.

L’innalzamento stesso del livello della protesta e del movimento rivoluzionario del 2011, secondo Mohamed Kerrou (2018 a), andrebbe ricondotto al fatto che la morte per autoimmolazione di Mohamed Bouazizi – in seguito all’alterco con l’agente municipale Fadia Hamdi – rientra in un concatenamento di identificazioni e opposizioni strutturali che tocca anche le corde dell’appartenenza tribale. I Bouazizi sono una frazione degli Horchane, gruppo appartenente agli Ouled (letteralmente figli di) Radhouane, intrattenenti rapporti di inimicizia con gli Ouled Aziz, gruppo di Fadia Hamdi, originaria di Meknassy, contrapposta a Sidi Bouzid. Il livello del lignaggio tribale (‘arch, con cui spesso in Tunisia si finisce con l’indicare la stessa tribù, qbila) è probabilmente «l’elemento chiave del conflitto interpersonale, che ha condotto all’autoimmolazione (Ivi: 29)» di Bouazizi. E così, quella forma di socialità familiare e territoriale ha preso in mano la protesta. Prosegue Kerrou: «i funerali di Bouazizi, tenuti nel luogo natale, furono l’occasione per la comunità di origine, supportata dai parenti e dai militanti, di sviluppare una solidarietà lignatica o ʿaṣabiyya opposta a quella del potere che fu insieme lenta a

25 Per una ricostruzione storica dell’affievolimento dei legami sociali comunitari tribali in Tunisia, in concomitanza con l’emergenza dello Stato-territoriale (in luogo di quello beylicale) e di un nuovo paradigma di soggettività individuale, cfr. Hénia, 2015.

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reagire, inefficace e arrogante nei confronti dei giovani e della periferia (Ivi: 30)».

Si sbaglierebbe a pensare segmentarietà e tribalismi come vestigia residuali interessanti solo per un antiquario o un antropologo. Oggi nuove figure del potere emergono prepotentemente dalla “terra dell’indolenza” e si affacciano sulla scena geopolitica internazionale: ne costituiscono esempi lampanti la produzione e il commercio della droga nel Rif marocchino (Mouna, 2010); l’organizzazione di cellule terroristiche facenti capo ad Al-Qaeda o Daesh e arroccate nelle impervie catene montuose tra Algeria, Tunisia e Libia; il mercato delle armi controllato dai signori della guerra in tutta l’area compresa tra Sahara e Sahel (Harmon, 2014). Si tratta solo di alcuni degli elementi con cui i processi postcoloniali di State building in nord Africa e altrove hanno dovuto e devono tutt’ora fare i conti.

L’idea della persistenza di aree ‘indolenti’ e ribelli rientra in un discorso pubblico teso a stigmatizzare, quando non a criminalizzare, regioni che sono state poste ai margini delle traiettorie dello sviluppo, quasi a invertire la causalità di ogni ragionamento – politico e scientifico – sulle diseguaglianze storiche che hanno caratterizzato i processi di formazione e consolidamento dello Stato, come vedremo nel paragrafo destinato alle discriminazioni territoriali nella Tunisia contemporanea.

Per quanto possa essere brandita strumentalmente, questa tesi non è comunque priva di una certa consistenza fattuale, se è vero che alcune rigorose letture storiografiche della modernizzazione dell’impianto statuale tunisino, che entra in una fase decisiva nella seconda metà del XIX secolo (Henia, 2015), attestano una dialettica intercorrente tra, da una parte, una formazione sociale – tribale – dall’organizzazione agnatica, predominante nella steppa tunisina precoloniale, che ingloba nel discorso genealogico la pratica economica agricola e il possesso della terra, e, dall’altra parte, lo Stato beylicale o territoriale; entrambi sullo sfondo di una sempre maggiore mondializzazione dell’economia (Valensi, 1977). In una precisa disanima storica dell’emergenza dello statuto politico dell’‘individuo’ in Tunisia, Abdelhamid Hénia (2015) evoca un parallelo tra le rivolte che nel corso del XIX secolo (in particolare nel 1864)

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intrapresero i gruppi tribali di pastori e guerrieri del centro-ovest tunisino contro le autorità centrali dello Stato beylicale, realizzatrici di una riforma fiscale ‘colpevole’ di stravolgere le gerarchie sociali tribali, e le rivolte coloniali e post-coloniali – ivi compresa la rivoluzione del 2010-2011 – originate proprio in quelle stesse regioni.

Ad ogni modo, bisogna considerare che alcune forme di conflittualità sociale trovano maggiore possibilità di attecchire in determinate regioni del Paese piuttosto che in altre. E questo proprio per differenziali economici e quotidiane condizioni di miseria e arretratezza che trovano espressione in quelle che Antonio Gramsci, limitatamente all’Italia di inizio Novecento, definiva come forme sporadiche e sovversive di ribellismo, prive di consistenza e indirizzo politico, che mantengono uno stato di febbrile effervescenza, senza tuttavia un avvenire costruttivo: «galli che annunziano un sole che mai non sorgerà (Gramsci 2014: 1155)».

Baccar Gherib, sindacalista tunisino nonché preside della Facoltà di scienza giuridiche, economiche e gestionali dell’Università di Jendouba, ha recentemente provato ad applicare categorie analitiche e concetti storiografici elaborati da Gramsci al contesto politico della transizione tunisina post-rivoluzionaria (2017). La ragione risiede nel fatto che Gramsci, pensatore della crisi e della transizione, può essere oltremodo prezioso nel pensare una Tunisia in cui è venuto meno il regime autoritario e inizia, pur tra mille balbettii, quello democratico. Sebbene la liceità dell’operazione non sia esente da appunti o perplessità (Kerrou, 2018 b), a partire dalla scontata celebrazione della fine del modello autoritario26, è innegabile che abbia una certa fondatezza l’individuazione di un nesso tra l’indebolimento dello Stato conseguente al processo rivoluzionario (allentamento dell’azione di governo, sfilacciamento burocratico, ecc.) e la comparsa – o meglio, il rafforzamento – di quel sovversivismo sporadico e non organizzato compiutamente da un punto di vista politico, legato al rifiorire di pratiche e logiche sociali informali, talvolta anti-

26 Certamente non può essere rimproverato a Gherib di aver fatto ricorso a un autore del passato per sbrogliare la matassa storica e politica dei nostri tempi. Quanto meno, egli non è il solo, se si pensa alla straordinaria risonanza del pensiero gramsciano in tutto il mondo (Baldussi, Manduchi, 2010; Kanoussi, Schirru, Vacca, 2012).

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statali, in un vasto campo di settori, dal commercio alla gestione dei rifiuti27.

Negli ultimi anni, il commercio informale e illegale di merci – arrivate perlopiù col contrabbando dalla Libia – ha conosciuto un’espansione particolarmente significativa anche nella capitale, Tunisi. L’economia informale e parallela, ‘produttività ai margini’ (Riotman, 2004), con i suoi attori e le sue forme autonome di regolamentazione parrebbe attiva nel minare l’autorità dello Stato.

Ce ne si accorge chiaramente percorrendo le strade di Tozeur, nel sudovest tunisino, disseminate di serbatoi e bottiglie di benzina irregolarmente importata dall’Algeria, venduta a prezzi stracciati – 1 dinaro e 300 millesimi al litro.

L’economia informale è essenziale per la ricomposizione del potere statuale nelle condizioni di estrema austerità economica in cui gran parte degli Stati, specie in Africa, almeno a partire dagli anni Novanta non possono più ottemperare a quella ‘unità nazionale fiscale’ costruita attraverso tassazione e sistema di welfare. In poche parole, l’economia informale – estesa su network spesso transnazionali – genera forme locali di accesso al reddito e media redistribuzione economica e protezione sociale che possono supportare la macchina statuale in periodi di crisi, indebitamento e austerità.

Oggetto di una percezione sociale sempre più legata al degrado e all’assenza di una macchina amministrativo-politica efficace in grado di assicurare rispetto delle regole e decoro urbano, la questione dei venditori ambulanti ha animato il dibattito pubblico tunisino nel 2017, fino a quando, nell’estate dello stesso anno, i venditori ambulanti sono stati cacciati dalla città28. Si trattava di ambulanti ‘anarchici’, privi di licenza, che occupavano abusivamente parti di spazio pubblico. Benché possa apparire lontana ogni affinità da quel modello di ‘istituzione pilota’, in

27 Tuttavia, l’indebolimento fisiologico della capacità di azione dello Stato post-rivoluzionario non implica di per sé il collasso della sua funzione egemonica. Le tesi che sostengono la continuità del sistema oltre la Rivoluzione del 2011 ne asseriscono la solidità.

28 Econostrum, Affrontements entre policiers et marchands ambulants à Tunis, https://www.econostrum.info/Affrontements-entre-policiers-et-marchands-ambulants-a-Tunis_a23440.html

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area mediorientale, che è per Clifford Geertz l’economia del bazar (1979), fatto sociale totale, anche dai circuiti dell’economia informale dipartono vari significati e funzioni sociali: lo scambio di informazioni, l’imbastimento di relazioni sociali, l’intessitura di reti di solidarietà; la definizione di identità e appartenenza etniche e politiche (Valensi, Udovitch, 1984).

Nei mesi di ricerca in Tunisia ho assistito frequentemente a momenti di conflitto tra la polizia e i commercianti non-in-regola. All’arrivo delle forze dell’ordine, quelli – perlopiù ragazzi – si allontanavano svelti con le loro merci per ritornare subito dopo a occupare il medesimo spazio. Una consueta drammatizzazione (Geertz, 1998) dei rapporti di forza, con la polizia che, come in tante altre località, specie transfrontaliere, non si prefigge la mera repressione dell’illegalità ma si limita a controllarne l’integrazione in ciò che resta di quel patto di sicurezza che costituiva la cifra del governo dell’era Ben Ali (Meddeb, 2011; Hibou, 2006). La tolleranza delle pratiche di contrabbando passa per una presenza dello Stato discreta e aggirabile ma comunque esistente, in grado di strutturare più campi sociali. Soprattutto, lo Stato trae convenienza dalla persistenza di reticoli economico-commerciali informali da cui la popolazione può ricavare una sussistenza – a partire dagli attori coinvolti in prima persona nel commercio – che lo Stato liberale fatica a garantire (Meddeb, 2011)29. Ritornando sui nostri passi iniziali, l’esistenza di una ribellione non organizzata ma costante veniva riaffermata da Boubakar, del bureau della Federazione Tunisina per i Diritti Economici e Sociali (FTDES):