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Stato, discriminazione territoriale, egemonia

1. Prima e dopo la Rivoluzione, la Tunisia (neo)liberale

1.5 Stato, discriminazione territoriale, egemonia

In queste pagine si intende esplorare il nesso tra il processo di costruzione dello Stato nazionale post-indipendenza e la discriminazione territoriale più volte evocata nelle pagine precedenti.

Nonostante che il cuore etnografico della ricerca presentata in questa tesi sia situato nell’area urbana della Grand Tunis, lavorare sulla Tunisia senza considerare le più ampie dinamiche territoriali che hanno giocato una rilevanza innegabile nel processo rivoluzionario e che ancora oggi ricoprono un ruolo rilevante nella fase conclusiva della transizione democratica equivarrebbe a condannarsi a una lettura superficiale di qualsiasi fatto sociale indagato. Inoltre, come suggerisce l’intitolazione del presente paragrafo, la discriminazione territoriale ha accompagnato i

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processi di State building nella Tunisia moderna e contemporanea, al punto che difficilmente le due questioni possono essere scisse.

Il pensiero dell’antropologia sullo Stato propugna un ampliamento delle griglie analitiche con cui la tradizione filosofica politico-occidentale lo ha pensato, al fine di non reificare questa istituzione alla stregua di un monolite detentore non solo del monopolio del legittimo uso della forza (Weber, 1998) quanto della legittimità incontestata a esercitare il potere. L’antropologia guarda allo Stato nel suo continuo farsi e disfarsi e nell’incessante processo di riaffermazione di autorità e legittimità, sottoposte a implicite o rivendicate contestazioni e rinegoziazioni con un’ampia schiera di attori sociali e agenzie (Gardini, 2016). Ciò appare ancor più vero nel regime neo-liberista contemporaneo in cui lo Stato va incontro a una complessa riarticolazione, concettualizzata sovente nei termini di ‘ritiro’ dal controllo politico ed economico della società (Harvey, 2007; Hibou, 1999); di ‘privatizzazione’ (Hibou, 2004) e di fallimento o addirittura di ‘criminalizzazione’, specie nei contesti extraoccidentali in cui l’autorità dello Stato appare severamente compromessa o screditata (Ferguson, 2006; Bayart, 1989; Bayart, Hellis, Hibou, 1999).

La recente letteratura antropologica individua nei margini e negli interstizi istituzionali il terreno in cui il dispiegamento dell’esercizio dello Stato nella legittimazione della sua autorità è tanto meno appariscente quanto più pervasivo. Il ‘margine’ appare come terreno elettivo per sondare il potere regolatore e disciplinare dello Stato in un’era in cui l’ossatura politico-economica globale tende a rappresentarlo come indebolito se non del tutto assente (Das, Poole 2004). Beninteso, il margine non è solo territoriale, posto ai confini dello spazio nazionale, ma è uno sito in cui «la legge e altre pratiche statuali sono colonizzate da forme di regolamentazione che emanano dalle necessità stringenti delle popolazioni di assicurarsi una sopravvivenza politica ed economica (Ivi, p. 8)».

La dimensione territoriale, in ogni caso, è forse la più semplice e immediata a venire in mente. Ai margini della nazione, lo Stato tenta di gestire o pacificare la popolazione sia attraverso la forza che con un

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progetto pedagogico mirato a trasformare soggetti indisciplinati in legittimi cittadini ‘soggetti al’ potere (ibidem).

Alcune dinamiche storicamente rilevanti riguardanti i contesti rurali e desertici della Tunisia rientrano in questa tipologia. Ibn Khaldoun (1968) aveva del resto concettualizzato una dialettica inestinguibile tra civiltà rural-beduina e urbana, la quale si sarebbe affermata inesorabilmente a detrimento della prima e da cui sarebbe sorta la civiltà islamica. Pur non potendo, oggi, accogliere acriticamente quelle concettualizzazioni dicotomiche, è legittimo rilevarne il peso nelle rappresentazioni culturali e nel senso comune.

Non lontano da Ksar Ghilane, nel sud della Tunisia, popolazioni nomadi – stanziali solo in alcuni periodi dell’anno – e beduine sedentarie sono andate incontro, almeno dal raggiungimento dell’Indipendenza, a un massiccio processo di sedentarizzazione intrapreso dallo Stato (Puig, 2003; Sandron, 1998).

Nell’arco di pochi decenni esse dovettero progressivamente rinunciare a un regime economico di autosussistenza per integrarsi nel quadro di un’economia di mercato (Zaafouni, 1996). Se oggi le popolazioni beduine non sono più rilevabili, quelle nomadi alternano periodi di stabilità a Douz a periodi di mobilità. Negli ultimi decenni, la transizione demografica ha toccato anche il sud tunisino. Per far fronte alla pressione dell’incremento delle nascite e al calo della mortalità, questi gruppi hanno diversificato l’attività economica. È in particolar modo l’emigrazione verso Tunisi, l’Europa e la Libia a costituire la cifra di un esodo senza precedenti. Chi resta, mantiene una doppia residenza, alternando periodi nella steppa a periodi di residenza nei piccoli centri urbani a qualche decina di chilometri di distanza.

Ma è solo l’estremo sud tunisino il margine della nazione?

L’otto ottobre del 2017 un’imbarcazione che trasportava una settantina di migranti, di nazionalità prevalentemente tunisina, cola a picco al largo delle isole Kerkennah, dopo una collisione con una nave della marina militare tunisina. Solo quaranta vengono salvati. Dei migranti a bordo della piccola imbarcazione, la maggior parte proviene da contesti rurali: Sidi Bouzid, Jendouba. Proteste divampano in tutto il Paese. A Bir El

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Hafei, nel governatorato di Sidi Bouzid, la popolazione manifesta e blocca l’accesso alla cittadine con delle (finte) bare, a denunciare la drammatica impossibilità di sostenere un progetto comunitario, di portare a compimento una riproduzione sociale e culturale volta al futuro, allo scambio intergenerazionale, alla trasformazione progressiva, e non alla morte. Le bare ratificano l’approssimarsi del caos, nonché la lucida percezione, da parte della gente del luogo, della catastrofe del mondano, del significante e dell’operabile, per ricorrere al lessico di Ernesto De Martino (1977).

Scene analoghe si sarebbero ripetute nel giugno del 2018, quando un altro peschereccio si sarebbe rovesciato in mare, dopo due ore dalla partenza, dalle isole Kerkennah, trasportando circa 180 migranti, di varie nazionalità, di cui almeno la metà tunisini. A morire più di cento persone, tra 74 morti ufficiali e una cinquantina di dispersi46.

Lo storico tunisino Hedi Timoumi (2014), citato di Baccar Gherib (2017), ha scritto che la contraddizione chiave della Tunisia è quella tra Tunisia costiera e Tunisia interna, al punto che la lotta di classe – generata, secondo la teoria marxista, dalle contraddizioni del modo di produzione capitalistico – non ha attenuato che flebilmente questa contraddizione. In poche parole, per Timoumi la matrice del conflitto sociale in Tunisia è la contrapposizione storica tra litorale e interno; tra urbano e rurale: assai più dirimente di quella ‘classica’ tra borghesi e proletari. I rapporti politici allora constano di una dimensione territoriale ineludibile per l’osservatore.

Il cronico sottosviluppo delle regioni interne del Paese e le rivolte lì originate autorizzano a parlare di una discriminazione territoriale sistemica che si è fatta Stato, dal momento che il processo storico di formazione di quest’ultimo è contrassegnato da un’evidente asimmetria (Hibou, 2015) tra il litorale e il resto del territorio.

Le ragioni storiche di tale disparità territoriale sono state ampiamente indagate in altri studi e ricerche, a cui si rimanda (Daoud, 2011; Pontiggia, 2016; Gherib, 2017; Brésillon, 2018).

46 https://www.globalist.it/world/2018/06/07/sono-oltre-70-i-morti-accertati-nel-naufragio-drammatico-di- kerkennah-2025706.html

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La frattura tra un’economia litorale redditizia e l’indigenza dell’Arrière Pays si sostanzia in una ‘colonizzazione interna’ esasperata dal regime coloniale, interessato a dotare di infrastrutture, servizi e industrie la fascia litoranea, a detrimento del resto del territorio (Bennasr, 2012). I due blocchi sono perfettamente integrati: la costa trae profitto dalla manodopera rurale costretta a emigrare verso le città e dalle risorse – in primo luogo i fosfati, ma anche l’acqua e i prodotti agricoli – delle regioni interne e del sud del Paese, quasi fosse una forma di confisca.

Con l’indipendenza, le cose non sarebbero affatto mutate. L’élite modernista che avrebbe impresso al processo di ottenimento dell’indipendenza la propria impronta, e che avrebbe continuato a detenere il potere politico ed economico ininterrottamente nella Tunisia post-coloniale altro non è che espressione della piccola borghesia cittadina del litorale, in particolare della fascia saheliana. Un vero e proprio ‘blocco storico’, concetto che Gherib (2017) mutua dal lessico gramsciano. Belhedi (2012), a sua volta ripreso da Stefano Pontiggia, suddivide lo spazio tunisino in tre macro aree: una spina dorsale – Tunisi, ipertrofica capitale, e i centri urbani costieri; una periferia costituita da territori legati a centri costieri da una rete di infrastrutture e dipendenza economica; i margini, in cui vengono estratte risorse. Si tratta di una configurazione socio-spaziale in cui lo sviluppo differenziato tra est e ovest del Paese denota una discriminazione selettiva nell’accesso ai servizi e al mercato del lavoro.

Guai a pensare i processi di formazione e costruzione dello Stato epurati dai riferimenti spaziali (Radcliffe, 2001), come nel caso dell’economia politica clientelare di Ben Ali che, anche nelle regioni più svantaggiate, assicurava il controllo e l’assoggettamento degli strati più deboli della popolazione attraverso l’erogazione di sussidi e servizi di assistenza47. Non è un caso che, nel tentativo di recepire le istanze popolari del 2010- 2011, siano stati perseguiti indirizzi di riforma istituzionale volti a

47 È il caso, ad esempio, del Fondo Nazionale di Solidarietà, creato negli anni Novanta per progetti di sviluppo e politiche sociali nell’interno del Paese. In realtà, «il Fondo si è dimostrato essere una tecnica di controllo dei cittadini tramite un meccanismo di solidarietà forzata e di gestione della povertà in quanto problema di sicurezza (Pontiggia, 2016:59)».

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produrre nuovi ordini territoriali, entro la cornice della decentralizzazione (cfr. III cap.).

Se la discriminazione territoriale è una delle chiavi discorsive di cui tenere conto in un lavoro sulla Tunisia contemporanea, altrettanta considerazione non è stata generalmente indirizzata alla comprensione della complessità di contesti urbani come, ad esempio, Tunisi, sito principale della ricerca oggetto di questa tesi.

Ed è un errore: come nella maggior parte dei sistemi urbani del sud del mondo, marcati da una evidente macrocefalia delle capitali, Tunisi è il prodotto vivente della sedimentazione di disparità storiche e diseguaglianze sociali (Chabbi, 2016).

Il fatto urbano, poi, è al cuore delle mutazioni che vive il Maghreb contemporaneo: l’urbanizzazione massiccia, rapida, forse brutale degli ultimi decenni ha generato nuove territorialità, nuovi modi di agire e ‘dirsi’ della città, ma anche inedite frammentazioni, che rendono di fatto le città del Maghreb attraversate da logiche plurime (Belguidoum, Cattedra, Iraki, 2015).

In particolare, il fenomeno dell’habitat spontaneo periurbano – che verrà presentato in queste pagine – si caratterizza come una chiara fattispecie delle abituali interazioni tra pratiche istituzionali e modalità di costruzione dell’identificazione ‘cittadina’ da parte degli abitanti (Berry-Chikhaoui, 2009). Inoltre, i mutamenti recenti di Tunisi illustrano la pluralità di forme ed esperienze dell’abitare e di retoriche identitarie ravvisabili nella città. Già nei decenni prima dell’indipendenza (almeno dagli anni Trenta), Tunisi ha visto raddoppiare la sua popolazione per l’afflusso di abitanti delle regioni rurali48, che hanno sovrappopolato la medina e alcuni sobborghi (come Bab Djazira e Bab Souika), dando vita a inedite formazioni urbane spontanee attorno alla città (Mejri, 2004). Se nella prima metà del Novecento gli ‘indesiderati’ del sudovest del Paese praticavano una migrazione stagionale o occasionale verso Tunisi, negli ultimi anni del protettorato francese nacque addirittura una ‘terza’ città, al fianco di quella antica, la medina, e di quella ‘moderna’, ideata

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dall’amministrazione coloniale (Copertino, 2010)49: si tratta di una cintura

di sobborghi spontanei, le gourbivilles50. È questa dialettica tra medine,

città nuove e bidonvilles ad articolare l’ordine trifunzionale delle città maghrebine, la trilogia urbana su cui tanto avrebbe scritto Jacques Berques (1958; 1974).

Questo esodo rurale, che avrebbe cambiato irreversibilmente il volto di Tunisi, va senza dubbio ricondotto alla proletarizzazione dei contadini delle regioni più interne, conseguenza delle dissennate politiche coloniali agricole.

La migrazione rurale non è comunque una novità nella storia di Tunisi. L’opposizione tra beldiya (vecchi cittadini) e barrâniya, nuovi arrivati, è semmai una costante (Sebag, 1998). Essa rinvia a precise rappresentazioni culturali volte a gerarchizzare pratiche, mestieri e appartenenze sociali. Come vedremo, infatti, ‘cittadinanza’ – nel senso di essere nella e della città51– richiama uno specifico repertorio di attività che contrassegnano il contesto cittadino; Berque (1974) ne enumera tre: lo studio, l’artigianato e il commercio. Non è un caso che per l’antropologo francese il fiqh, la giurisprudenza musulmana, è un prodotto storico ‘cittadino’, elaborato dagli ulamâ delle città (Kerrou, 2003). Seguendo questa linea interpretativa, le rifrazioni dell’urbano si estendono ad altri campi sociali, compreso quello religioso, rispetto al quale ha avuto considerevole peso nella storia degli studi il gioco di opposizioni strutturali tra grande tradizione – urbana, ortodossa, elaborata nei centri ortogenetici, confermata da ‘aḥâdîth (sing. ḥadîth) e sharî‘ah – e piccola tradizione – locale, sincretica, folklorica (Singer, 1972; Redfield, Singer, 1954). Se le migrazioni di inizio Novecento erano agite da persone che si installavano a Tunisi dall’entroterra per esercitare un mestiere specializzato, di cui arrivavano a detenere il monopolio, questo scenario

49 La bipartizione urbanistico-architettonica delle grandi città coloniali tra parti ‘vecchie’ lasciate alle popolazioni indigene e parti nuove destinate a bisogni e finalità di consumo dei coloni ha generato pratiche e politiche di segregazione (Copertino, 2010; Sebag, 1998) in cui vari autori hanno ravvisato l’origine della logica e della prassi del ‘campo’ di detenzione di soggetti percepiti e costruiti da un punto di vista sociale e culturale come inesorabilmente ‘altri’.

50 Da gourbi, abitazioni semplici costituite da capanne con tetti in paglia e mura in fango o pietra.

51 In questo senso, la lingua francese consente di ricorrere al concetto di citadinité, differenziandolo da quello ‘classico’ di cittadinanza espresso da citoyenneté.

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sarebbe in seguito mutato. La migrazione rurale della seconda metà del Novecento segue un altro modello antropologico e, cosa ancor più importante, vede lo sviluppo di una classe di sottoproletari e lavoratori giornalieri pronti a fare qualsiasi lavoro, privi com’erano di qualunque specializzazione, relegati ad attività marginali e quasi sempre disoccupati. Per Gallissot (1989) è proprio la proletarizzazione dei centri urbani a segnare la stagione ‘moderna’ dei tumulti nelle grandi città maghrebine nel XX secolo. I protagonisti delle rivolte tunisine del 1978, infatti, provengono soprattutto dalle gourbivilles e dalla nuova periferia dell’habitat spontaneo di Tunisi (Chabbi, 2016).

Il continuum rurale-urbano che spezza ogni tassonomia dicotomica tra città e campagna, portatrici di specifiche forme culturali, è rappresentato dalle masse di plebei urbani protagonisti della recente stagione rivoluzionaria, di cui scrive Asef Bayat (2015). Si tratta di persone, quasi sempre lavoratori, a basso reddito, con scarse capacità professionali ed esigui livelli di sicurezza sociale che abitano soprattutto circuiti di vita e lavoro informali. Molti di loro sono migranti rurali, alcuni recentemente giunti in città, altri di più antica urbanizzazione. Tra di essi trovano posto anche i ‘poveri delle classi medie’, su cui è incentrata questa tesi. Queste categorie sono accomunate dalla rivendicazione, particolarmente evidente nel periodo rivoluzionario in Tunisia come in Egitto, di una cittadinanza urbana con cui conquistare il diritto a esser parte integrante della città. Le Primavere Arabe portano nel cuore dello spazio pubblico cittadino masse urbane plebee generalmente escluse da esso.

Il passaggio dalla città coloniale a quella post-coloniale segna anche il passaggio da una frattura etnico-culturale (il dualismo tra città araba e città europea, tra medina e nuovi quartieri moderni) a una socio-spaziale: le classi medio-alte cercano respiro nelle aree a bassa densità abitativa di banlieues e periferie; gli strati popolari, invece si concentrano nella medina e nei suoi immediati sobborghi52. Nella medina, i cittadini beldi

52 La medina, alle prese con una massa di nuovi cittadini di origini rurali, subisce un processo di oukalizzazione: le antiche e belle dimore venivano divise e frazionate per essere affittate a nuove famiglie, più modeste. Lottizzate e divise in più parcelle, permettavano la convivenza di più unità familiari.

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‘tunisois’ abbandonano la vecchia città e si recano nelle banliue balneari di La Marsa, Cartagine, Rades, Hammam Lif. I nuovi abitanti (denominati

barrânî, stranieri) di Tunisi provengono dall’interno del Paese, specie dal

nord-ovest. Agglomerati di famiglie di origine rurale abitavano così le

gourbivilles, fuggendo dalla miseria delle campagne.

È a tal riguardo esemplificativa la cintura di insediamenti che sorge lungo i margini del lago salato, sabkhah, di Sijoumi, prospicente al cuore della città. Ai piedi della collina della Kasbah esisteva da tempo un centro abitato chiamato Melassine (dagli artigiani della ceramica, mallassin). Nell’arco di pochi anni, dopo la Seconda Guerra Mondiale famiglie provenienti dall’entroterra hanno costruito abitazioni fino ai bordi della

sabkhah, dando vita di fatto a una delle più grandi gourbivilles di Tunisi.

Tutto attorno ai quartieri popolari di El Wardia e La Cagna è ancora oggi un caotico amalgama abitativo, la cui connotazione popolare è particolarmente evidente a Cité Hlel, i cui riflessi rurali (a partire dalla condivisione dello spazio con capre, montoni e galline) sono chiari. Nel corso della ricerca, ho avuto modo di essere accompagnato da Adel, presidente di un’associazione territoriale a El Mourouj 2, tra i governatorati di Tunisi e Ben Arous, in un’esplorazione etnografica di quell’area.

Allontanandosi, di poco, in direzione di Sidi Hassine, è possibile osservare la presenza di abitazioni quasi sulla riva del lago: di fatto le fondamenta poggiano sull’acqua. Il livello della strada che attraversa la distesa d’acqua è più alto di quello delle case. In alcuni periodi, le abitazioni vengono invase dall’acqua, come testimoniava Adel. Qualche metro di distanza dall’acqua e prendono forma vigneti, appezzamenti agricoli. È la campagna nella città, il continuum rurale-urbano, a pochi minuti di automobile dal centro di Tunisi.

Lo Stato ha recentemente intrapreso la costruzione di una linea ferroviaria che colleghi questa zona al resto dell’area urbana. Tutto il perimetro della

Sabkhah è un gigantesco cantiere: come ebbe a dirmi Adel, esso in realtà

è anche un tentativo di arginare la progressione di quella pressione insediativa non regolamentata.

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Dagli anni Settanta del Novecento, infatti, una nuova forma di urbanizzazione segnò indelebilmente lo sviluppo di Tunisi: l’habitat spontaneo nella periferia occidentale della città, che metteva in causa le strategie di pianificazione urbana precedentemente intraprese (Chabbi, 1986).

I protagonisti di questo modello non erano, come un tempo, abitanti dell’entroterra. Il 63% degli abitanti di ‘nuovi’ quartieri spontanei era sì originario del nord-ovest rurale della Tunisia ma già residente a Tunisi. La novità di questa dinamica urbana risiedeva nella strategia comunitaria che la rendeva possibile: a ben vedere si trattava di migrazioni residenziali, operate in una logica di comunità. Per Morched Chabbi, il carattere comunitario dei nuovi raggruppamenti era certificato dal fatto che il 30% circa di questi abitanti fosse accomunato da legami di parentela.

E vengono in mente le considerazioni di Lila Leontidou (1990) che, nel trattare lo sviluppo urbano e il cambiamento sociale dei grandi insediamenti mediterranei, offre una lettura dell’abusivismo nei Paesi mediterranei capitalisti in termini di agency, imbastita per reagire al modo dominante di allocazione della terra. Contrassegnare l’habitat spontaneo di un’agentività sociale oppositiva, politicamente densa, significa riconoscere razionalità e dignità ai modi in cui le classi subalterne ‘lavorano sul mondo’ e intervengono sulla realtà che li circonda53.

Il territorio contrassegnato dall’autocostruzione ha oggi raggiunto in Tunisia il 50% della superficie destinata all’urbanizzazione (Bertini, 1996). A differenza che per le vecchie gourbivilles, che andavano incontro a frequenti demolizioni, lo Stato fu tollerante nei confronti delle nuove abitazioni. Come scrive Sebastiani (2014) a proposito di Etthadamen (‘solidarietà’ in arabo), quartiere anarchico per eccellenza e che negli anni Settanta ha visto quintuplicare la sua popolazione – che oggi conta oltre 200 mila abitanti, più della città di Kairouan – per effetto della disponibilità di terreno pubblico non immatricolato e a bassissimo costo, le politiche dell’alloggio realizzate dall’Indipendenza in poi «hanno

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sistematicamente sanato le borgate abusive, portandovi luce e acqua, asfaltando le strade, con il risultato che oggi la Tunisia può vantarsi di non avere baraccopoli (2014: 113)».

Con questa politica, lo Stato poteva inseguire l’inquadramento politico della popolazione, mediante la prossimità di cellule locali del Partito Socialista Desturiano. Il prisma delle dinamiche urbane consente di certificare come le relazioni tra Stato – bourguibiano e benaliano 54– e cittadini si collochino principalmente lungo uno spettro che va dall’assistenzialismo allo sviluppo di relazioni clientelari. Anche le rivendicazioni espresse dagli abitanti dei quartieri sfavoriti e deprivati venivano veicolate attraverso le cellule locali del partito di Stato per poter essere adeguatamente ascoltate e prese in considerazione (Legros, 2003). Inoltre, interventi di riabilitazione dei quartieri popolari vennero intrapresi, verso la fine degli anni Ottanta, per sottrarli all’influenza del movimento islamista (Chabbi, 1999)55.

Negli ultimi decenni, la morfologia urbana della Grand Tunis ha cambiato pelle: non solo per l’avvento di una dinamica economica (e spaziale)